La forza degli esempi falsi |
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Dunque,
dicevo. C'è una strana tendenza collettiva a definire la
globalizzazione ricorrendo a esempi palesemente falsi (i monaci tibetani
che navigano in Internet), o veri a metà (la liberalizzazione del
mercato finanziario) o veri ma quantitativamente irrilevanti (l'indiano
che beve la Coca, quelli che comprano i pannolini in rete). Se mi si
passa l'immagine, sarebbe un po' come dire che due che fanno l'amore
sono definibili come un'orgia a cui tutti gli altri non sono ancora
arrivati. Curioso modo di pensare. Dove nasce questa innaturale
vocazione all'acrobazia logica? Come è successo che il realismo della
gente abbia accettato una simile incursione dell'immaginario? Proviamo
con una storiella. Siete a passeggio, in centro, il sabato pomeriggio,
in mezzo a un sacco di gente. Improvvisamente vedete quattro persone
(non di più: quattro) mettersi a correre all'impazzata gridando di
terrore. In una frazione di secondo vi trovate a dover decidere tra
queste due possibilità: sono quattro pazzi o sono quattro persone che
hanno visto qualcosa che voi non avete visto: una casa che sta crollando
sulla vostra testa, o un pazzo che impugna un mitra e sta per sparare.
Se optate per la prima, continuate la vostra passeggiata scuotendo la
testa. Se scegliete la seconda, iniziate a correre e a gridare. Mentre
state pensando a tutto questo, altri umani, più veloci di voi, hanno già
deciso e stanno già correndo. I quattro sono diventati magari venti. Il
vostro cervello lavora, e giustamente inizia a inclinare per la fuga. E'
sorprendente come in una circostanza simile ciò che fanno in quattro, o
in venti, conti più di quello che non fanno gli altri mille. Ma è così.
Prima o poi, c'è da giurarlo, vi mettete a strillare e a correre anche
voi. Influenzando, a vostra volta, altri umani ancora più irresoluti di
voi. Se,
in quel momento, qualcuno vi fermasse e vi chiedesse «Cosa sta
succedendo?», voi, in realtà, non sapreste esattamente cosa
rispondere. Probabilmente direste: stanno fuggendo tutti. Se qualcuno vi
ferma e vi chiede «Cos'è la globalizzazione?», facilmente voi
dovreste ammettere che non lo sapete. Ma fareste degli esempi: posso
comprare tutto in Internet, la Coca Cola è dappertutto, i monaci
tibetani navigano in rete, e posso comprare azioni in tutte le Borse del
mondo. Stanno fuggendo tutti. In realtà quelli che stanno fuggendo sono
ancora solo venti su mille, e magari non stanno nemmeno fuggendo, stanno
solo correndo, o magari sono pazzi, o magari sta solo arrivando il
pullman: ma quello che vi ritrovate a dire è: stanno fuggendo tutti. E'
tutto ciò che potete dire. E ciò che è più importante: mentre state
fuggendo. E'
ciò che sta succedendo nella testa della gente a riguardo della
globalizzazione? Credo di sì. Un meccanismo del genere si sta macinando
il mondo, o quanto meno l'Occidente. Il che ci introduce al cuore del
problema. Che è una domanda: chi ha organizzato il gioco? Chi ha fatto
crollare la casa sulla testa della gente o ha assoldato i primi quattro
che scappavano? Non è pensabile che tutto sia iniziato per caso, e
neanche che tutto possa andare così liscio, dopo, come una slavina. C'è
troppa forza di inerzia, nello scivolare del pianeta verso la
globalizzazione, per credere che non sia un cammino guidato, perfino
controllato, passo dopo passo, e costantemente alimentato. Non basta
capire come funziona il motore: sarebbe utile sapere chi sta continuando
a metterci la benzina. Allora
una cosa che può essere utile è pensare semplice. Come sempre, quando
le cose sono troppo complicate. Pensare semplice. Qual è il propellente
della globalizzazione? I soldi. Forse non è inutile ricordarlo: ridotta
all'osso e privata degli orpelli, la globalizzazione è una faccenda di
soldi. E' un movimento del denaro. E' il denaro che cerca un campo da
gioco più vasto, perché confinato nel solito terreno non può
moltiplicarsi più di tanto e muore d'asfissia. Se voi producete
stracchino, e siete diventato il leader del settore, e non potete
pretendere che la gente della vostra città spenda ancora più soldi per
comprare stracchino di quelli che già spende, allora, se volete
continuare ad arricchirvi, avete una sola possibilità: vendere il
vostro stracchino nella città vicina, e magari andarlo a produrre là,
mungendo le vacche altrui. Per secoli, praticare questo trucchetto ha
significato una sola cosa: fare la guerra. Invadere la città vicina.
Comunque ve l'abbiano raccontata, la guerra è sempre stata fatta per
rimettere in movimento i soldi, per conquistare altri mercati, per
entrare in possesso di risorse altrui. Per far respirare il denaro. La
globalizzazione ha questo, di rivoluzionario: è un modo per far
respirare il denaro attraverso la pace. Non solo non le serve la guerra:
ha bisogno della pace. Non venderete mai stracchino in un Paese che è
in guerra col vostro; né andrete a produrlo in un posto che rischia di
essere bombardato, neanche se vi regalano il latte. Anche solo come
ipotesi, la globalizzazione non sarebbe mai potuta nascere se non in un
mondo senza guerra. Non voglio dire che il denaro è diventato
improvvisamente buono, e ha deciso di non usare più lo strumento della
guerra: voglio dire che in questo momento gli sembra tecnicamente più
facile usare la pace. Il prezzo della guerra è diventato talmente alto,
in termini di sofferenza e di destabilizzazione del sistema, da
suggerire un'altra tecnica. Il denaro occidentale ha conquistato i Paesi
comunisti sostanzialmente comprandoli: la soluzione si è dimostrata
infinitamente più pratica che sganciare un paio di bombe atomiche. Solo
cinquant'anni fa, sganciare le stesse era ancora l'unico sistema
conosciuto. Non
è difficile capire come questa sia una svolta vertiginosa, e, in un
certo senso, una «prima volta» nella storia dell'umanità. Il denaro
che decide di muoversi non usando la guerra ma usando la pace. Il minimo
che si possa immaginare è che i problemi siano molti e che tutto ciò
sia realizzabile solo a condizione di una decisione collettiva, di una
adesione di massa, anche irrazionale, al progetto. Ed è qui, in questo
esatto punto, che nasce la parola globalizzazione e il suo mito. Se
posso fare un paragone, quello che mi viene in mente è il West. Anche lì
l'obbiettivo era di allargare il terreno di gioco del denaro per
permettergli di riprodursi. La cosa si presentava in termini molto
elementari: il West era l'allargamento ideale del campo da gioco:
chilometri di terra solo da andare a prendere e da riempire di
consumatori. L'unico problema era, per il mondo di allora, la distanza.
Ed ecco la soluzione: la ferrovia. Un
po' come Internet oggi, la ferrovia riduceva gli spazi e il tempo.
Avvicinava quello che era lontano. Faceva di uno spazio enorme un unico
Paese. Bisognava però costruirla, e per farlo occorreva denaro, e per
trovarlo bisognava che un po' di gente ci rischiasse i propri soldi, e
ancor di più bisognava che un sacco di gente pensasse realmente di
salire su quel treno e di andarsi a rifare una vita a migliaia di
chilometri di distanza. Bisognava che un sacco di gente credesse che il
West esisteva davvero. Bisognava spingere la gente al di là di quello
che poteva ragionevolmente verificare, e portarla a credere senza
toccare, a fidarsi senza avere le prove, e desiderare qualcosa senza
nemmeno sapere bene cos'era. Bisognava rendere il West reale nella testa
della gente, prima ancora che diventasse qualcosa di vero nella realtà.
Non sarebbero mai partite, quelle ferrovie, se non fossero riusciti a
metterci sopra, prima ancora di costruirle, la fantasia della gente. Non
avrebbero nemmeno trovato i soldi per farle. In questo senso il West è
un prototipo perfetto di una particolare situazione: qualcosa che non
esiste ma che può diventare reale a condizione che tutti credano che
esista. Dieci
anni fa, la globalizzazione era esattamente una cosa del genere. Una
cosa che non esisteva ma che poteva diventare reale: a patto che tutti
si convincessero che esisteva. I capitali hanno costruito le ferrovie:
sono andati a produrre in Paesi lontani, hanno imparato ad usare la pace
per poter accedere a mercati fino ad allora preclusi, hanno abbattuto
gli steccati che asfissiavano i mercati finanziari, hanno cavalcato la
rivoluzione di Internet, hanno moltiplicato le possibilità di consumo,
hanno rischiato capitali immensi per costruire binari dappertutto. Ma
per far partire effettivamente il treno bisognava che il mondo ci
salisse sopra. Per mettere in movimento il denaro, bisognava che si
muovessero i soldi di tutti. Per costruire un nuovo campo di gioco era
necessario che tutti avessero voglia di scendere in campo. In un certo
senso era necessario che l'immaginazione collettiva saltasse al di là
dei fatti, per poi tirarseli dietro. Quel salto nell'immaginario, ha un
nome: globalizzazione. Il nostro West. Globalizzazione
è il nome che diamo a cose come internazionalismo, colonialismo,
modernizzazione, quando decidiamo di sommarle ed elevarle ad avventura
collettiva, epocale, epica. Chiedersi se esiste o no, è una domanda
senza risposta perché è una domanda mal posta: dipende. Contrariamente
alle apparenze, gli esempi che la gente fornisce per definire la
globalizzazione non sono scemi, ma mirabilmente esatti, e aiutano
proprio a pronunciare quella domanda in modo più corretto. Proprio
perché sono falsi, o veri a metà, o irrilevanti, colgono nel segno:
dicono che la globalizzazione è una proiezione fantastica che, se
considerata reale, diventerà reale. Prendete i soliti monaci. I monaci
tibetani non navigano in rete, ma se tutti pensano che lo facciano, e
tutti si comportano di conseguenza, tutti finiranno per produrre un
mondo in cui i monaci tibetani navigheranno effettivamente in rete. C'è
una definizione più esatta di globalizzazione? La
globalizzazione è un paesaggio ipotetico, fondato su un'idea: dare al
denaro il terreno di gioco più ampio possibile. Chi ha inventato quel
paesaggio, e chi lo sponsorizza ogni giorno? Il denaro. Quello dei
grandi capitali, certo, ma anche il nostro, il piccolo denaro di chi
lavora normalmente e se ci pensa bene si accorge che la struttura in cui
lavora sta spingendo verso la globalizzazione, magari soltanto aprendo
un sito WEB, o tentando l'e<\->commerce, o pubblicando una notizia
piuttosto che un'altra, o muovendosi, nel proprio piccolo, come se la
globalizzazione fosse già in atto. Un lavoro meticoloso che alla fine
ha ottenuto il suo scopo. C'è
da stupirsi? Non tanto. In passato, e ripetutamente, il denaro è
riuscito a convincere milioni di umani a farsi ammazzare in prima linea:
perché non dovrebbe riuscire a convincerli di abitare il Paese del
Bengodi? Per la sola misera ragione che quel Paese non esiste ancora?
No. Deve stupire, se mai, che tutto non sia andato liscio come poteva.
Ed è questo il punto in cui entra in scena il movimento dei no<\->global.
I no<\->global sono quelli che, d'improvviso, son scesi dal treno.
Il West gli puzzava. E sono scesi. E hanno detto che il re è nudo. E
hanno detto che la nuova frontiera non era la loro nuova frontiera. Era
un sogno di altri. E un sogno nemmeno tanto pulito. Cosa pensare di loro? Son dei pazzi o son gli unici rimasti lucidi? Son dei luddisti o dei profeti? Condannano i poveri del pianeta alla miseria, o li difendono? Visto che un'idea bisogna farsela, proviamoci.
Alessandro Baricco (2.
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