Cocktail anno 8 n. 3

Sport

Irripetibile   Barkley

 

 

Solo in questo modo si può definire uno dei più grandi giocatori della storia della NBA, un personaggio unico che ha entusiasmato con i suoi numeri e ha parlato a ruota libera su tutto e tutti senza mai nascondersi. Questa doveva essere la sua ultima stagione, dopo una carriera eccezionale, e lo è stata, ma non come lui e tutti noi avremmo previsto. Ma le cose non avvengono mai per caso: mercoledì 8 dicembre 1999 sarebbe dovuta essere solamente la sua ultima partita a Philadelphia, la città della sua prima squadra NBA, i 76ers, invece è stata la sua ultima partita e basta. Infatti, a quattro minuti e nove secondi dalla fine del primo quarto, nel tentativo di stoppare una conclusione di Tyrone Hill, Barkley è atterrato malamente (questa scena l'ho già vista altre volte...) e si è rotto il tendine che collega la coscia alla rotula del ginocchio. Portato a braccia negli spogliatoi, è stato adagiato su un lettino dove il medico dei 76ers lo ha visitato e gli ha diagnosticato la gravità dell'infortunio. Barkley è scoppiato in un pianto a dirotto. Dirà in seguito: «Ho capito che era finita quando ho visto le condizioni della mia gamba. Sapevo che era tutto finito. Allora dentro di me ho pensato: è stato bello!». Poi ha chiesto un telefono, ha chiamato la moglie Maureen che era rimasta a Houston ed in lacrime ha detto: «It's over», «È finita». Ha fatto la doccia, poi si è vestito e, sorretto dalle stampelle, è rientrato in campo, ha ricevuto la sesta standing ovation della sua serata dal pubblico del "First Union Center", poi è andato a sedersi in tribuna fra la nonna di 73 anni, Johnnie Mickens, e la madre Charcey Glenn, le due donne che lo hanno cresciuto ed allevato al prezzo di immani sacrifici, vista la povertà della famiglia, sopratutto dopo che il padre se n'era andato da casa quando il piccolo Charles aveva soltanto un anno.

«Dio non commette errori - ha detto la madre - e ha fatto chiudere la carriera a Charles proprio dove l'aveva iniziata. E' un segno del destino». La notte tra mercoledì e giovedì nell'albergo dei Rockets (sua terza ed ultima squadra), Barkley non chiude occhio ma passa la notte in lacrime nel buio della sua stanza, mentre i rumori della strada sembrano la colonna sonora di un momento drammatico della sua vita. «Era scritto da qualche parte che dovessi finire a Philadelphia, la città che mi ha visto quando ero una palla di lardo, la città che mi ha fatto crescere, maturare, sposare, diventare padre e uomo. Era scritto. Mi piace pensare che questa sera fossero presenti alla partita persone che hanno visto il mio primo incontro in città e che ora potranno dire di aver visto anche l' ultimo. Sono grato a tutte queste persone. Non c' è tristezza nel mio cuore. Philadelphia rimarrà una città fondamentale per me. Se andrò nella Hall of Fame (e ci andrà!) lo vorrò fare indossando la maglia dei Sixers».

Barkley è sempre stato un personaggio particolare dentro e fuori dal campo. All'inizio della sua carriera era un giocatore alquanto cicciottello, alto "solo" 189 cm, ed era un fenomeno della natura considerate la sua struttura fisica, le sue incredibili qualità atletiche e la sua abilità su un campo da basket. Aveva la testa piccola e più simile ad una palla da biliardo, due occhi grandi e quasi sproporzionati, un corpaccione mastodontico (anche fatto di grasso) ed un sedere che faceva provincia vista la densità. Correva con una rapidità eccezionale, saltava come un canguro e quando, dopo aver preso un rimbalzo, partiva in contropiede era assolutamente inarrestabile. Nei suoi anni a Philadelphia era affiancato da due "mostri sacri" del basket: Moses Malone, che fu anche il suo "maestro", e Julius "Doctor J" Erving, entrambi però a fine carriera. Così quando uno venne ceduto e l' altro si ritirò, Barkley risultava essere una grandissima stella in una squadra però troppo povera di talenti, così chiese di essere ceduto nel 1992 ad una squadra da titolo, e arrivò ai Phoenix Suns. A Phoenix rimase 4 anni, raggiungendo anche il titolo di MVP e la finale nel 1993, ma purtroppo per lui di fronte aveva i Bulls del suo grande amico Michael Jordan, che sconfissero i Phoenix  in sei partite. Gli anni successivi Barkley riprovò a raggiungere nuovamente la finale: ma un incubo di nome Olajuwon e i suoi Rockets glielo impedirono per due anni di fila, la seconda volta in maniera clamorosa. L' ultimo anno a Phoenix fu deludente, e quindi chiese di essere ceduto ai Rockets di Olajuwon e Drexler a formare un trio delle meraviglie già presente nel Dream Team di Barcellona nel 1992. Ma tutti e tre in fase calante e tormentati dagli infortuni non sono mai riusciti ad andare più avanti del secondo turno dei playoff.

E arriviamo ad oggi, con un Barkley che è stato amato ma anche odiato per i suoi atteggiamenti e i suoi modi di fare (spesso coinvolto in risse dentro e fuori dal parquet), ma che nonostante tutto ci mancherà tantissimo per la sua verve e le sue battute a dir poco micidiali. L'ultima, quella pronunciata dopo l' infortunio, è memorabile: «...tutto quello di cui questo paese aveva bisogno era di un altro nero senza lavoro».

Ci mancherà eccome il buon vecchio Sir Charles, il giocatore più polemico, petulante, ma sincero, autentico ed unico. Grazie Chuck!

So long Sir Charles!

                                                                                  Fudo della Montagna

 

 

 

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