Questo testo propone un tema delicato e, a vari livelli, anche urgente. Si tratta di “rivalutare” Janet rispetto all’oblio di cui sarebbe responsabile un certo uso e successo della psicoanalisi o, come io ritengo, si tratta di integrare le posizioni psicoanalitiche rispetto a limitazioni che Freud, forse per necessità contingenti di sostegno ad una teoria nuova e, quindi fragile, necessariamente impone alla propria posizione teorica agli esordi della psicoanalisi?. In questo volume convergono sicuramente i maggiori clinici che, da diverse posizioni teoriche, propongono da anni la ripresa delle posizioni  soprattutto teoriche, prima che terapeutiche, di Pierre Janet. Il testo, per ovvi motivi, forse soprattutto dovuti alle posizioni soprattutto di radice cognitivista della gran parte degli autori, potrebbe sembrare avere un tono di “rivalutazione” delle tesi di Janet. Ad un’attenta lettura questo non è poiché a vari livelli, molti dei contributi sono nella linea di delineare una continuità tra le posizioni di Janet e di Freud (Cassullo pp.72 e segg).

E’ un volume che segue, sempre da parte dello stesso gruppo di studiosi che fa riferimento a Giovanni Liotti , altri due volumi dove per la prima volta sono state tradotte in italiano volumi di Janet (Janet; 1889; 2016).  Penso che per un analista la proposta di questo volume abbia il senso di ampliare l’orizzonte teorico soprattutto verso posizioni in cui il paziente rivendica sostegno e partecipazione nella definizione di processi di ordine creativo. Sono finalmente superate le sterili posizioni che mettono in opposizione Freud e Janet. Ciò è dovuto alla sottolineatura delle caratteristiche personali dei due personaggi: “le personalità dei due uomini erano, come i loro approcci alla realtà, contrastanti” (Meares, Barral, 144), un approccio purtroppo ancora attivo (cfr. la lunga introduzione a Janet di Orbecchi, 2014). C’è da riconoscere che la natura umana e l’ovvio narcisismo dei due personaggi, abbia per molto tempo sostenuto questa conflittualità. La inaugurano Freud e Breuer sin da subito e la coltiva acutamente lo stesso Janet. E’ indicativo che tale conflittualità si sostenga su argomenti sostanzialmente risibili: Freud e Breuer, generalizzando il concetto di Dégénérescence, molto usato dalla psicopatologia francese – per quanto affatto distintivo della scuola della Salpêtrière – e associando la Degenereascence ai concetti di faiblesse psychique e di perdita della capacità di sintesi, accuseranno Janet di “Posizione di passività” (cita). Parallelamente, Janet, a fronte dell’ampio successo delle tesi psicoanalitiche rivendicherà come proprie alcune definizioni – prima che concetti – utilizzate dalla psicoanalisi. Questa, comunque e cronaca e a noi interessa relativamente.

Nel testo, il puntuale capitolo introduttivo di Rudnytsky che, come altri capitoli, si rifà molto al testo di Ellembergher (1970), fornisce precise notazioni di queste vicende biografiche che riguardano i rapporti conflittuali e le notevoli differenze caratteriali dei due personaggi. Russel Meares e Cecile Barral (p. 145) riportano al periodo intorno al 1905 i grandi cambiamenti nel mondo della cultura e dell’arte laddove  Einstein pubblica la prima versione della relatività e Kandinsky riconosce  il profondo turbamento che le teorie della disintegrazione dell’atomo gli avevano prodotto.  Sta di fatto che le due posizioni psicopatologiche realmente all’inizio presentavano – e se assunte secondo posizioni rigide, presenterebbero tuttora – livelli di incompatibilità. Il testo curato da Craparo, Ortu e van der Hart riesce, a mio parere, a dare ragione delle differenze e delle convergenze. Questo è importante; altrimenti la storia di Freud e Janet procederebbe ancora fra prevalenze dell’una sull’altra posizione viste come alternative.

Personalmente ritengo che la differenza sostanziale con cui la psicoanalisi deve cimentarsi non sia la riabilitazione o meno di Janet, ma la necessità che la teoria possa disporre di ulteriori ipotesi che permettano di spiegare e di intervenire sul trauma. La psicoanalisi ha spiegato il trauma come l’intersezione fra eventi e percorsi eccitanti e l’inadeguatezza di sufficienti apparati, fisici e poi mentali, per sostenere le eccessive “quote di energia endopsichica” che l’eccitamento comporta. Dagli anni ’70 la psicoanalisi tenta nuove vie per ampliare il proprio campo teorico: le pulsioni su cui il soggetto poggia la propria vita lasciano spazio alla dimensione tragica dell’uomo (Kohut). Ciò che fino a quel momento era una colpa sancita dal Super-Io e che l’Io doveva affrettarsi a rimuovere, lascia spazio al riconoscimento della fatica e del limite del soggetto di fronte alle sollecitazioni della realtà. Non a caso è questo, gli anni ’70, il periodo in cui vengono ad essere riconsiderate le tesi di Janet. Il concetto di dissociazione diviene centrale e, intorno ad esso, le vicende che riguardano proprio i destini di tale concetto. Fairbairn (1954) intuisce bene che la dissociazione – che pure Freud aveva colto a Parigi da Charcot – non è compatibile con le tesi della prima psicoanalisi di Freud. Non vi sarà mai un disconoscimento esplicito, ma nella sostanza, Freud la sostituisce con il concetto di rimozione (cita). In questa operazione il campo della dissociazione rimarrà sospeso e sostanzialmente tralasciato dalla teoria psicoanalitica. Non stupisce, quindi, che la dissociazione, tralasciata da Freud,  venga poi assunta come elemento distintivo di patologie gravi quali le schizofrenie di Bleuler (1911) fino ad assumere, implicitamente, un significato di gravità psicopatologica (Green, 1997).

IL libro si occupa ripetutamente – ma già il titolo lo anticipa – dell’evento del trauma a cui, secondo Janet il soggetto risponde con una condizione sospesa di désagrégation  psychique, mentre per Freud, il trauma chiede la rimozione. Anche per Janet uno degli esiti del trauma era  l’occultamento dell’esperienza traumatica, ma a differenza di Freud che la vedeva come centrale e strutturale, l’occultamento dell’esperienza traumatica per Janet era una fase transitoria del complesso processo della dissociazione che dalla desagregation procedeva alla recomposition fonctionnelle, all’occultamento dell’esperienza traumatica fino alla dissociazione attiva del sintomo suggerita (ipnoticamente) dal medico.

Uno dei capitoli iniziali (Craparo, Ortu) pone il punto su quella che sarebbe la cifra della posizione di Janet ovvero il concetto di “sintesi”. Una prospettiva analitica la vedrebbe come “integrazione nel sé dell’esperienza” ed una prospettiva neurobiologica come la continua riorganizzazione dello stato di coscienza a seguito della esposizione del soggetto in relazione ad un oggetto (Damasio, 1998). La sintesi, per Janet corrisponde al continuo movimento e negoziazione verso il contesto esterno da parte del soggetto che fa esperienza. La dissociazione deriverebbe dalla verifica da parte del soggetto della propria fragilità nel percorso dell’esperienza e si declinerebbe in sospensione della capacità di sintesi e, come negli isterici, in “restringimento del campo della coscienza”. Da qui l’antica accusa a Janet di teoria del deficit, ma gli autori hanno modo di precisare come, a differenza di un deficit si tratti di un diverso livello di funzionamento psicologico: “la debolezza di sintesi psicologica lascia sussistere fenomeni psicologici ma non li connette con la personalità” (58). Non si tratta, quindi, di deficit, ma dell’emergenza di livelli diversi di funzionamento, comunque sostenuto dalla “tensione psicologica” (concetto che, come ci ricorda Janet mutuerà dall’amico Bergson se vogliamo, un dispositivo un po’ più generico del concetto di pulsione, che sarà centrale nella prima psicoanalisi). Nel testo, vari autori- soprattutto Russel Meares - proporranno il nesso fra questa concezione dei “livelli plurimi di funzionamento psicologico” con le posizioni organodinamiche di Jackson e poi di Henry Ey,

Il sottotitolo del libro, non a caso, propone “nuovi contesti per la psicoanalisi”, ovvero che ci sia spazio perché alcune posizioni teoriche di Janet e di Freud possono integrarsi a vicenda (Riefolo, 2020a; 2020b; Gaddini, Riefolo, 2020). Peraltro questa continuità, nei fatti, è sollecitata, a mio parere soprattutto dalla clinica. La psicoanalisi - soprattutto classica – ci permette di cogliere le modalità e le economie difensive dei quadri psicopatologici, mentre le posizioni di Janet ci sostengono soprattutto nella linea di cogliere le tensioni di ripresa di processi dissociativamente sospesi che chiedono soluzioni creative di continuo dialogo del soggetto con il suo contesto relazionale e sociale. Nel testo (p. 155) sono riportati studi che documentano in modo strumentale differenze  fra la dissociazione attiva (freudiana) e passiva (janetiana). Per quanto mi riguarda, le posizioni di Janet aiutano il clinico psicoanalista nell’incontro con i pazienti difficili quali soprattutto i border. Mucci, Craparo e Lingiardi (p. 116) ne indagano le relazioni con stili di attaccamento disorganizzato e configurazioni di “Sé alieni” (Target e Fonagy) In questi casi, prima che il registro simbolico, si impone il registro dell’acting, e quindi di quello che alcuni analisti hanno definito “processo dissociativo” (Bromberg, 2006)

Le tesi di Janet, come emerge abbondantemente già dall’indice del volume, pongono al centro della posizione clinica il concetto della dissociazione. In tutti i capitoli del libro viene ribadita la differenza sostanziale del concetto di dissociazione da Freud a Janet (Freud, peraltro come si sa abbandonò ben presto tale concetto a vantaggio della “rimozione”). Sarebbe lungo descrivere la parabola che segna le differenze fra le posizioni freudiane e janetiane su tale concetto: il libro se ne occupa abbondantemente e da svariati vertici.  Basti solo segnalare come la dissociazione in Janet si ponga come un campo ampio e articolato che procede dalla désagrégation iniziale ai movimenti ampi della recomposition fonctionnelle. La ricomposizione dissociativa, per Janet, si emancipa dal blocco della rimozione e si organizza in un continuo movimento di “adattamento” in cui l’Io è un sistema (peraltro dalla costituzione instabile) in continua tensione verso l’unità, prima che “sua maestà”.

Negli anni’70 con Kohut la psicoanalisi introduce il vertice dell’uomo tragico che non ha la “colpa” della difesa che si compie nella rimozione, ma la “difensività” (Kohut, 1980,   ), ovvero un comportamento orientato al diritto del soggetto di poter mantenere una continuità del proprio senso di Sé e a cui vengono autorizzati stati del Sé precari che possono realizzarsi e sostenersi attraverso l’incontro con Oggetti-Sé. Il Sé fragile non è più l’esito di una colpa, ma una dimensione che attende realizzazione e sostegno che, la psicoanalisi post kohutiana descriverà relazionale. Questo permette che le posizioni di Janet si prestino alla teorizzazione psicodinamica ed anche psicoanalitica come importanti suggerimenti teorici che permettono l’assunzione della fragilità come momento della dissociazione e come posizione che attende ricomposizioni creative le quali, necessariamente, potranno realizzarsi nel campo relazionale. E’ nota la descrizione dell’Io, da parte di Janet (1897, 56) come di “un re troppo debole, la maggioranza dei cui sudditi è in perpetua rivolta”. Si tratta di un equilibrio instabile e continuamente mobile fra capacità associative ed automatismo psicologico, ovvero fra il polo del monoideismo (la catalessia e le idee fisse) e “l’assemblea deliberante” (Janet, 1929, 415), fra emergenza di dinamiche regredite di ordine automatico e dinamiche creative che emergono dalla capacità di sintesi che il soggetto opera fra i due poli della  dissociazione restaurativa e creativa. L’Io di Janet è un sistema in continuo movimento, che tende ad oltranza alla unità.   “Tutto ciò esiste contemporaneamente nella mia mente…” (Janet, 2015, 206). A seguito del blocco di questo movimento circolare, composto da elementi non sequenziali, ma simultanei, interviene la patologia con tutto il suo correlato di sintomi. L’Io è continuamente in contrapposizione allo stato di désagrégation, concetto che deriva da Moreau de Tours che si evidenzia nella clinica come  “mancanza di unità mentale” ovvero una incapacità a ad integrare esperienze mantenendo un senso di Sé coerente (148), “sensazioni… ridotte allo stato di polvere mentale… non sintetizzate… coscienti ma non personali” (54) . Qui un concetto che spesso ha permesso le accuse verso le tesi di Janet come di teoria del deficit.  In realtà – e questo va riconosciuto ai numerosi contributi del volume – l’accento non va posto sulla “mancanza” o “incapacità” quanto sulla “tensione alla unità”. La psicoanalisi, a mio parere non può più esimersi dal riconoscimento che il progetto delle cure è proprio nella tensione alle nuove sintesi, prima ancora che la giustificazione dei quadri patologici. Ogni posizione teorica, a questo punto, avrà modo di usare Janet secondo i propri canoni: Le posizioni più orientate a modelli  cognitivisti e comportamentali privilegeranno la posizione di “adattamento”.

La psicoanalisi, nella adozione delle posizioni di Janet si muove nella linea di assumere posizioni di maggiore complessità. I soggetti della stanza di analisi sono continuamente occupati nelle “costruzioni” e le inevitabili “ripetizioni” e, prima che occuparsi del sintomo o della resistenza, assumono la funzione di sostegno e garanzia ai possibili percorsi creativi. In fondo, da tempo la psicoanalisi ha smesso di essere la scienza del sospetto che, sullo sfondo potrebbe anche rimanere, ma  non è ciò che spinge i pazienti a chiedere il nostro aiuto, quanto invece, nonostante i blocchi che la propria vita porta, nella stanza di analisi pazienti ed analisti cercano di “rimanere se stessi nel cambiamento” (Bromberg, 2006)

Riferimenti bibliografici

Bromberg Ph.M. (2006). Destare il sognatore, Cortina, Milano, 2009.

Ellemberger H.F. (1970). La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica. Boringhieri, Torino, 1976.

Fairbairn W.R. (1954). Osservazione sulla natura degli stati isterici, in   Il piacere e l’oggetto,  Astrolabio, Roma, 1992.

Gaddini A., Riefolo G. (2020).  ‘‘I-ness’’ and the dissociative process. Working with defensive and creative dissociations in the analytic process, Am. J. Psychoan., 80, 53-68.

Green A. (1997). Le chiasme: prospective, les cas-limites vus depuis l’hystérie, rétrospective, l’hystérie vus depuis les cas-limites (II) Bull. Fed. Europ. de Psychanalyse, 49, 28-46,

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Orbecchi M. (2014). Prefazione a “Pierre Janet, La Psicoanalisi”, Bollati Boringhieri, Torino.

Riefolo G. (2020a). Sgreto e nuove concezioni dell’inconscio, Psiche, 2, 361-372.

Riefolo G. (2020b). Scenari dissociativi nella stanza di analisi. I miei tre pazienti del giovedì mattina, Riv. di Psicoanalisi, LXV, 4, 1011-1025.