Audace autocritica per quel che non s'è fatto


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Un'altra globalizzazione

 


Dopo l'11 settembre globalizzazione non è più un termine trendy, un "logo" di moda. Da quando il terrorismo s'è fatto globale, è come se la generazione dei fan del "villaggio-mondo" avesse perso la voce. Facile entusiasmarsi per i miracoli di Internet che annulla le distanze, molto più doloroso ammettere che la grande Rete può servire anche per reclutare aspiranti kamikaze. E mentre le Borse registrano come un sismografo impazzito ogni minima notizia sulla guerra, si infittisce vieppiù la schiera dei rassegnati: peccato, è finita l'era in cui potevi darti al trading on line a tutte le ore con Wall Street o Tokyo e, contemporaneamente, farti gli affari tuoi, ritirarti in ogni momento nel guscio protettivo di casa, lasciando fuori il carico di violenza e miseria che insanguina il mondo.

Gli aerei precipitati sulle Torri - dove ogni mattina andavano a lavorare americani e stranieri d'ogni razza - hanno ucciso, assieme a migliaia di donne e uomini innocenti, il sogno, la tacita speranza di milioni di occidentali: che, finita la Guerra fredda, fossimo ormai definitivamente al riparo dalle sorprese della Storia. Appare ora chiaro, come mai lo è stato in precedenza, che siamo davvero tutti sulla stessa barca: quei pazzi (pazzi?) assassini piombati ieri sui simboli dell'impero Usa potrebbero domani scagliarsi su qualsiasi altro bersaglio che in qualche modo rappresenti l'odiato Occidente, sia esso Roma, cuore della cristianità, Bruxelles capitale dell'Europa o la City di Londra.

Siamo tutti sulla stessa barca. Lo sapevamo, ma quegli aerei conficcati nelle Torri è come se ci avessero impresso a forza questa convinzione nel cuore e nel cervello. E così coloro che invocavano come manna la liberalizzazione dei mercati ora devono patire code fastidiose ai check-in degli aeroporti, quanti osannavano ingenuamente alla società multietnica si vedono costretti ad abbandonare schemi buonisti, chi gioiva per l'incedere apparentemente trionfale del progresso scientifico vede ora i frutti avvelenati di tale progresso, quando le conquiste degli scienziati finiscono in mani sbagliate.

Siamo tutti sulla stessa barca, ma ne faremmo volentieri a meno. Come quando il Titanic affonda, si fa prepotente la tentazione di sganciare una scialuppa e prendere il largo da soli, forti della bussola della nostra tradizione. E invece la storia ci obbliga a misurarci con un Nuovo diverso da quello che aspettavamo, ci costringe a tenere gli occhi aperti - come ha scritto Michele Serra - contemporaneamente sul cortile di casa e sull'atlante. Come nel caso del Titanic, diventa inevitabile provare a capire perché si è finiti contro l'iceberg, chiedersi cosa c'era che non quadrava nella rotta. Diventa decisivo rileggere il passato, verificare scelte le cui conseguenze forse non sono state attentamente valutate.

Non c'è dubbio che i primi a doversi sottoporre a un "esame di coscienza" prima e a un Tribunale internazionale poi, per essere severamente puniti, sono proprio coloro - i terroristi alla Benladen - che vorrebbero inaugurare il futuro nel segno della morte, coalizzando contro l'Occidente gli estremisti che allignano in molte delle società islamiche di Paesi arabi e non. Così come non c'è dubbio che prioritaria, in questo momento, è la cattura di quanti seminano terrore nel mondo e la tutela della sicurezza dei cittadini.

Ma non può bastare. Uno dei tratti che distingue la nostra civiltà occidentale è la disponibilità ad esaminare in modo critico anche la propria storia. Ebbene, se non vogliamo cedere - esattamente come i taleban - a vecchi e nuovi dogmatismi, dovremmo provare, pur in un momento così difficile, a rileggere il passato, le scelte fatte, la direzione intrapresa dalla nostra cultura, le alleanze internazionali strette negli anni e via dicendo. Troppo facile (oltre che storicamente semplicistico) addossare in toto alla politica "colonialista" i guasti dei Paesi poveri e di conseguenza la loro "rabbia" contro l'Occidente o spiegare il fenomeno Benladen col divampare dell'odio antiamericano che pure è fortissimo nelle masse islamiche. Proviamo invece a chiederci: quanta attenzione ha dato l'Italia, ad esempio, a tutto ciò che si muove in quel che ci ostiniamo a chiamare "Mare nostrum"? Perché non abbiamo bombardato di pane e libri quei Paesi islamici in cui le masse, in larghissima parte analfabete, sono ostaggio di fondamentalisti? Non si sarebbe potuto far di più e meglio per garantire spazio, all'interno della cultura islamica, a quelle voci (teologi, giuristi, intellettuali) che faticosamente hanno cercato e cercano una qualche mediazione fra la tradizione e la modernità? Perché in Europa non ci si è fatti carico - tranne rarissime eccezioni - di tale faticoso e profetico sforzo?

"Cria cuervos" era il titolo di un bel film di Carlos Saura che prendeva spunto da un proverbio spagnolo: "Alleva corvi e ti caveranno gli occhi". Quanti corvi abbiamo inconsapevolmente allevato e ora minacciano le nostre pupille?

Gerolamo Fazzini

Pace e Giustizia