1)
DM Dott. Schinaia, la ringrazio per essersi reso disponibile a
questa
intervista. Come psicoanalista lei si è occupato del rapporto
tra
interno e esterno, psiche e ambiente nell’ambito della
teoria
e della clinica psicoanalitica. Potrebbe dirci come è nato
questo
suo interesse?
1)
CS Da molti anni mi occupo dello scambio osmotico tra interno e
esterno,
tra conscio e inconscio, tra individuo e gruppo, tra organizzazione
mentale
e organizzazione sociale, tra natura e cultura.
Il
continuo instabile ridefinirsi delle relazioni fra i differenti
territori,
attraverso i loro mutamenti, le loro trasformazioni, le
loro
riorganizzazioni, si costituiscono come una questione assai
delicata
nel doppio registro intrapsichico e interpersonale. Noi
siamo
circondati dall’ambiente, respiriamo l’ambiente, dipendiamo
dall’ambiente,
ma al tempo stesso lo teniamo dentro di
noi,
nei nostri sogni, nei nostri conflitti nelle nostre menti, nelle
nostre
angosce, nelle nostre paure. Nel 2016 è uscito il mio libro
Interno
Esterno. Sguardi psicoanalitici su architettura e urbanistica
(Alpes,
Roma), tradotto in inglese (Karnac, London) e in spagnolo
(Biebel,
Buenos Aires). Proseguendo nelle considerazioni
presenti
nel libro, il mio intento è quello di mostrare come la psicoanalisi
possa
non essere un lusso, ma una risorsa preziosa da
sfruttare
adeguatamente per approfondire lo studio dei meccanismi
di
difesa individuali e comunitari nei confronti della presa di
coscienza
dei gravi problemi ecologici dell’oggi, delle catastrofi
ambientali,
che necessariamente riorientano il pensiero sulla psiche
e
sulle sue dinamiche. Non si tratta del vecchio concetto di
psicoanalisi
applicata, ma, come direbbe Lacan, di una psicoanalisi
implicata,
capace di confrontarsi con gli altri linguaggi scientifici,
di
ascoltare l’ascolto degli esperti del campo che va a investigare.
Quando
sono nella stanza di analisi, la relazione analitica
con
i pazienti è necessariamente in rapporto con le forze esterne,
prima
fra tutte i cambiamenti climatici e il modo in cui consciamente
o
inconsciamente vengono registrati dentro di noi. Janine
Puget
e Leonardo Wender (1982), parlano di mondi sovrapposti
(mundos
superpuestos), quello
del paziente e quello dell’analista,
entrambi
attraversati dalle contraddizioni sociali, dalle ideologie,
per
cui non è possibile fare riferimento a un’asettica dinamica
transfert-controtransfert
sganciata dai riferimenti culturali e
ambientali
di ognuno dei due, che spesso sono gli stessi. Puget e
Wender
fanno riferimento al concetto di vinculo,
originariamente
introdotto
da Enrique Pichon-Rivière (1971), che si fonda sull’idea
che
la realtà esterna e quella interna non sono entità contrapposte,
ma
in continuo rapporto dialettico, un movimento a
spirale
che determina il funzionamento mentale. Pertanto, il
vinculo
include
l’interno, l’esterno e un terzo originale, costituito da
entrambe
le realtà. L’automobile con cui noi e i nostri pazienti
raggiungiamo
i nostri studi, gli edifici che incontriamo sul nostro
percorso,
gli interni degli studi, il riscaldamento, l’aria condizionata,
la
nostra alimentazione: tutto poggia sul consumo di carburanti
fossili
ed entrambi, paziente e analista, siamo coinvolti e
influenzati
nelle modalità con cui simbolizziamo, nei nostri sogni,
nelle
nostre fantasie inconsce, che si incontrano, scontrano, confondono
fino
a generare nuove realtà psichiche nella stanza di
analisi.
2)
DM Leggendo i suoi scritti, sono frequenti i riferimenti a Freud e
al
suo pensiero relativo alla civiltà e in particolare al rapporto
conflittuale
uomo-natura. Pensa che il pensiero freudiano possa
ancora
essere attuale?
2)
CS Nel saggio Il
disagio della civiltà del
’29 Freud sembra voler
proporre
le basi per un’etica della collaborazione e della solidarietà,
in
cui ognuno rinuncia a qualcosa in nome del bene comune.
Ma
quella rinuncia pulsionale così al centro della sua riflessione
nelle
relazioni all’interno del genere umano, sembra avere
meno
forza nella definizione del rapporto dell’uomo con l’ambiente.
Freud
sostiene che l’uomo nella sua inevitabile precarietà
debba
proteggersi da una natura crudele e matrigna, dalla forza
soverchiante,
selvaggiamente disordinata, assoggettandola con la
tecnica.
Nonostante l’umanità venga dipinta come un bambino
debole,
indifeso e spaventato da una Madre Natura terribile e
potente,
il pensiero di Freud non è lineare, tanto che in altre parti
dei
suoi scritti ci mette in guardia contro il mito assoluto del
progresso,
contro la glorificazione della tecnica e il suo uso per
fini
eminentemente utilitaristici. Scrive in “Avvenire di un’illusione”
(1927,
p. 436): “Le
creazioni umane sono facili da distruggere
e
la scienza e la tecnica, che le hanno edificate, possono anche
venire
usate per il loro annientamento”.
Inoltre, nel saggio
“Caducità”
(1915) Freud suggerisce come l’ambiente e gli oggetti
affettivamente
investiti possono essere esperiti in un clima di
perdita
incipiente e di paura incombente della fine. Il lutto esperito
dal
poeta, testimone passivo di un’eventuale futura distruzione,
non
è elaborato, ma si tratta di una difesa narcisistica per
evitare
l’autentico e doloroso processo del lutto attraverso la sua
anticipazione.
In
conclusione si può dire che, se da un lato Freud descrive una
natura
da amare e da rispettare, dall’altro la indica come da sottomettere
necessariamente
alle esigenze di dominio dell’uomo civile.
Freud,
uomo del suo tempo, non poteva prendere in considerazione
la
stretta e paradossale connessione tra l’assoggettamento
tecnico
della natura e la polluzione, la produzione universale
di
sporcizia e rifiuti di ogni tipo, come possiamo osservare ai
giorni
nostri.
3)
DM In che termini ha valore il pensiero di Searles, che sviluppa
originalmente
la teoria di Winnicott circa il rapporto con l’ambiente?
3)
CS Bisogna attendere gli anni sessanta perché cominci una più
accurata
riflessione psicoanalitica sul rapporto uomo-ambiente.
È
stato lo psicoanalista americano Harold F. Searles , negli anni
sessanta,
in cui incombeva la minaccia atomica e la paura della
distruzione
del pianeta, a dare senso e valore all’ambiente “non
umano”,
all’habitat quotidiano, amplificando le intuizioni di
Winnicott
a proposito della fusione del bambino con la madre
(ambiente
umano) e del “set-up uomo ambiente” e sottolineando
come
le cose del mondo abbiano una risonanza psichica. Winnicott
in
Il muro di Berlino
ha introdotto un
concetto ampio di sostegno
ambientale
e dei suoi effetti sullo sviluppo delle persone,
rendendole
capaci di “sopravvivere” alle tenaci paure di disintegrazione
e
a tenere insieme i conflittuali bisogni di stare soli e di
essere
in relazione con gli altri.
“I
processi maturativi innati nell’individuo sono potenziali e hanno
bisogno,
per la loro realizzazione, di un ambiente facilitante di un
certo
tipo e grado e ci sono delle importanti variazioni nell’ambiente
sociale
a seconda del luogo e del tempo”
(Winnicott, 1986, p.
237).
Searles
fa riferimento alla famosa affermazione di Winnicott:
“Non
esiste l’infante” (1965). Per Winnicott un infante scollegato
dal
suo ambiente è impensabile, letteralmente: “dove
c’è un infante
c’è
anche l’assistenza materna, e senza quest’ultima non ci
sarebbe
l’infante”
(Ibid.,
p. 45).
Il
mondo vegetale, gli animali, le strutture architettoniche degli
ambienti
domestici ed extradomestici, le suppellettili, l’arredo,
giocano
un ruolo altrettanto determinante dell’ambiente affettivo
e
del milieu sociale per la formazione psichica, soprattutto
nell’infanzia.
Searles scrive il libro L’ambiente
non umano nello
sviluppo
normale e nella schizofrenia all’età
di sessantacinque
anni;
non l’avrebbe potuto scrivere – egli afferma – a quarant’anni,
quando
era ancora impegnato nella lotta di differenziazione
dal
“non umano”. Searles descrive all’interno dell’individuo,
a
livello conscio o inconscio, un senso di colleganza con
l’ambiente
non umano, di intima affettività tra i processi della
vita
umana e quelli ambientali, che deve essere riconosciuto e rispettato
per
il proprio benessere psicologico, per alleviare la sua
solitudine
esistenziale nell’universo. Questo senso di colleganza
dell’umano
con il non umano ha cominciato ad essere distorto,
interrotto
in concomitanza con il deterioramento ecologico che
provoca
angosce e difese di diverso ordine. Quindi afferma che
l’apatia
generalizzata che si può osservare nel genere umano in
relazione
alla crisi ecologica si basa largamente su difese dell’io
inconsce
contro angosce di vario genere e che si manifestano a
vari
livelli in relazione allo sviluppo dell’io degli individui. Il
nostro
rapporto
con l’ambiente è intriso di ambivalenza e distruttività,
e
le difese dell’io, oscillando tra dipendenza e controllo,
sottomissione
e
sfruttamento, invidia e gratitudine.
Searles intende
l’ambiente
non soltanto come un passato iscritto dentro di noi e
attualizzato
intorno a noi, ma anche come un futuro non ancora
nato:
quello delle generazioni che verranno sulle quali facciamo
pesare
le conseguenze del nostro attuale rapporto con la biosfera.
4)
DM Anche Melanie Klein con le sue formulazioni teoriche sulle
posizioni
schizoparanoide e depressiva, insieme alle osservazioni
dei
postkleiniani, possono aiutarci a individuare quali possano
essere
gli elementi inquinanti a livello psichico?
4)
CS Searles fa riferimento non soltanto a Winnicott, ma anche
alla
teoresi kleiniana, che influenzerà notevolmente anche il pensiero
degli
psicoanalisti che in questo secolo si sono occupati delle
difese
psichiche in relazione alla presa d’atto dei gravi cambiamenti
climatici.
La regressione dalla posizione depressiva, la mobilizzazione
di
meccanismi schizoparanoidi e la distruttività inconscia
sono
la base concettuale su cui si fonda il loro pensiero.
Per
esigenze di brevità riporto succintamente soltanto il pensiero
di
tre colleghi:
Sally
Weintrobe (2013a, pp. 7-8) suggerisce che, quando ci confrontiamo
con
il cambiamento climatico, entrano in gioco tre differenti
forme
di rifiuto: Il negazionismo, il diniego e la negazione.
Ognuna
di queste forme implica in modo radicale effetti differenti:
a)
Il negazionismo è
facilmente riconoscibile e consiste nella diffusione
intenzionale
della disinformazione per interessi politici,
ideologici
o commerciali. È una modalità difensiva organizzata e
pianificata
in termini grandemente cinici e la ritroviamo nelle
campagne
politiche o nelle schede esplicative che promuovono
un
prodotto, riducendo il valore o mettendo tout
court in discussione
le
stesse scoperte scientifiche in tema di cambiamento climatico.
b)
La negazione comporta
l’affermazione che qualcosa “non c’è veramente”,
quando
invece è vero che c’è e ci aiuta difenderci dall’angoscia
e
dalla perdita. È una modalità di rifiuto che si costituisce
come
il primo stadio transitorio del lutto nell’accettazione
di
una realtà dolorosa, difficile da sopportare. L’individuo dice
no
alla realtà, ma non la distorce.
c)
Il diniego presenta
un problema più serio, in quanto contemporaneamente
sappiamo
e non sappiamo. Da un lato la realtà è conosciuta
e
accettata; dall’altro, con una sorta di alchimia psicologica,
il
suo significato è fortemente minimizzato. Nel tempo
questa
modalità difensiva risulta particolarmente pericolosa e
intrattabile
perché le nostre difese tendono a diventare sempre
più
rigide e radicate in relazione al montare delle angosce. Poniamo
noi
stessi in un una realtà alternativa per tenere a bada le
crescenti
emozioni negative e inconsciamente attacchiamo perversamente
il
significato razionale, proponendo una sorta di
anti-significato.
Joseph
Dodds in Psychoanalysis
and Ecology at the Edge of
Chaos
(2011),
muovendosi, non sempre agevolmente, tra diversi
paradigmi
psicoanalitici e le teorizzazioni di Felix Guattari, che
confuta
l’opposizione dualistica tra sistema umano (culturale) e
sistema
non umano (naturale), evidenzia la presenza di una
serie
di imprevedibili sistemi non lineari interconnessi e
altamente
complessi che entrano in gioco nei fenomeni di
cambiamento
climatico, stimolando le paure, le angosce degli
individui,
dei gruppi, delle comunità a livello nazionale e
globale,
e determinando quelle interconnessioni tra l’ecologia
locale
e quella interplanetaria che nessun campo disciplinare da
solo
può comprendere. I meccanismi di difesa, le tattiche
intrapsichiche
prese in esame per tenere a bada l’angoscia
travolgente
in relazione al disastro ecologico, che sono di
impedimento
alla costituzione di risposte costruttive e alla
mobilizzazione
di energie riparative, sono la scissione,
l’intellettualizzazione,
la rimozione, il dislocamento, la
repressione,
il diniego. Quindi, si chiede se la dinamica centrale
sia
costituita da una crescente angoscia come risposta
all’enormità
del problema, dalla cui insostenibilità bisogna
difendersi
oppure che l’angoscia si incrementi in relazione a un
problema
così enormemente astratto da restare incomprensibile
per
la scala emotiva umana e conclude che probabilmente i due
fattori
operano simultaneamente. In particolare si rifà alle fasi
dello
sviluppo di Melanie Klein, includendo la fantasia di un
seno-Terra
infinitamente disponibile, la risposta schizoparanoide
al
necessario svezzamento e la necessità di andare
verso
una posizione depressiva, con il relativo desiderio di
riparazione
nei confronti della perdita, del dolore e delle
delusioni.
Renee
Lertzman (2015) introduce l’idea di una “melanconia
ambientale”
per descrivere la condizione di lutto inelaborato in
relazione
agli effetti del cambiamento climatico. Non si tratta di
apatia
(mancanza di pathos) o di mancanza di consapevolezza,
quanto
del fatto che il sentire troppo e troppo intensamente porterebbe
alla
paralisi e alla sensazione di impotenza ad agire.
Lertzman
si oppone al cosiddetto “mito dell’apatia”, allo sbarramento
emotivo,
all’anestesia affettiva presunta dalla maggior
parte
delle campagne ecologiste, secondo cui la gente non si dà
da
fare perché non se ne cura. Non solo non è assente la
preoccupazione,
ma
anzi essa è presente talvolta in eccesso e connessa a
complesse
difese inconsce.
5)
DM In che modo l’ambiente e il suo degrado può entrare nella
costituzione
dei sintomi e interagire con essi?
5)
CS Nel mio articolo “Respect for the Environment.
Psychoanalytical
Considerations on the Ecological Crisis”,
comparso
nell’ International
Journal of Psychoanalysis,
provo ad
evidenziare
la relazione tra degrado ecologico e sintomatologia
psichica
attraverso alcuni casi clinici. Ne cito due. Nel primo
caso,
uno dei sintomi presentati consisteva nella difficoltà di
differenziare
i rifiuti e raccoglierli negli specifici contenitori, in
quanto
la paziente era incapace di investimento simbolico, cioè di
rappresentarsi
una possibile futura trasformazione utile della
spazzatura.
Quando nella relazione analitica gli aspetti più
confusi
hanno cominciato a dipanarsi e si sono create le
condizioni
per separare al suo interno le cose buone dalle cattive,
ha
potuto cominciare una possibile trasformazione simbolica
della
spazzatura nei termini di produzione di qualcosa di utile e
di
nuovo attraverso il riciclaggio. Quando cioè, ha potuto
separare
nella relazione analitica la madre buona e premurosa
dalla
madre incapace di accogliere i suoi bisogni, ha potuto
prefigurare
nuove possibilità per quanto prima veniva
distruttivamente
gettato via in modo confuso.
Nel
secondo caso l’irrompere dei sentimenti, fino a quel momento
tenuti
ossessivamente sotto controllo, produce nel paziente insicurezza
e
favorisce il passaggio da un’eccessivamente rigida
differenziazione
della spazzatura a una disordinata indifferenziazione.
Il
lavoro analitico, favorendo il riconoscimento dei sentimenti
come
aspetti esistenziali mitiganti l’immane sforzo economico
alla
base del controllo, non necessariamente distruttivi di
ogni
possibilità operativa, ha permesso al paz. di essere in contatto
con
la paura, con lo sporco, con il disordinato, con il conflitto
tra
sicurezza e passione, senza dovere ricorrere a faticosissimi
riti
ossessivi, ma accettando il limite e la compassione.
Differenti
aspetti nevrotici della personalità e differenti storie
personali
entrano fortemente in gioco nel rapporto dell’uomo
con
i rifiuti, con lo spreco e la dissipazione, con l’inquinamento e
con
i relativi significati simbolici, determinando atteggiamenti
inadeguati,
incoerenti e talvolta anche rischiosi in relazione al
proprio
benessere psicofisico, oltre che a quello delle altre specie,
e
del pianeta in generale.
6)
DM Qual è la sua posizione, il suo pensiero in merito a questi
temi
così scottanti e così all’ordine del giorno?
6)
CS Credo che per quanto riguarda i rischi di catastrofe ecologica,
determinata
da uno sviluppo senza regole e senza memoria,
quindi
“cannibalistico”, sia necessario esplorare le dinamiche
individuali
e
i conflitti sottostanti, nonché le dinamiche e gli stili di
vita
familiari che vengono appresi e fatti propri. Questa ricognizione
è
il punto di partenza per modificare le dinamiche e gli stili
di
vita individuali e familiari e per permettere, in una ritrovata
dimensione
di collaborazione fraterna, che ogni singola azione
sostenibile
sia creativa, rispettosamente riparativa e diventi parte
di
un rinnovamento globale attraverso una riassunzione di responsabilità
individuale,
in un orizzonte di senso che faccia riferimento
rigorosamente
al principio di realtà, ma opponendosi
allo
scetticismo di chi pensa che il singolo sia condannato all’impotenza,
rinchiuso
in una sorta di melanconia ambientale suicida.
Penso,
inoltre, che molti dei meccanismi che vengono descritti a
livello
individuale, mutatis
mutantis, possano
rinvenirsi anche
come
modalità difensive gruppali. Per esempio, è utile analizzare
alcuni
aspetti difensivi insiti nella militanza ambientalista, che
possono
ridurre l’impatto comunicativo del messaggio ecologista.
L’adesione
conformisticamente fanatica all’ideologia ecologista,
l’esaltazione
acritica del mondo naturale, la drammatizzazione
ossessiva
delle pratiche di difesa ambientale, l’opposizione al
progresso
scientifico, possono configurarsi come un meccanismo
di
difesa che, enfatizzando idealmente il rapporto dell’uomo con
la
natura, nei fatti lo snatura, rendendolo retorico e sostanzialmente
inautentico.
Inoltre, gli sforzi immediatamente diretti a
proporre
soltanto azioni pratiche di cambiamento ambientale, se
per
di più sono anche colpevolizzanti e terroristici, rischiano di
fallire
perché non tengono conto dei confusi investimenti affettivi,
delle
memorie, dei desideri e delle angosce delle persone.
Nonostante
l’orizzonte temporale per intraprendere un’azione
efficace
sia molto ristretto, per il bene dell’umanità, prendiamo
atto
sia che siamo parte del problema, sia che siamo parte della
soluzione,
che nell’epoca dell’Antropocene dobbiamo farci carico
di
una nuova presa di coscienza e di una nuova etica; quindi
proviamo
a fare i conti con gli impedimenti esterni, e per quello
che
riguarda noi psicoanalisti, interni, per mettere in atto tutti i
tentativi
possibili per favorire le condizioni che valorizzino
l’espressione
della cura e della premura nei riguardi dell’ambiente,
senza
abbatterci quando alcuni di essi falliranno!
“È
il silenzio il vero crimine”,
scriveva Hanna Segal (1987), denunciando
i
rischi insiti negli armamenti nucleari, senza colludere
con
il diniego dei pazienti nei riguardi della situazione
esterna,
ma anche evitando che l’analista imponga al paziente le
proprie
preoccupazioni. Gli psicoanalisti dovrebbero fare proprio
l’incitamento
di Hanna Segal e assumere un chiaro impegno
civile,
una posizione politica netta e scevra da ogni fraintendimento
nei
confronti dell’urgente necessità di preservare e prendersi
cura
del mondo. Anche loro devono ravvivare in se stessi la
capacità
di pensare e sognare un futuro migliore e di impegnarsi
e
contribuire alla valorizzazione del senso della misura e al
mantenimento
di
una vita sufficientemente buona, in cui possa esserci
spazio
per l’amore e la creatività, contrastando il pensiero magico
e
illusorio e contemplando con integrità e sincerità anche gli
aspetti
spiacevoli dell’esistenza.
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