Il profeta guerriero e quel tè nel bazar


E

 


Un'altra globalizzazione

 


Scrivo queste righe da una modesta locanda affacciata sul grande bazar della città dove una medioevale folla di uomini barbuti e inturbantati, avvolti nella moderna foschia azzurrognola delle esalazioni di autobus e motorini, si mescola a ciuchi, cavalli, barrocci e carretti. La frontiera afgana è a un centinaio di chilometri e questa città, acquattata in una conca di spigolose, brulle mon tagne grigio-rosa, è una delle spiagge sulle quali si abbattono le onde della guerra vicina lasciandosi dietro i soliti resti umani del naufragio: i profughi, gli orfani, i feriti, i mendicanti. Non si fanno due passi senza essere accostati da mani s carne e supplicanti, da sguardi vuoti di donne dietro il burqa. Sono riuscito a trovare una camera qui perché il «turista» americano che la occupava è partito una mattina per l' Afghanistan e non è più tornato. La prima versione della sua scomparsa è stata che i talebani lo avevano arrestato e impiccato come agente Cia. Un' altra che è stato ucciso in uno scontro a fuoco. I talebani hanno semplicemente detto che il cadavere e ra all' ospedale di Kandahar e chi voleva poteva andare a prenderselo. Nessuno l' ha fatto e il padrone della locanda ha riaffittato la stanza. Secondo lui l' americano si faceva chiamare maggiore, parlava una paio di lingue locali e mostrava bei rotoli di dollari. Chi sa chi era davvero e come sono andate le cose. Anc he di una piccola storia così è ormai diventato impossibile stabilire i fatti. Già, i fatti. Tutta la vita ci son corso dietro convinto che lì - nei fatti accertati e sicuri - avrei trovato una qualche verità. Ora, a 63 anni, dinanzi a questa guerra appena cominciata e con l' inquietante presentimento di quel che seguirà, mi pare che i fatti sono solo un' apparenza e che la verità dentro di loro è al massimo come una bambola russa: appena la si apre se ne trova una più piccola ed ancora una più piccola, ed ancora una più piccola fino a che si resta con un minuscolo seme. Frastornati dai dettagli di tanti fatti perdiamo sempre di più il senso dell' insieme. A che serve essere informati ora per ora sulla caduta di Mazar-i-Sharif e di Kabul qu ando queste ci sono presentate come «vittorie» e non ci rendiamo conto che, come umanità, stiamo comunque subendo alcune terribili sconfitte: quella di ricorrere ancora alla guerra come soluzione dei conflitti e quella di rifiutare la nonviolenza com e la più grande prova di forza. E' un vecchio detto che in tutte le guerre la verità è la prima a morire. In questa, la verità non ha fatto neppure in tempo a nascere. Spie, informatori, millantatori e mestatori pullulano ormai ovunque, specie in una città di frontiera come questa, ma il loro ruolo è diventato marginale. Quelli che davvero contano in questa guerra sono gli spin doctor, gli esperti in comunicazioni, gli addetti alle pubbliche relazioni. Sono loro ad offuscare il fondo di inutilit à di questa guerra e ad impedire così all' opinione pubblica del mondo, specie quella dell' Europa, di prendere una posizione morale e creativa in proposito. Un gruppo di questi scienziati-illusionisti è appena venuto da Washington a stabilirsi ad Is lamabad per «gestire» le centinaia di giornalisti stranieri ora in Pakistan; un superesperto del ristretto gruppo che fino a ieri lavorava alla Casa Bianca è andato a stabilirsi al numero 10 di Downing Street per aiutare Tony Blair nel suo ruolo di i mbonitore americano, quasi fosse lui e non Colin Powell il Segretario di Stato. La verità di questa guerra sembra essere così indicibile che ha costantemente bisogno di essere impacchettata, di essere «gestita», di essere oggetto di una astuta campag na di marketing. Ma così è diventato il nostro mondo: la pubblicità ha preso il posto della letteratura, gli slogan ci colpiscono ormai più della poesia e dei suoi versi. L' unico modo di resistere è ostinarsi a pensare con la propria testa e sopratt utto a sentire col proprio cuore. Due settimane fa ho lasciato Peshawar ed in compagnia dei miei due studenti di medicina, incontrati per caso, mi son messo in viaggio per il Pakistan. L' idea era di prendere la temperatura di questo «paese dei puri» (questo vuol dire Pakistan), nato nel 1947 dalla spartizione dell' Impero inglese in India per dare una patria ai musulmani, ed ora in prima linea di un conflitto in cui una delle tante poste è la sua stessa sopravvivenza. L' idea era di vedere da v icino le conseguenze della guerra in Afghanistan di cui gli americani continuano a dire che «è solo la prima fase», per capire cosa succederà al resto del mondo - il nostro mondo, il mondo di tutti - quando questa guerra da qui si sposterà verosimilm ente in Iraq, in Somalia, in Sudan, forse in Siria, in Libano e chi sa ancora dove. Sono più di 60 i paesi in cui, secondo Washington, si annidano i terroristi e chi non collaborerà con gli Stati Uniti a snidarli sarà considerato un nemico. Possibile che in Europa si siano levate così poche voci contro questa rigidità, quasi suicida, dell' America? Possibile che l' Europa sia stata, dopo la verità, l' altra grande vittima di questa guerra? In questo viaggio, per evitare la trappola dei percorsi obbligati, predisposti dagli imbonitori, e quella degli alberghi di lusso, ormai tutti adibiti a tenere occupata la «stampa internazionale» con le quotidiane conferenze stampa, i comunicati e le interpretazioni di ex ministri e generali in pensione, abbiamo deciso di star lontani da tutto ciò che è ufficiale e di seguire la logica di quell' unico filo che a volte può essere davvero magico: il caso. Così, passando da un incontro casuale a un altro, abbiamo fatto centinaia di chilometri da un ango lo all' altro del paese, abbiamo parlato con decine di persone, abbiamo assistito al più grande raduno di musulmani del mondo - se si esclude quello dei pellegrini alla Mecca - ed alla fine abbiamo provocato un ordine di arresto nei nostri confronti da parte del ministro degli Interni del Baluchistan che ha sguinzagliato i suoi commando, per venirci a ripescare nella cittadina di Chaman, sulla linea di confine con l' Afghanistan, dove c' eravamo illusi di passare, inosservati, la notte. Il tutto è cominciato in una casa da tè di quell' affascinante centro della vecchia Peshawar che ancora è il Bazar dei racconta-storie. Seduto, accanto a noi, sulla stuoia di paglia lisa e polverosa a bere kawa - un infuso di foglie non fermentate - da picco li bricchi smaltati, neri di sporco e di ammaccature, stava un uomo sui trent' anni con una barba foltissima e lo sguardo stranamente dolce e fermo. Ci siamo guardati; ci siamo parlati ed il pomeriggio è passato in un soffio con tutti gli altri avven tori presto in cerchio a seguire, coinvoltissimi, la nostra conversazione. Non so se tutto quel che Abu Hanifah mi ha raccontato era vero, ma, da una serie di controlli fatti poi con l' aiuto dei miei studenti, penso lo fosse. Diceva di essere nato « 35 o 37 anni fa» nella provincia di Ghazni in Afghanistan, di essere il comandante di 250 talebani, di aver combattuto contro gli indiani in Kashmir, di essere stato richiamato in Afghanistan dopo l' inizio dei bombardamenti e di essere arrivato la s era prima in Pakistan con un piccolo gruppo dei suoi per una missione. Gli ho chiesto tutto quel che uno vorrebbe sapere dei talebani e le sue risposte erano pronte, precise e politicamente informate come quelle un tempo di un commissario politico ci nese o vietcong. Diceva che le bombe e i missili non fanno loro paura («i gusci dei Cruise già vengono usati per fare dei minareti»), che la guerra comincerà sul serio solo quando le truppe americane scenderanno a terra e che i talebani non potranno mai essere completamente eliminati dall' Afghanistan perché «taleb vuol dire uno che ha studiato in una madrassa e in ogni famiglia afghana c' è ormai uno come me». Diceva che anche la possibile morte del mullah Omar, ora il capo dei talebani, non ca mbierà nulla; il consiglio supremo dai saggi, la Shura, «è fatta di mille mullah Omar ed ognuno di loro può succedergli». Diceva che ogni città, ogni villaggio ha una struttura locale che rappresenta la Shura e che quella resterà in piedi e sarà la v era autorità per la popolazione anche quando i talebani, in certe fasi della guerra, dovessero essere costretti a cedere terreno ai nemici per poi tornare ad attaccarli. Forse si illudeva, ma sembrava convintissimo. L' impressione che ho avuto di que ll' uomo non era quella di un fanatico ignorante, imbevuto di superstizione come i giovani jihadi che avevo incontrato nei villaggi fuori Peshawar. Quelli credevano che le bombe americane sarebbero state fermate da miracolose mani che al momento gius to apparivano in cielo. Erano ottusi, indottrinati all' odio. Lui no. Sapeva che le armi degli americani sono «formidabili», ma diceva che alla fine dei conti l' arma più potente è quella della fede. Era riflessivo, informato sulle cose del mondo, co sciente. Più che un miliziano, mi pareva un monaco d' un ordine combattente, come da noi un tempo, forse, erano i Templari. Ho chiesto a Abu Hanifah come era possibile per lui andare e venire in Pakistan, un paese prima legatissimo ai talebani, ma or a schierato contro di loro ed alleato degli Stati Uniti. Come era possibile per lui, ora «il nemico» della guerra contro il terrorismo essere lì, in una città pakistana, a prendere apertamente il tè con me? Ha riso lui ed han riso tutti quelli che av evamo attorno. Questa è la realtà: nonostante l' ufficiale rovesciamento di fronte e la drammatica presa di posizione del generale Musharraf a favore di Washington, il Pakistan resta nel fondo estremamente ambivalente nei confronti della guerra. Il g overno di Islamabad sa che i pashtun, sia quelli che vivono in Afghanistan sia quelli che vivono in Pakistan, si considerano una unica nazione e che il rischio di antagonizzarli è una guerra civile lungo i duemila chilometri della frontiera. Il risch io crescerà se l' Afghanistan verrà praticamente diviso in due con l' Alleanza del Nord in controllo di Kabul e delle regioni settentrionali, comunque abitate da non-pashtun, ed i talebani in controllo del Sud. Islamabad sa che, nonostante le recenti epurazioni volute da Washington, l' intero apparato statale pakistano, specie quello delle Forze Armate, è pieno di elementi che coi talebani sono legati a doppio filo: li hanno concepiti, li hanno tenuti a battesimo e ne condividono l' ideologia e la fede religiosa. Non è certo un caso che la notte stessa in cui il generale Musharraf, su pressione degli americani, annunciò la rimozione del capo dei suoi servizi segreti, un incendio distrusse tutti i dossier riguardanti i talebani, le storie de i loro capi, le carte delle loro postazioni, delle loro caverne. Se gli americani avessero messo le mani su quei documenti la loro caccia a Osama Bin Laden ed al mullah Omar sarebbe stata molto più semplice. Inoltre Musharraf sa che la guerra america na in Afghanistan ha creato una grande simpatia per i talebani e che il mito di Bin Laden, «eroe dei poveri oppressi», «simbolo della rivolta musulmana contro l' arroganza della superpotenza infedele», si sta diffondendo fra le masse e potrebbe rivol gersi in ogni momento contro di lui, già descritto dai fondamentalisti come un kaffir, un infedele, uno che «mangia dollari americani». Il semplice fatto di aver sfidato gli Stati Uniti fa di Bin Laden un eroe popolare. Dovunque sono stato in queste due settimane ho visto i suoi poster nelle rivendite dei giornali, la sua faccia sul retro degli autobus, dei trisciò, sui vetri delle macchine private, appiccicata ai carretti dei gelatai ambulanti. Le cassette coi suoi discorsi sono in tutti i baza r. Persino nei circoli della borghesia più agiata, quella che manda i figli a studiare in America, che ha legami economici con gli Stati Uniti e che appoggia il presidente Musharraf perché, «con la pistola americana puntata alla testa, non aveva altr a scelta», ho sentito espressioni di odio anti-americano inconcepibili solo alcuni mesi fa. «Ormai c' è un piccolo Osama in ognuno di noi», mi spiegava, senza alcuna ironia, una elegante, ingioiellata signora della buona società di Lahore, durante un a cena. Era stato Abu Hanifah a farmi andare a Lahore. Mi aveva spiegato che la sua «missione» in Pakistan era di partecipare all' annuale riunione dei tablighi jamat e così l' ho seguito. Impressionante. A 30 chilometri da Lahore, in una piana chiam ata Raiwind, per tre giorni, oltre un milione di uomini (non ho visto una singola donna) venuti da ogni angolo del Pakistan e da varie parti del mondo si sono ritrovati all' ombra di immensi teloni bianchi; assieme, in una costante nuvola di polvere gialla sollevata dal vento, hanno pregato cinque volte al giorno, hanno ascoltato i discorsi degli anziani ed hanno riaffermato quell' incredibile legame di fratellanza musulmana che per noi occidentali è a volte difficile da capire, abituati come si amo a pensare sempre più al «mio» e sempre meno al «nostro». I tablighi sono una strana, disciplinata e potente organizzazione. Formalmente sono dei missionari islamici dedicati non alla conversione degli infedeli, ma alla riforma in senso spirituale dei musulmani «caduti sotto l' influsso del materialismo occidentale». Ogni membro dell' organizzazione dedica, gratuitamente, quattro mesi all' anno a quest' opera di missione. A piccoli gruppi, senza mai leggere i giornali e mai guardare la televi sione per non distrarsi, viaggiano nel paese, vivono nei villaggi più remoti e re-insegnano alla gente «la originaria via di Allah». Con questo hanno una estesa rete di contatti ed una grande influenza, non solo in Pakistan, ma ormai in varie parti d el mondo in cui sono presenti. Il loro segreto è che restano nell' ombra. I tablighi non cercano pubblicità, non vogliono che si scriva di loro, non permettono di essere fotografati, filmati ed i loro capi non danno interviste. I tablighi sostengono di essere per la nonviolenza, di non voler fare politica e non vanno per questo confusi coi fondamentalisti dei partiti islamici estremisti che qui manifestano contro il governo ed appoggiano apertamente Osama ed i talebani. Eppure, passando ore ed o re in quella immensa, disciplinata congrega di uomini, tutti col loro berretto bianco o un turbante in testa a snocciolare i loro rosari, mi è parso ovvio che, nonostante tutte le apparenti differenze, c' è fra i tablighi, Osama ed i talebani una obi ettiva coincidenza di interessi ed una implicita solidarietà. E questa va capita perché, per estensione, coinvolge ogni musulmano in ogni parte del mondo. Osama ha innanzitutto un obiettivo politico: la liberazione dei luoghi sacri dell' Islam dalla presenza degli infedeli e dalla dinastia ora regnante, definita da lui corrotta. In altre parole, Osama vorrebbe prendere il potere in Arabia Saudita. Il suo secondo obiettivo è riportare quel paese, i cui sudditi qui in Pakistan ad esempio sono popo larmente conosciuti come «sesso ed alcool», ad una forma di Islam più puro e spirituale. Siccome vede gli Stati Uniti come i protettori dell' attuale regime saudita ed i corruttori del mondo islamico in genere, Osama ha dichiarato la sua jihad. Con l ' aspetto politico di tutto questo i tablighi hanno poco o nulla a che fare. Molto invece con l' aspetto religioso. Anche loro vogliono tornare ad un Islam più spirituale. Ed in questo simpatizzano di fondo con Osama ed i talebani. Ma c' è di più. I tablighi, come molti altri elementi non necessariamente fanatici ed estremisti dell' universo islamico, hanno una più generica e più esistenziale aspirazione: quella semplicemente di condurre un' esistenza diversa dalla nostra, di vivere secondo altr i principi, di stare fuori dai meccanismi internazionali che loro vedono dominati da leggi e valori di stampo esclusivamente occidentale. (1 - Continua) LE PAROLE DELLA FEDE TALEBANI viene dal termine taleb che significa «studente». Per talebani si i ntendono uomini che hanno studiato in una madrassa MADRASSA alla lettera significa «scuola». Il vero senso è di scuola coranica. Le più importanti sono divenute vere accademie di teologia coranica MULLAH indica un dottore della legge coranica, l' uni ca autorità religiosa legittima IMAM è la persona che guida la preghiera nella moschea. Ogni musulmano che conosca il rituale potrebbe svolgere questa funzione SHURA è il consiglio supremo dei saggi SURA è un capitolo del Corano

                  Tiziano Terzani

Pace e Giustizia