L’evento della violenta realtà del Covid-19 ha sicuramente inciso nel contesto dei servizi territoriali e in tutta la clinica psicopatologica anche nell’ambito delle terapie nei contesti privati. Personalmente ritengo che questa situazione abbia introdotto e rese inevitabili alcune posizioni che, se escluse dal contesto del Corona virus, si presenterebbero estremamente violente nella relazione col paziente. In realtà, se ci riflettiamo, tali posizioni formalmente violente, rappresentano l’esasperazione di posizioni che sostanzialmente sono presenti sempre nella relazione terapeutica e, in fondo, nelle relazioni sociali della nostra vita. Si tratta della sostanziale diffidenza verso il contatto con un soggetto sostanzialmente estraneo; della possibilità (anzi: inevitabilità) che la relazione con l’altro avrà influenze nella nostra persona e nella nostra vita. L’avvento del Coronavirus ha giustificato le posizioni del limite, del rischio persino per la nostra vita, il riconoscimento infine di sane posizioni di impotenza. Ritengo che, pur nella loro drammaticità, queste posizioni ci permettono di ribadire comunque la nostra posizione di “psicologi” chiamati ad affrontare la realtà alcune volte molto drammatica assumendo una posizione “ad oltranza” psicologica il che non evita (anzi: impone) il riconoscimento rispettoso della realtà. In questa affermazione io ho una posizione netta e chiara. La posizione psicologica non va confusa - come un lessico diffuso e banalizzante spesso sarebbe incline a proporre – con una negazione della realtà concreta. Anzi. Io ritengo che la posizione psicologica rappresenti una posizione particolarmente potente nel poter cogliere la realtà ai livelli più profondi e reali. Nel caso delle violente sollecitazioni dovute al Coronavirus una posizione non psicologica suggerirebbe semplicemente l’evitamento e la fuga, mentre una posizione psicologica ci aiuta a rimodulare la nostra risposta in modo che, piuttosto che farsi rincorrere dal virus, si possano attivare modalità di incontro  in modo che sia possa individuare una posizione che riconosca e rispetti la pericolosità dell’incontro con un soggetto che, ora presenta in modo esplicito tutta la sua “ostilità”: “ogni volta che intraprendo un gruppo secondo le stile Tavistock, sono spaventato, soprattutto all’inizio. Mi sembra minaccioso… mi sembra che forse succederà qualcosa di terribile” (Bion, 1974, 353). La posizione “psicologica ad oltranza”, soprattutto nelle situazioni di gravi difficoltà contingenti permette, a mio parere, che si individui comunque (io direi: sempre!) una soluzione articolata e rispettosa della realtà, che permetta di  sapersene prendere cura. Un esempio scemo, ma spero utile. Se evitiamo di occuparci della domanda di aiuto psicologico che ci viene dai pazienti individuandoli soprattutto “portatori di minacciosi elementi infettivi” sicuramente non solo non risolviamo la domanda, ma collochiamo la domanda in una condizione che crescerà nella sua entità e pericolosità sino a travolgerci. Occuparsene, non rappresenta una modalità “buonista” o eroica, ma rappresenta la modalità più efficace di contenere la pericolosità della domanda e la posizione migliore di protezione della nostra persona oltre che della nostra funzione mentale. Ovvio che occuparsene significa usare dispositivi potenti che la nostra posizione psicologica (personalmente direi: psicoanalitica…) ci permette.

Ritengo che il maggiore e più potente dispositivo che la nostra posizione psicologica ci permette in questi casi sia rappresentato dal setting inteso non come una gabbia rigida che debba evitarci i contatti e le sorprese, ma come “dinamica del setting” (Bleger, 1967) che ci permetta continuamente di capire quale sia, momento per momento, la comunicazione di fondo, effettiva,  del paziente e ci permetta di assumere continuamente la posizione ottimale per accogliere la domanda ribadendo i nostri limiti (in fondo, il setting, rappresenta la nostra posizione di limite oltre il quale non abbiamo alcuna possibilità di intervenire nella relazione col paziente…). In questa linea, l’assunzione degli elementi relativi al Covid-19 nel setting ci permettono di presentare al paziente e di riconoscere noi stessi, in modo finalmente positivo, elementi che sono sempre esistiti al fondo della relazione terapeutica, ma che, finora, potevano essere evitati (anche fobicamente…) da parte nostra perché, nella relazione con i nostri pazienti, prevaleva l’etica dell’aiuto, della dedizione (alcune volte persino ideologica…) e dei “sacri bisogni” del paziente. Assumerei, quindi, gli elementi connessi all’avvento violento del Coronavirus come elementi  in sostanza sempre esistiti e che il Coronavirus semplicemente non solo ha esaltato, ma per alcuni versi ha reso riconoscibili e persino più accessibili. Fra i tanti possibili, penso in questo momento ad un suggerimento di Ogden (1989, 139) rispetto all’incontro con i nuovi pazienti che, ben oltre l’avvento del Corona virus, per definizione ci sollecitano alla fuga, ovvero all’evitamento “del proprio mondo interno e del mondo interno di un estraneo”. Questo comporta  l’onesto riconoscimento che, alla fine, le vicende legate al Coronavirus semplicemente mettono in evidenza la sana partecipazione umana del terapeuta il quale non può negare che, per una quota soggettiva che lo riguarda, “ha paura che il paziente rimanga”. In parallelo a questa posizione penso alla nota considerazione di Bion che, ben oltre vicende contingenti che possano procurare angoscia, suggerisce come  l’angoscia per i cambiamenti sia un elemento di base di ogni processo trasformativo. In questa linea le angosce legate alla violenza delle vicende relative al Corona virus, semplicemente evidenziano, e sono nella linea, delle angosce legate ai processi trasformativi: “in ogni studio di analista dovrebbero esserci due persone piuttosto spaventate: il paziente e lo psicoanalista. Se non sono spaventati, c’è da chiedersi perché si prendano il disturbo di scoprire quello che tutti sanno” (Bion, 1974, 353).

In questa linea di uso dinamico del setting che ci permetta di rispettare e accogliere i cambiamenti della realtà cogliendoli come sollecitazioni ad organizzazioni di adeguati dispositivi di setting, proporrei alcune considerazioni generali ed iniziali da una nota che sarà accolta in un prossimo numero monografico della Rivista Sperimentale di Freniatria sul tema delle “Trasformazioni del gruppo di lavoro in Salute mentale”. La posizione che propongo in questa nota e, a mio parere, sicuramente in sintonia con i necessari cambiamenti della posizione da assumere anche nei casi delle vicende pandemiche che stanno violentemente interessando i nostri servizi e la nostra vita. La mia posizione (Riefolo, 2020) è che, comunque, pur nella sua estrema drammaticità, le vicende connesse al Coronavirus vadano assunte come elementi di metasetting (Liberman 1972) e non debbano essere confuse con elementi processuali, ma, nella linea di Bleger, come elementi che ci debbano permettere di organizzare adeguati setting capaci di determinare processi che, nel nostro caso, rispondano alla vitale domanda dei pazienti. In queste condizioni estreme verifichiamo come i pazienti non chiedano soluzioni eroiche che li escludano, ma soluzioni trasformative del proprio dolore che li coinvolgano richiedendone, rispettandone e sostenendone la fatica creativa.

Servizi. La parabola vitale del gruppo degli operatori

“quando l’analista trascura i conflitti relativi alla sua propria

appartenenza, lascia il paziente solo dinanzi al suo terrore del gruppo”

Gaburri, Ambrosiano, [1, p. 105]

Premesse.

Il tema di questa nota, facilmente si declinerebbe in una rassegnata considerazione di perdita dei “gloriosi livelli” di collaborazione ed efficienza dei servizi “di un tempo” a fronte di evidenze innegabili in cui gli attuali servizi faticano a sostenere la domanda di aiuto terapeutico che viene dal contesto sociale. La mia posizione è sempre stata quella di considerare che, nella parabola di ogni processo vitale, sia che riguardi il singolo soggetto che contesti allargati, siano simultanei processi difensivi che tendono alla involuzione insieme a tensioni creative che per affermarsi devono necessariamente “distruggere creativamente” il contesto conosciuto e abituale. Lo sanno bene i fisici come anche gli economisti[1] e gli psicoanalisti. E’ nota in psicoanalisi la posizione di Bion che in una famosa intervista riconosce serenamente che “le istituzioni sono tutte le stesse: sono morte…  Io non sono in grado di dire a che punto ciò che è animato diventa inanimato.  Prendiamo, per esempio, un mucchio di letame. Sembra inanimato, poi compaiono i vermi e diventa animato. Il guaio di tutte le istituzioni è che sono morte, ma le persone che vi sono dentro non lo sono, anzi crescono, e qualche cosa deve accadere” [3, pp. 355-356].

Quindi, parto da una premessa. Non mi occuperò della ovvia ed automatica (oltre che naturale…) componente involutiva dei processi, mentre ritengo che sia nostro compito indagare, riconoscere e occuparsi delle tensioni potenziali al cambiamento che, necessariamente si insinuano nella sospensione e perdita degli equilibri abituali che caratterizzano la nostra continuità dell’esperienza. Da psicoanalista ho profondamente fede nel valore poietico della frustrazione come genetica del pensiero [4] e particolarmente della “Frustrazione ottimale” (Piaget) come fattore di complessificazione evolutivo del Sé [5].

In questa nota, assumerò il funzionamento del gruppo – nelle sue caratteristiche ed evoluzioni – come indicatore paradigmatico del funzionamento e dell’evoluzione dei servizi psichiatrici che ci riguardano.

Anticipo i punti della mia proposta:

1. Tra gruppo e servizio esiste una relazione dinamica complessa dell’ordine del Setting e del processo. Ovvero: tutto ciò che accade nel gruppo – il suo funzionamento e la sua parabola – è inevitabilmente connesso e determinato dalle caratteristiche del servizio (setting) a sua volta determinato dal contesto più generale. Se cambiano i parametri del contesto sociale, cambieranno i parametri del servizio e, quindi del gruppo. Questi parametri solo in minima parte possono essere scelti, ma sostanzialmente vanno accettati come dati di realtà. Pertanto, occuparsi del funzionamento di un gruppo in un servizio significa necessariamente considerare anche i parametri esterni al gruppo (sociali, culturali, economici,…) e in che modo essi incidono e determinano elementi strutturali (prima che dinamici) nel gruppo. Un esempio scemo, ma spero chiaro. Se sto analizzando le caratteristiche di un gruppo che è in Germania, difficilmente potrò sostenere che quel gruppo usi la lingua italiana (per quanto a me possa far piacere…), ma bisognerà accettare serenamente che la lingua usata sarà il tedesco con tutto quello che ne consegue, compresa la mia frustrazione e fatica;

2. Qualsiasi tipo di setting non va confuso con i processi possibili. Il setting è un non-processo che ha la funzione di permettere ed ospitare processi [6]. Solo in minima parte, soprattutto nelle istituzioni, possiamo intervenire nella costituzione del setting, mentre la nostra sostanziale responsabilità riguarda i processi rispetto ai quali abbiamo piena competenza di indirizzo creativo o meno;

3. Distinguerò fra setting vitali che chiamerò “generativi” e setting che chiamerò “maligni”. Nei primi è possibile mantenere e curare positivamente la fatica della frustrazione creativa, mentre nei secondi bisogna prendere atto che operazioni violente di potere impediscono e persino contrastano violentemente posizioni creative. La prima compete la nostra professionalità, la seconda bisogna “serenamente” riconoscere che attraversa e determina molti ambiti della nostra vita e (in proporzione diretta con le crisi economiche e culturali…) i nostri servizi pubblici. Chiamo questi setting “maligni” perché esprimono una violenza potente finalizzata all’evidenza del potere narcisistico dei soggetti piuttosto che alla loro dimensione creativa. Ognuno di noi ha sicuramente un lungo elenco di processi effettuati in “setting maligni”. Il problema è che nessuno di noi se ne riconosce la componente in cui è coinvolto, ma solo vittima[2].

4. Infine. La mia posizione di fondo è che solo nei processi può esercitarsi, intera, la nostra competenza attiva, mentre negli esiti intervengono numerose variabili e, alla fine, gli esiti dipendono solo in parte da noi. Ma questa non può essere una giustificazione, ma il riconoscimento onesto di una evidenza. Nonostante quello che può sembrarci evidente, ritengo che anche quando si assiste allo spegnimento di un processo, e alla decadenza di una parabola, bisogna concentrarsi sulle possibilità che questa “perdita” apre e rende possibili. L’idealizzazione del passato, spesso rappresenta una pericolosa coazione a ripetere.

Bibliografia

[1]            Gaburri E., Ambrosiano L., Ululare con i lupi, 2003, Bollati Boringhieri, Torino.

[2]            Schumpeter J. A. Teoria dello sviluppo economico, (1926). (seconda ed. riveduta), Sansoni, Firenze, 1971 (con introduzione di P. Sylos-Labini).

[3]            Bion  W. R. Intervista in Il cambiamento catasatrofico, 1974,  Loesher, Torino, 1981.

[4]            Freud S. L'Io e l'Es, (1922).  O.S.F., 9, Boringhieri, Torino.

[5]            Kohut H. La cura psicoanalitica, (1984), Bollati-Boringhieri, Torino, 1986.

[6]            Bleger J. Psicoanalisi del setting psicoanalitico, (1967) in: C. Genovese (a cura di) Setting e processo psicanalitico, pp. 243-256, Cortina, Milano, 1988.  

            Riefolo, G. (2020), "Corona Setting. Psychoanalysis in the Time of the Virus", in Fear of Lockdown. Psychoanalysis, Pandemic Discontents and Climate Change, edited by Giuseppe Leo, Frenis Zero, Lecce 2020.                                                                       

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX

XXXXXXXXXXXXXXXXXXX