Solidarietà piena sbagliare bersaglio sarebbe micidiale


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Un'altra globalizzazione



 

E' la prima domenica dopo la tragedia di New York. Il primo giorno di festa, il primo giorno del Signore. Dire "festa", però, oggi è una parola tradita, nei giorni tenebrosi dei trionfi della morte. Festa no, festa non giunge oggi a scandire il tempo della desolazione, mentre abbiamo negli occhi quella carneficina, e nel cuore tutto quel dolore. Possiamo occuparci del calcio che riprende le sue partite, della gita di metà settembre, della tv, degli amici del bar, come se tutto fosse come prima; e però un segreto pensiero ci resta dentro come un'angoscia, perché sappiamo che nulla è mai più come prima.

E' guerra, dicono. Non decifrabile, su scenari diversi dai campi di battaglia: una guerra che si avventa fulminea in casa, che penetra nell'indifendibile fragilità della nostra condizione umana; condizione di uomini che vivono lavorano, amano, sognano, e che la violenza e l'odio e la follia uccidono. E' guerra, dicono, e resta nell'aria come un presagio di qualcosa di tremendo che adesso può accadere. Bush richiama 35mila riservisti, La Nato legge l'articolo 5 del suo Trattato, e si schiera. La reazione della gente americana assomiglia a un'invocazione di qualcosa di forte, di un gesto proporzionato all'aggressione, "à la guerre comme à la guerre", e la fantasia corre inevitabilmente a immagini di devastazione sopra un nemico da schiacciare, come a pareggiare il conto delle torri abbattute. Mai come ora ci premono parole tremende e difficili, giustizia, diritto, forza, vendetta, rappresaglia.

La maggioranza degli americani si dice favorevole a fare la guerra, ma alla domanda "contro chi" non sa rispondere. Forse contro Bin Laden, forse contro l'Afganistan che gli ha dato riparo, forse contro la galassia del terrorismo della "guerra santa" disseminato in molti Stati, forse contro la "civiltà islamica" minacciosa della "civiltà dell'occidente". Molti fantasmi agitano le emozioni, e possono rendere ciechi, scatenare odi, innescare un'escalation di violenze e di ritorsioni senza fine. Sbagliare, adesso, sarebbe micidiale. Tutto il mondo, salvo piccole frange, ha esecrato l'eccidio. Bin Laden è stato rinnegato dalla sua famiglia. Il terrorismo è un cancro che minaccia il mondo, e il mondo deve pensare a come sconfiggerlo, e non a distruggere se stesso facendosi guerra tra popolo e popolo. Qui sta la differenza tra la forza del diritto e la violenza delle bombe.

C'è una istanza di giustizia che chiede la punizione del delitto, e va rivolta contro i colpevoli. Il massacro di New York è infatti un immane delitto, un omicidio di massa. I dirottatori assassini sono morti nello schianto cercato. Quelli che li hanno aiutati sono correi e vanno rintracciati e consegnati alla giustizia. Se ci sono responsabilità di governi ostili agli Usa, quei governanti debbono rispondere davanti alla giustizia del mondo. Loro, fisicamente, individualmente, come complici di assassinio. Tutte le nazioni che hanno un seggio all'Onu devono sancire, in concordia, che i governanti complici di assassinio vanno perseguiti in nome del diritto e della giustizia. E se c'è un terrorismo ramificato nel mondo, esso va fronteggiato e stroncato come in una operazione di polizia mondiale. Ma la guerra - come tale - no, la guerra è altra cosa, la guerra mondiale nel terzo millennio è la follia catastrofica.

Se il nemico della pace, il nemico del mondo, è il terrorismo, abbiamo bisogno di conoscerlo, di studiare e di sapere le sue logiche interne, ancorchè folli, di analizzarne le radici. La sua pervasività, nel mondo, dopo aver letto l'intervista che padre Benjamin ha rilasciato a questo giornale, è una spaventosa minaccia. Capire che cosa passa nel cervello e nel cuore dei kamikaze è la prima sfida per cominciare a sconfiggerli. Nel nostro interesse, ci chiederemo allora se a quei picchi di orrore omicida e suicida non faccia fulcro una "disperazione" (parola sempre evocata in passato dagli studiosi), e cercarne allora le ragioni di innesco. Con il coraggio dell'intelligenza, dovremo chiederci anche quale nesso leghi l'odio e la morte con la disperazione che alligna nel mondo spartito in assetti ineguali, nel dolore e nel rancore dei reietti e dei miserabili, senza speranza e senza domani. Questo non giustifica nulla, si capisce, ma è da pazzi non pensarci.

Oggi, prima domenica dopo la tragedia, è il "giorno del Signore". E' difficile pregare, oggi, se all'occhio del Padre la terra rimanda l'immagine straziata dei figli che si uccidono. Oppure qualcuno scriverà ancora il suo Nome sui vessilli di guerra e sul cinturone dei soldati? Sentiamo parlare, dentro il terrorismo, di "guerra santa". Guerra santa è di per sé una bestemmia. I "martiri" fanatizzati che si fanno saltare mentre ammazzano, non sono buoni fedeli dell'islam. Il centro spirituale dell'islam sunnita, l'università Al Azhar, condanna il terrorismo senza riserve. Se entriamo nel cortocircuito del pensiero che a sventrare le torri di New York "è stato l'islam", e se si comincia a covare un odio confessionale contro i musulmani, la terra diventerà un rogo infinito.

Altrettanto rischioso è il discorso sulle culture. Vi sono dei punti e dei contenuti umani su cui le culture non hanno che da apprendere l'essenziale verità della natura, la sua intrinseca legge, dalla quale noi tutti prendiamo fisionomia di uomini. Il primo di questi contenuti essenziali, senza il quale la humanitas non consiste, è la legge suprema del "non uccidere", scolpita in tutte le religioni e in tutte le culture, perché sta nel cuore dell'uomo, perché appartiene all'essenza umana. Per questo, infine, l'apocalisse, cioè la rivelazione e l'esito finale della verità dell'essere, non è un mondo raso al suolo, ma un mondo totalmente salvato.

E' difficile pregare, oggi, mentre traversiamo i giorni tenebrosi di una fraternità rinnegata, che rischia di farci vogliosi di rinnegarla a nostra volta. Ma è necessario come fosse una prova. Ci aspetta comunque una "milizia", nel cammino della fraternità minacciata dagli orrendi delitti che segnano la storia, ricostruendo ostinatamente le regole della giustizia, del rispetto, della libertà, della sufficienza di risorse per la vita di ogni essere umano, sconfiggendo la disperazione e la voglia di morte. Dio ci aiuti.

Giuseppe Anzani

Pace e Giustizia