Tutti alle armi in ordine sparso


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Un'altra globalizzazione

L'ITALIA arriva alla guerra tardi e male, con un'immagine internazionale indebolita, confusa e divisa. L'immagine del tricolore su ogni balcone, lo slogan del presidente Ciampi, non serve a mascherare un radicato e profondo deficit di solidarietà fra italiani, l'assenza di un sentire comune ci nega le risorse morali cui possono attingere altri popoli nei momenti di crisi. Non è una vergogna, ma un dato di fatto dal quale partire. Il momento è solenne, o dovrebbe esserlo.

  Perché partono due mila soldati che hanno il diritto di sentirsi in missione per un popolo e non pedine di un Risiko. E perché anche chi non parte è sul fronte. Il terrorismo ci ha chiamati in guerra due volte, l'11 settembre con l'attentato alla nostra civiltà e ora con le minacce dirette di Bin Laden agli italiani «persecutori dell'Islam».  La politica ha fatto il possibile trascinare la guerra nel gorgo della campagna elettorale permanente. Maggioranza e opposizione si scambiano accuse di anti patriottismo e verrebbe voglia, a questo punto, di dar ragione a entrambe. E' stato anti patriottico Berlusconi nel far precipitare in serie B il nostro paese a colpi di conflitti d'interessi irrisolti o affidati a soluzioni comiche, gaffes internazionali e leggi a uso personale. E' anti patriottica la coazione a dividersi dell'opposizione, sulla base di scelte che non sembrano dettate da ideali ma da strategie di lotta interna, per accaparrarsi questo o quel pezzo di mercato elettorale. Con il risultato di perdere tutti insieme l'occasione storica di costruire dall'opposizione una grande sinistra moderna, una patria politica del riformismo che sappia ospitare posizioni anche molto distanti, come capita nel New Labour o nell'Spd o nella gauche plurielle francese, senza ricadere ogni volta nel peccato originale della scissione, della reciproca scomunica e accusa di tradimento, come da ormai ottant'annia questa parte.

 Le ragioni del pacifismo autentico, d'ispirazione religiosa o politica, meritano naturalmente rispetto. L'entrata in guerra non è un evento da festeggiare, non è un pranzo di gala e non va confuso con i ricevimenti a Downing Street, come fa qualche esponente del governo. In un mondo più giusto, le ragioni del pacifismo sono quelle di tutti. Ma in questo non si capisce quali alternative ci fossero ieri alla liberazione del Kuwait e del Kosovo dalle mire di Saddam e Milosevic, quali oggi dalla lotta al regime medievale dei Taliban, che ospita e protegge il terrorismo. Dietro questi progetti sanguinari non c'è il grido di dolore dei dannati della terra, ma soltanto la volontà di potere di dittatori assassini e aspiranti tali. 

Si capisce che molti italiani non si sentano coinvolti né dall'anti americanismo «a prescindere» né dal servilismo becero e coloniale nei confronti degli Stati Uniti, da Little Italy o da «americani» di complemento. Sono mascherate che nascondono un vuoto d'identità e di politica, l'incapacità di essere italiani ed europei e di darsi una politica estera coerente con la storia e gli interessi dell'Italia, ponte democratico e culturale dall'Europa al Medio Oriente. Ma tradurre il fastidio per le retoriche con un «né con l'Occidente né con Bin Laden» è un modo volgare per rituffarsi, da un'altra parte, nel gioco di una nazione bambina, che affida ad altri, ai grandi, la propria tutela, l'assunzione delle responsabilità. Per aver sempre qualcuno cui dare la colpa.

        Curzio Maltese

Pace e Giustizia