Un'altra globalizzazione
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Pacifisti, attenzione! Avevo creduto di essere un po' dei vostri. Ma nei
vostri cortei si sente dire di tutto. E c'è chi ostenta comprensione
per quanto è accaduto l'11 settembre, credendo di sapere quali
sarebbero le concessioni utili da fare al terrorismo islamico. Quando in
alcuni slogan il manicheismo antiamericano assume i toni di un
masochismo antioccidentale, si ha tutto il diritto d'allarmarsi. I
Taliban creature degli Usa? Sì, purtroppo. E allora? Non per questo
sono meno fascisti. Dovremmo arrivare ad abbassare la guardia davanti a
loro? È come se ci avessero chiesto comprensione per il nazismo perché
i tedeschi avevano ragione di ritenersi vittime del Trattato di
Versailles. Cosa sta succedendo? Semplicemente, c'è un senso di
generale sconcerto davanti a questa nuova forma di fascismo.
Si cerca di comprendere, ma inutilmente. Si vorrebbero trovare
precedenti ai comportamenti dei kamikaze islamici, ma non se ne trovano.
Solitamente i martiri si sacrificano rinunciando alla propria vita, ma a
questa rinuncia non s'accompagnano azioni omicide. D'altronde, i
desperados che vanno incontro a qualsiasi rischio pur di servire la
propria causa non hanno l'obiettivo prioritario di morire. Si sa che le
guerre possono richiedere azioni di commandos dalle quali in pratica è
assai difficile tornare. Ma c'è un abisso tra il rischio, per quanto
altissimo, e il desiderio di morire. Neppure i kamikaze giapponesi erano
volontari. Venivano designati, e spesso, a quanto si dice, con loro
grande sconforto. Non avevano uno speciale culto della morte, che per
loro non era affatto salvifica. Quando il romanziere Mishima decise di
suicidarsi, non solo non uccise nessuno, ma non si degnò neppure di
coinvolgere nel suo sacrificio amici e familiari. Volle semplicemente
inabissarsi insieme a un mondo che scompariva, per lui l'unico degno
della sua concezione dell'onore e della vita. La frase pronunciata,
secondo un giornale americano, da un influente mullah: «Vinceremo perché
amiamo la morte assai più di quanto gli americani amino la vita»,
sarebbe inconcepibile per gli autori dell'attacco a sorpresa contro
Pearl Harbor, che divennero poi le vittime di Hiroshima.
Troviamo il rito del suicidio collettivo in alcune sette. Oggi si
rammenta la famosa setta degli Assassini – un'eresia ismaelita – che
organizzò nel corso di due secoli l'uccisione di principi e di emiri.
Il recentissimo film d'un regista ivoriano rievoca l'esercito delle
amazzoni, le donne che in un regno africano del XVII secolo si
addestravano a ridurre gli uomini in schiavitù. Ma queste amazzoni
erano vittoriose, e non c'era nulla che le facesse vivere più
intensamente dell'atto di uccidere.
In origine, il sacrificio è un dono, un'offerta a una divinità; ma in
questo caso non si tratta del dono di se stessi. A essere sacrificato è
un animale, un bambino, un prigioniero. Contro questa pratica insorge
Sant'Ireneo, uno dei padri della Chiesa: «Dio non ha bisogno di ciò
che noi gli diamo, poiché tutto gli appartiene, tranne una cosa: la
nostra libertà. E ciò che noi possiamo offrirgli è dunque
essenzialmente la nostra vita». Non quella altrui. In altri termini, la
congiunzione tra il desiderio di morire e il dovere di uccidere, in
obbedienza all'ingiunzione della guerra santa, costituisce un fenomeno
estremamente raro. Ed è grazie alla strumentalizzazione di questo
abbinamento tra assassinio e suicidio che gli "jihadisti",
(secondo l'espressione tratta da Olivier Roy dal termine jihad, guerra
santa) hanno vanificato tutti gli scenari catastrofici, tutte le
simulazioni degli strateghi occidentali.
Costretti a rinunciare a una spiegazione basata sui riti ancestrali,
tendiamo a ripiegare, nella nostra sete di comprendere, sulle cause
mobilitanti del passato: quelle di un terzo mondo ringiovanito al tempo
della globalizzazione. La rivolta contro gli sfruttatori, gli indigenti
contro i benestanti, i virtuosi contro i corruttori, i puri contro gli
inquinatori. Evidentemente, gli jihadisti non chiederebbero di meglio
che cristallizzare lo scontento e la rivolta di una parte del pianeta.
Ma sarebbe solo un effetto secondario, dato che la loro santa ambizione
è più ispirata alla volontà di dominio. E anche più satanica, nel
caso di Osama Bin Laden. Oltre tutto, c'è da notare che i nuovi
jihadisti e i loro migliori agenti non provengono certo dal mondo dei
diseredati. Bin Laden e i suoi ostentano con orgoglio le loro ricchezze,
indipendentemente dalla loro origine – che si tratti del petrolio
saudita o dall'oppio dei Taliban – così come il loro livello
culturale e il carattere scientifico delle loro strategie. Non fanno
riferimento a una situazione risentita come ingiusta ma a un'ingiunzione
sacra, ricordando l'incredibile rapidità con cui l'Islam si diffuse nel
mondo arabo tra il VII e il IX secolo, per estendersi fino alla Cina tra
il XII e il XIV. E preconizzano l'universalismo religioso, il
proselitismo senza confini territoriali o di razza. Ora, sono
precisamente gli Stati Uniti a incarnare oggi l'ostacolo principale a
questa espansione, con l'arrogante convergenza della forza, della
potenza, della grandezza ma anche della vita. E c'è in questa
congiunzione una sfida insopportabile per il credente fanatico. Perciò
questi nuovi giustizieri terroristi scommettono sulla nostra debolezza e
contano su un aumento della loro popolarità con il protrarsi dei
bombardamenti, poiché la potenza che ieri era vittima oggi si trasforma
in aguzzino.
Infine, si potrebbe ripiegare anche su cause più immediate e recenti:
la guerra del Golfo, il conflitto israelopalestinese. Dovremmo recensire
tutto ciò che si può rimproverare agli Usa per cercare di spiegare
quest'odio nei loro confronti, divenuto ormai un'ossessione. Al punto
che le loro maggiori riviste hanno dedicato interi numeri a questo tema.
Certo, non dimentichiamo che gli Stati Uniti hanno finito per attirare
su di sé, e in maniera esclusiva, tutti i risentimenti e le ostilità
suscitati nel mondo arabo dal colonialismo, soprattutto francobritannico.
Dio sa quanto fossero profonde e mal cicatrizzate quelle ferite, e con
quanta facilità gli Usa le abbiano imprudentemente riaperte quando
l'Arabia Saudita permise agli "infedeli" d'insediare le
proprie basi militari sulla loro santa terra. Mai l'umiliazione era
stata così profonda. E poi, ovviamente, c'è Israele. Chiunque non
abbia atteso l'11 settembre per allarmarsi davanti alla situazione in
Medio Oriente, postulando l'applicazione del rapporto Mitchell e
l'evacuazione da parte del governo israeliano delle colonie recentemente
insediate, è indubbiamente in diritto di sottolineare che gli jihadisti
non sono stati mossi in particolare dalla sorte avversa dei palestinesi.
Come tutti sanno, essi non vogliono la pace e considerano Arafat come un
nemico. E nessuno ignora che nel momento in cui i pirati del terrore
stavano già preparando i loro attacchi contro New York e Washington,
gli israeliani e i palestinesi si ritenevano ormai vicini a un accordo.
Quanto al sostegno a Israele, di fatto per molto tempo incondizionato,
era cessato con l'investimento personale di Bill Clinton, tanto che due
autori vicini alla Casa Bianca (Robert Malley e Hussein Agha, "New
York Rewiew of Book", agosto 2001, n.d.a.) hanno rivelato come il
presidente americano si fosse opposto a più riprese a Ehud Barak. Ma
questo non ha impedito le azioni terroristiche, e neppure la
sproporzionata repressione e l'asfissia economica della popolazione
martire di Gaza. Ma nulla dimostra che in quel momento, al di fuori di
Hamas e Jihad islamica, i palestinesi avessero un qualsiasi legame con
gli jihadisti di Kabul.
Dunque, l'irriducibile singolarità del terrore jihadista dovrebbe
indurci ad ignorare le cause indirette che ne hanno favorito la
logistica e il dispiegamento? Al contrario. Quanto sopra sta a
dimostrare che per la sua singolarità, questo fenomeno è a un tempo
isolato e minoritario; e potrebbe rimanere tale se tutti quanti,
musulmani e occidentali, prendessimo coscienza di alcune realtà
evidenti.
Innanzitutto, non dimentichiamo mai che i musulmani sono le prime
vittime dell'islamismo. Dobbiamo ricordare ovunque che in Algeria, paese
estraneo alla Guerra del Golfo e al problema israeliano, si sono contate
finora 130mila vittime in seguito alla penetrazione tra gli oppositori
del Fis (Fronte islamico di salvezza) dei Gia (Gruppi armati islamici)
formato in Afghanistan. Che l'Islam deve assolutamente modernizzarsi e
riformarsi per evitare di essere preso a pretesto; ma a farlo possono
essere solo gli stessi musulmani. Il Consiglio di Sicurezza, l'Ue e gli
Usa devono imporre l'applicazione immediata del rapporto Mitchell in
Medio Oriente, cosa che Bush e Blair stanno incominciando a fare, e che
dovrebbe far tornare la sinistra israeliana alla sua antica ed eroica
saggezza. E infine, è sicuramente venuto il momento di pensare a voce
alta e pubblicamente a un nuovo ordine mondiale, in cui i pochi valori
che malgrado tutto rimangono patrimonio comune conducano a preferire la
giustizia alla fede, la democrazia alla religione, e a conciliare
l'universalità dei principi con la diversità delle culture.
Jean
Daniel
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
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