GUERRA IN KOSSOVO
Analisi di Luca Rastello

Proponiamo di seguito il contenuto dell'intervento di Luca Rastello
(giornalista che scrive su diario), di ritorno dai Balcani, a
un'assemblea tenuta nell'università di Torino.
Mette sul piatto sicuramente tante cose che non vengono fuori nei
media.
E' da leggere con un planisfero davanti, ed è abbastanza lungo. Ma
offre davvero delle nuove chiavi di interpretazione.
Coordinamento universitario contro la guerra (facoltà umanistiche di
Torino)

Ci sono tre argomenti a cui vorrei accennare da porre al dibattito:

il primo è una domanda: il Kossovo è oggi il teatro, e sicuramente
solo il primo teatro, di questa guerra ma è possibile pensare che gli
interessi strategici che questa guerra coinvolge siano limitati al
Kossovo o in generale alla Federazione Jugoslava ?

il secondo argomento è doloroso: è accennare alla domanda sul "che
fare", domanda nobile ma che ci trova, secondo me, privati da questa
guerra addirittura dei linguaggi critici ed analitici per reagire, per
resistere a quello che sta succedendo. Il paradigma umanitario oggi
viene previsto tra le armi dalle parti in guerra. L’aiuto umanitario,
l’azione umanitaria fa parte anche di strategie belliche. Con questo
bisogna fare i conti anche se è molto difficile e doloroso.

il terzo argomento - cercherò di essere veramente sintetico su tutti e
tre, quindi mi perdonerete lo schematismo a cui sarò costretto che
spero non offenda l’intelligenza - è la responsabilità o no del
cosiddetto "popolo serbo", perché nel dibattito politico su questa
guerra mi pare che si confrontino posizioni specularmente
semplicistiche e ideologiche, a volte addirittura venate di
propaganda, e credo sia il caso di aprire anche un dibattito sui
linguaggi con cui andiamo a parlare di questa guerra, che sarà
di lungo periodo.

Punto primo. Interessi strategici
Mi perdonerete un’immagine semplificatoria. E’ l’immagine di due assi
che s’incrociano. Io credo che si possa dire che questa guerra
negli attori è una guerra mondiale, gli attori di questa guerra sono
mondiali;
negli interessi strategici e nelle poste che sono in gioco è una
guerra mondiale;
nello sviluppo territoriale oggi è una guerra localizzata ma, lo dico
con tristezza, ma con assoluta sicurezza, non rimarrà localizzata al
Kossovo. Si può sperare che rimanga una guerra localizzata alle aree
meridionali dei Balcani, ma coinvolgerà certamente altri stati: il
Montenegro e l’Albania per primi, la Macedonia in seguito, ci sono
rischi anche per la Bulgaria e per la Grecia.

Per almeno due parametri su tre siamo di fronte a una guerra mondiale.
Bisogna prenderne atto. Il più problematico è forse il secondo che ho
citato, gli interessi strategici in gioco.
Io mi riferisco a delle analisi che non vengono sicuramente da
ambienti che potremmo definire critici nei confronti della guerra e
delle azioni militari, questo per appoggiarmi a una fonte non sospetta
di partigianeria, il genere di partigianeria per lo meno nel senso in
cui potrei essere partigiano io.
Il generale Alfred Moisiu, il delegato, rappresentante dell’Albania
alla Nato - un uomo che parla con estrema chiarezza -, dice per
esempio che l’azione umanitaria della Nato è il preludio
all’intervento di terra. Analizza le forze che vengono schierate sul
territorio per l’azione umanitaria, reparti da combattimento oltre le
prime linee, ridendo dell’informazione italiana che ci racconta che si
utilizzino reparti di questo genere per portare sacchi di farina. E
scrive anche come avverrà l’inizio di questa attacco di terra, e
questo se serve lo racconteremo dopo.
Ma soprattutto parla dal suo punto di vista di un asse strategico
importante, politico, economico, culturale - non religioso, attenzione
- che unisce in un sistema di relazioni di mercato, ma anche
diplomatiche, Mosca, Belgrado e Atene. Il punto sensibile di
quest’asse, chiamiamolo asse verticale Mosca-Belgrado-Atene, ma sono
coinvolte anche la Bielorussia, l’Ucraina e altri paesi; però i tre i
punti fondamentali dal punto di vista di un’analisi schematica del
conflitto sono questi.

Il punto sensibile è Atene. La Grecia appartiene alla Nato, fa parte
dell’Alleanza Atlantica, ma è divisa dalla Turchia da una
conflittualità molto vecchia e molto forte e potenzialmente esplosiva.
Atene è scossa da un movimento contro l’appartenenza alla Nato che non
è soltanto un movimento popolare di massa, ma coinvolge i vertici
dell’esercito. Atene è un alleato inaffidabile e decisivo.
L’inimicizia con la Turchia fa di Atene oggi un punto estremamente
sensibile.

Permettetemi una passeggiata in Asia, brevissima. Oggi la Turchia
risponde agli interessi strategici degli Stati Uniti più di qualunque
altro paese nel Mediterraneo. La dissoluzione dell’Unione Sovietica
nel ’91 ha creato repubbliche nel centro dell’Asia; se ne possono
citare cinque, sono quelle che finiscono in stan:
Uzbekistan, Kazakistan, Turkmenistan, Kirgisistan e Tagikistan. Sono
repubbliche che dispongono di risorse energetiche e di risorse
naturali così importanti da aver messo in ombra il ruolo dei paesi
arabi. I più importanti giacimenti di petrolio oggi al mondo sono nel
mar Caspio e in queste repubbliche. Sono repubbliche che hanno gas
naturale quanto basta per alimentare almeno un terzo del pianeta.
Dispongono della risorsa per cui, dicono molti analisti, si faranno le
guerre del ventunesimo secolo: l’acqua e i luoghi di transito
dell’acqua; e dispongono di una quarta risorsa, importantissima
in un contesto come questo in cui l’economia criminale sempre di più
infiltra quella legale fino a non esserne distinguibile: papavero da
oppio.
Ora questi cinque potenziali giganti economico-energetici hanno anche
due caratteristiche importanti:
sono islamici ma laici, come la Turchia;
vi si parla la lingua turca. Addirittura in quattro di queste cinque
repubbliche la lingua turca è la lingua della maggioranza della
popolazione.
E’ chiaro che la necessità di definire gli obiettivi strategici dei
tempi che vengono, riconducendo queste repubbliche, così
potenzialmente importanti, alle aree di influenza dell’occidente,
sottraendole alla gravità naturale nei confronti della Russia e alla
tentazione del fondamentalismo islamico, vede nella Turchia il ponte
privilegiato. Questa è anche una ragione per cui la Turchia può
permettersi di massacrare tutti i kurdi che vuole senza che nessuno
dica niente.

Questo è l’elemento che rende delicata la Grecia. La passeggiata in
Asia finisce tra quindici secondi, e comprende ancora un breve detour
in Afghanistan. il primo confronto anche armato tra Stati Uniti e
Russia per le linee di rifornimento energetico è la guerra in
Afghanistan.
In Turkmenistan e sul Mar Caspio si produce il petrolio e c’è già un
controllo occidentale. Il Pakistan dà sull’Oceano Indiano ed è a
controllo occidentale. Se si riuscisse a unire queste due terre, in
modo da portare il petrolio e il gas naturale all’Oceano Indiano, e
renderlo disponibile alle petroliere occidentali evitando il controllo
russo, si sarebbe realizzato un corridoio che sottrae una delle
possibilità più importanti da parte della Russia di esercitare una
politica di potenza.
Questo tentativo è stato realizzato con la guerra in Afghanistan. Si è
creato un potere, i talebani, in grado di unificare il paese; i
talebani sono stati alimentati, finanziati, politicamente legittimati
dall’occidente. Un esempio: questi gran produttori di papavero da
oppio sono finanziati coi fondi del programma delle Nazioni Unite per
la lotta alla droga (UNDCP), il cui presidente è Pino Arlacchi. E sono
miliardi. Ma hanno anche diversi altri finanziamenti attraverso vie
meno visibili.
Ora, la linea di deflusso di sud-est è realizzata, le grandi linee di
oleodotto possono partire dal Caspio e arrivare all’Oceano Indiano.

Immaginate - è finita la passeggiata in Asia - che cosa succederebbe
se ci fosse una seconda linea di rifornimento energetico che porta
quelle risorse in Europa, evitando il controllo russo: succederebbe
che la Russia perderebbe l’ultimo aggancio per esercitare una politica
di potenza e per svincolarsi dal ricatto permanente dei prestiti
occidentali del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.

Ripeto: è una schematizzazione semplificatoria ed è uno degli
interessi in gioco, non è una spiegazione di perché si fa la guerra,
non teniamo teorie del complotto; però è un ragionamento per dire
perché gli interessi sono mondiali.
Bene, questa via di deflusso energetico occidentale è un progetto del
Fondo Monetario Internazionale che si chiama ottavo corridoio. Il
paese capo-commessa è l’Italia, ed è una linea di comunicazione che
prevede il più grande oleodotto nella storia d’Europa, un gasdotto e
bretelle di comunicazione stradali e ferroviarie dal mar Nero
all’Adriatico attraverso Bulgaria, Macedonia e Albania. Questo
corridoio otto sottrarrebbe definitivamente alla Russia il controllo
dei movimenti dell’energia; questo corridoio otto, a stretto controllo
occidentale attraverso un’influenza atlantica su Albania, Bulgaria e
forse una modificazione degli equilibri in Macedonia, metterebbe la
Russia nell’angolo. Questa è una delle ragioni per cui su questo
incrocio di assi si gioca anche la disperata resistenza che la Russia
opera in questa guerra.

Allora, abbiamo parlato di un asse verticale e di un asse orizzontale
che si incrociano a sud del Kossovo, non si incrociano in Kossovo, ma
uno dei due deve spezzare l’altro perché siano definiti equilibri
strategici, equilibri che investono addirittura una parte del pianeta
che arriva fino all’Asia orientale.

Ora, supponiamo di voler spezzare l’asse verticale; non si può
attaccare Atene perché è un alleato, perché fa parte della NATO e non
si può attaccare la Russia perché - le ragioni sono ovvie ­ sarebbe
una guerra mondiale distruttiva con risvolti atomici. Si può attaccare
la Jugoslavia, che è l’unico attaccabile. Non solo è l’unico
attaccabile, ma deve essere attaccato, dà ragioni anche umanitarie,
politiche, insomma un regime criminale genocida che fornisce ottime
giustificazioni per un attacco presentabile davanti alla comunità
internazionale.

Questo è un ragionamento molto schematico, di cui vi chiedo scusa ma
semplicemente per rendere conto del fatto che in questa guerra sono in
gioco, indipendentemente da quali siano le cause scatenanti, dibattito
che sarebbe astratto, interessi di portata mondiale, gli attori sono
mondiali; questo per giustificare l’affermazione di inizio che, per
almeno due parametri su tre, è in corso una guerra mondiale.
Se vogliamo possiamo dire che la terza guerra mondiale è stata la
guerra fredda e quindi si può sperare che la quarta non sia calda come
le prime due; ma forse è un eccesso di ottimismo.





Secondo argomento: il paradigma umanitario
La situazione della guerra contemporanea, le strategie belliche
contemporanee prevedono un uso strumentale delle tragedie umanitarie.
La guerra in Bosnia l’ha dimostrato: i civili non un incidente di
percorso ma l’obiettivo della guerra. Gli spostamenti di popolazione
sono spostamenti di massa, biblici, deportazioni, stermini di massa;
sono obiettivi della guerra, non danni collaterali. Oggi le masse di
profughi sono usate da tutte e due le parti ­ attenzione: da tutte e
due le parti - come armi e come strumenti di manovra.
Da un lato il regime jugoslavo usa le masse di profughi per
destabilizzare i paesi potenzialmente ostili in questa guerra. In
Macedonia, per esempio, di due milioni di abitanti, il 35 per cento,
secondo la stima più ragionevole, sono albanesi; un carico di due o
trecentomila profughi cambierebbe le percentuali demografiche su cui
si regge l’equilibrio politico macedone, creando guerra civile.
L’Albania è stata attraversata negli ultimi due anni da due guerre
civili: nel ’97, con la crisi delle finanziarie private, e
nell’autunno scorso dopo l’assassinio di Azem Hajdari. E’ un paese
diviso in un nord e un sud politicamente, militarmente e anche
criminalmente in conflitto tra loro.
Anche qui, uno spostamento di popolazione dal nord crea una situazione
di potenziale guerra civile. Questo Belgrado lo sa e a questo
fine utilizza strumentalmente la tragedia di massa dei profughi.
Ma non è diverso dall’altra parte. La ragione per cui i profughi
vengono tenuti vicino al confine non è astrattamente, basta andare là
per rendersene conto, che pensano di tornare a casa, che pensano che
presto torneranno nelle loro case. Queste masse di profughi servono ad
alimentare un’emergenza permanente che significa scontri di confine
che porteranno all’entrata in guerra di altri stati, trasformando
questa guerra locale in una guerra fra stati. L’Albania è pronta, ha
già mobilitato le truppe, si avvale dell’impiego di forze
internazionali sotto copertura. Il modello è quello dei contras in
Nicaragua. L’esercito albanese oggi addestra e rifornisce di mezzi e
materiali l’Uck. L’Uck arruola a forza i profughi maschi. A
Kalimash, all’uscita di Kukës, c’è un posto di blocco dove gli uomini
vengono separati dalle loro famiglie e arruolati a forza. Questi
profughi servono come carne da cannone; il generale Alfred Moisiu,
delegato albanese alla NATO, lo dice apertamente, saranno la
giustificazione per appoggiare una loro offensiva fallimentare con i
famosi Apache e i mezzi da combattimento ravvicinato, saranno il
pretesto per aprire un corridoio umanitario a forza all’interno del
Kossovo, provocare una reazione serba, e giustificare una
controreazione armata della NATO via terra. A Kukës, a Tropoje,
nell’Albania settentrionale, i profughi servono anche come massa di
manovra, come legittimazione della guerra e come serbatoio per l’Uck.
Oggi si dice che fare aiuto umanitario là è un dovere morale, perché
per esempio solo a Kukës ci sono 140 mila persone che vivono su
trattori, sotto teli di nylon, bambini, malattie curabili che
rischiano di fare strage nei prossimi mesi. E’ vero, però un
elemento che io pongo al dibattito, che è estremamente critico,
difficile da valutare è questo: oggi intervenire lì significa anche
stabilizzare questa situazione, significa fare la manutenzione di
un’arma; per un certo verso, usando un’immagine un po’ forte, è un po’
come oliare un cannone.



Terzo punto. La cosiddetta responsabilità del popolo serbo
Allora, nelle piazze del pacifismo italiano, della resistenza a questa
logica di guerra, si sente spesso dire "il popolo serbo non ha colpe".
E’ una frase che contiene almeno due concetti ambigui e pericolosi:
popolo e colpa, credo. Io non credo che esista un popolo serbo; i
popoli che abitano la Serbia sono tanti, con appartenenze, ascendenze
politiche e culturali, tradizioni e addirittura religioni diverse.
L’operazione criminale di Milosevic, nel corso di dieci anni, è stata
semplificare la complessità sociale della Serbia, ridurre una società
complessa a un popolo. Quindi usare le parole di Milosevic oggi è
un’operazione pericolosa, ideologicamente complice, anche se questo
non avviene consapevolmente.

Non si può però sostenere che la società civile serba, così com’è
configurata oggi, non abbia responsabilità. Sarebbe semplicistico. E’
un inganno, speculare all’inganno propagandistico atlantico, che
crea nuovi Hitler a ogni cantone. Non servono le favole consolatorie
sul popolo buono, innocente e bombardato. Serve analizzare quello che
è successo in Serbia. In Serbia è stata realizzata un’operazione
di pulizia sociale, prima ancora che etnica, che nel corso di dieci
anni ha tacitato e culturalmente massacrato la maggior parte delle
aree potenzialmente critiche. Ha ridotto al silenzio e alla fuga la
borghesia cosmopolita, meno sedotta dal nazionalismo e dai massacri
che quel nazionalismo di massa produceva in Bosnia e in Croazia e
dalle potenzialità di distruzione della democrazia.

Io non sono d’accordo con i giornalisti che usano l’immagine
"Milosevic come Hitler". Fra i giornali che usano quest’immagine c’è
anche quello per cui io lavoro, che è diario, e infatti stiamo
conducendo un dibattito interno. Non perché io mi schieri con
Milosevic, ma forse perché è un’immagine consolatoria, perché rimanda
a un modello storicamente già sconfitto, che richiede soltanto un
aggiustamento militare.
Rimanda a una realtà che appartiene già al passato della politica e
della storia, che la forza potrebbe rovesciare. Purtroppo il potere di
Milosevic incarna un modello, proprio perché non è hitleriano, oggi
molto più pericoloso. Milosevic rappresenta la commistione della
gestione della cosa pubblica e del potere politico con la gestione
della finanza criminale, dei capitali di provenienza illecita e la
criminalizzazione complessiva del tessuto economico produttivo di un
paese.

E’ un modello che ha incarnazioni e realizzazioni in tutto il mondo:
in Russia, per cominciare, nell’Asia che abbiamo citato, nel terzo
mondo in Nigeria, è un modello espansivo, pervasivo. E’ un modello di
mafia che si fa stato scavalcando il vecchio modello italiano di
condizionamento mafioso sulla politica.
In un clima di accesso immediato, accelerato al mercato selvaggio,
l’unico ciclo economico che permette le accumulazioni rapide di
ricchezza che stabilizzano la nuova classe di potere è il ciclo
criminale. Per le mafie, schematizzando ancora a costo di offendere
l’intelligenza di tutti, è molto più redditizio ed economico oggi
assumersi direttamente la gestione della cosa pubblica.
Milosevic e la sua cupola hanno realizzato in Serbia, attraverso la
privatizzazione del credito, un sistema che ha permesso loro di
impoverire la società civile, di drenare tutta la valuta pregiata in
circolazione nella Jugoslavia, di impadronirsi di quote di controllo
in tutte le attività produttive realizzando una centralizzazione
dell’economia che non esisteva nemmeno sotto il socialismo.
Paradossalmente, in un tempo di privatizzazione l’economia è
centralizzata al potere politico che lo ha acquisito grazie alle
speculazioni truffaldine realizzate nel sistema finanziario e fa oggi
di Milosevic e dei suoi compagni d’affari, proprietari peraltro delle
banche off-shore di Cipro, dove vengono riciclati i capitali delle
mafie di tutto il Mediterraneo, un riferimento per la criminalità
organizzata di mezzo mondo.

Allora, è il caso di dire: Milosevic non è Hitler. Per questo è ancora
più pericoloso. E’ un modello più moderno, più attuale. In qualche
modo la società civile, così come rimane dalla pulizia sociale che è
stata fatta, ha trovato, a partire dagli intellettuali, per arrivare
all’informazione, alla funzione pubblica e ai settori produttivi, i
propri spazi di interesse in questo sistema. Hanno creduto di potersi
arricchire. Dire che non ci sono responsabilità nella Serbia, è come
quando cercano di dirci che gli italiani erano tutti antifascisti e
c’era Mussolini, ma era un incidente della storia. Sono favole
consolatorie alle quali non conviene cedere perché fanno velo alla
comprensione di quello che sta succedendo.





Conclusioni
Finisco dicendo che è stata un’operazione criminale, illegittima e
sbagliata iniziare questa guerra perché questa guerra era voluta da
tutte le parti: era voluta dall’Uck, per realizzare il programma di
indipendenza del Kossovo al di là delle scelte di diritto
internazionale e per diventare la classe dirigente del nuovo Kossovo
scavalcando le rappresentanze democratiche di quella popolazione;
era voluta dalla Nato per ridefinire il disegno strategico del proprio
controllo su quell’area; era voluta da Milosevic per consolidare il
suo potere all’interno e perché, consapevole dell’importanza
strategica di questa guerra, Milosevic sapeva di poter tirare in lungo
e giocare il tutto per tutto senza perdere appoggi importanti.
Iniziare questa guerra è stata un’operazione criminale. Purtroppo
iniziare una guerra è come aprire una centrale nucleare: non basta poi
chiuderla e pensare di aver risolto il problema. Ci sono processi che
ormai vanno avanti e coi quali bisogna confrontarsi non più con le
parole d’ordine astratte del passato perché sarebbe un’ingenuità ai
limiti della connivenza.


Luca Rastello. Giornalista

 

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