Giuseppe Gaccetta, Maestro di violino e falegname.

E di un muro di pietre antiche mi ha parlato Gaccetta: il muro del vecchio castello, nei pressi di quell'immenso sventramento del centro storico, dove negli anni Ottanta è andata perduta anche la casa natale di Paganini. "Là sotto, alle volte, di notte puoi ancora sentire i suoni dei suoi Capricci...". Così è nato un sogno: io ho camminato lungo quel muro, ho atteso, ho sentito. Perché la forza dell'arte antica è nell'attesa, nel camminare silenziosamente verso una mèta, nell'ascoltare i messaggi segreti dei sogni. E io ho sognato di installare tanti piccoli altoparlanti su quel muro, e ai suoi piedi un rialzo in legno, neppure coperto di stoffa, per vederne le belle venature e sentirlo vibrare. Dagli altoparlanti si diffonde il suono dei rulli che Giuseppe Gaccetta aveva inciso nel '31, mentre sul muro si proiettano vecchie foto di violinisti e violoncellisti del primo Novecento, volti noti ma dimenticati, oppure anonimi, ma soprattutto volti di giovani aspiranti concertisti, con occhi accesi di sogni e affaticati dalla fame. Fra l'uno e l'altro dei nove Capricci di Paganini eseguiti settant'anni fa, io suonerò il mio violoncello antico, improvvisando sulle sue gravi corde di budello ovino, amplificato, moltiplicato dalle stesse casse acustiche del violino di Giuseppe Gaccetta.


 

"Un art se communique à d'autres (*)", scriveva il regista Claude Lanzmann delle sue nove ore di film documentario sull'Olocausto ebraico, Shoah. E Anny Dayan-Roseman aggiungeva: "Il fallait d'abord le silence...(**) Ci voleva innanzitutto il silenzio. Per creare in noi una vacanza, per allontanarci dal mondo esteriore, per separare le parole di Shoah dalle altre parole, quotidiane, profane". Così dev'essere. Così è stato.

Alle volte le cose ritornano per le vie più strane; nel film di Lanzmann persone che erano vissute per quarant'anni senza mai parlare neppure ai figli della loro tragedia, di fronte allo sguardo di quella cinepresa avevano cominciato a raccontare e rivivere, liberando ricordi che sembravano già cancellati. E l'ascolto delle loro parole rivelava un mondo di solenne silenzio, dove la memoria poteva accogliere quelle tracce purissime di storia, senza alcuna retorica, senza artificio. L'immagine cinematografica non era più finzione, ma neppure mero documento di cronaca: qualcosa di più, qualcosa di "altro" si era avverato, perché la verità di quel film era al tempo stesso quella di un'opera d'arte —anzi, di molte arti— e quella dell'umanità al di sopra delle sue rappresentazioni.

 

Durante quegli anni maledetti, molte cose erano state uccise: un enorme numero di esseri umani, e un infinita catena di speranze, coltivate e raccolte durante i secoli della nostra civiltà. Giuseppe Gaccetta, in quegli anni, raccoglieva la sapienza che il suo maestro aveva seminato in lui: era l'arte del violino di Paganini, era il virtuosismo che sbalordisce il pubblico ma che rapisce il virtuoso in un altro mondo, lontanissimo dalla quotidianità, dalla realtà comune e profana della vita. In quel mondo esistono altre leggi, altri equilibri, altre fenomenologie. Eppure da quel mondo si comunica ad ogni altro mondo o universo, indicando percorsi di speranza, di amore, di bellezza, "oltre" quelle mura che l'uomo erige fra sé e la sua paura.

Anche l'arte che Giuseppe Gaccetta aveva "ricevuto" dal suo maestro Francesco Sfilio, unico allievo di Camillo Sivori che fu l'unico allievo di Paganini, ritorna per vie straordinarie, dopo sessant'anni di silenzio umilissimo, lavorando il legno nella sua bottega di falegname in vico Vegetti, nei pressi del Teatro San Agostino, nella vecchia Genova. La memoria torna per caso, come per caso aveva inciso nove Capricci nel 1931, a dispetto della promessa fatta al suo maestro di non suonare in pubblico fino al momento del primo "Concorso Paganini", che doveva avvenire nel 1940, e invece non avvenne, perché c'era la guerra.

 

Dunque un'intera vita di virtuoso violinista si riduce a pochi minuti di suono inciso nella cera, salvati per caso, ritrovati per caso. E sembra una storia triste, finché non ci si accorge che in quei sessant'anni di incisioni e dischi e nuovi talenti e nuove tecniche non c'è più spazio per nulla; nemmeno l'ombra di quella tanto declamata immortalità, né in Paganini, né nelle sue opere forse più grandi: la catena dei suoi allievi. A noi resta da scegliere se "concentrare" in quei pochi minuti registrati da Gaccetta tutta l'arte più autentica di Paganini, addensandola con parole e con atti di riconoscimento, oppure scegliere di apprendere la sua lezione, che non è certo solo quella di imparare a maneggiare con destrezza un violino. A quest'ultima scelta seguirebbe l'accorgersi che in quei minuti di virtuosismo è registrata l'eternità dell'arte, e quell'arte non è mai uguale, né fine a se stessa.

Paradossalmente, nell'epoca di Internet e della velocità che costringe ogni comunicazione ad assottigliarsi e minimalizzarsi, il virtuoso Giuseppe Gaccetta è riuscito, all'inizio del XX secolo, a compiere la sua opera nel modo più adatto alla realtà cui la discografia e tutto il mondo dell'arte andava incontro. Sebbene per caso... o forse per destino.

 

 

 

* "Un'arte si comunica a delle altre arti"; Claude Lanzmann, Shoah, ed. Rizzoli, Milano 1997

** Anny Dayan-Roseman, Shoah: l'écho du silence, in "Au sujet de Shoah, le film de Claude Lanzmann", ed. Belin, Parigi 1990.