CONTRIBUTO AL DIBATTITO DEL 20-21 MAGGIO SULLA QUESTIONE DELLO STATO

Orietta Lunghi

Il 20 e 21 maggio a Firenze come Movimento della Confederazione dei Comunisti, Rete dei Comunisti e "L’altra Lombardia – Su la testa", daremo luogo ad un convegno il cui intento è il tentativo di avviare un processo aggregativo dei comunisti che preveda, sulla base di un documento comune, un coordinamento nazionale.

Abbiamo concordato, come tema di dibattito introduttivo al lavoro politico e organizzativo che ci proponiamo, di dedicare la prima giornata di questo incontro ad una riflessione attorno alla questione dello Stato ritenendola da sempre centrale e oggi da evidenziare maggiormente esistendo una rimozione che investe anche la sinistra.

Il contributo sull’argomento in discussione che è proposto con questo articolo è ovviamente segnato dalla parzialità e dai limiti di chi scrive questa nota.

E’ ben presente, infatti, la letteratura sterminata esistente sull’argomento e la stessa qualità elaborativa già prodotta da tanti studiosi marxisti. E’ evidente che se questa consapevolezza prevalesse, sarebbero risparmiate ai compagni e alle compagne tante riflessioni condotte in termini inadeguati, ma questo avrebbe come risultato la rinuncia da parte di chi non ha il "buon diritto" dato dall’approfondimento scientifico dei temi in discussione, ad esprimere comunque opinioni da sottoporre a critica e a scambio di punti di vista.

Lo Stato e l’ordinamento della società, dal punto di vista politico, non sono due cose differenti: lo Stato è l’ordinamento della società" K. Marx.

Riforme istituzionali e involuzione autoritaria, perdita di legittimità dei diritti del lavoro, negazione dei bisogni, apparati repressivi, sono tanti gli aspetti classici con i quali si può affrontare un’analisi attorno alla questione dello Stato.

Ma oltre ai singoli temi occorre prioritariamente tornare ad affrontare, in termini complessivi la riorganizzazione dei poteri della classe dominante alla luce delle trasformazioni in atto.

Riprendere l’analisi dell’attuale forma di Stato non è più interesse della sinistra che ha sostituito la questione del Potere con quella del Governo, assumendo come proprio ambito d’intervento la gestione dei poteri borghesi e non il loro sovvertimento.

Portare la classe alla direzione dello Stato, avviando l’estinzione dello Stato stesso, non è oggi questione all’ordine del giorno se non in termini di lavoro incessante. Davanti alla realtà che si presenta oggi, a partire dalla domanda di comunismo che appare assente, il lavoro immane per tentare di ricostruire le condizioni stesse per parlare di rottura rivoluzionaria in termini odierni e plausibili, approccio ben diverso dal declamarne la necessità, è l’unico, terreno sul quale possiamo muoverci.

Ma il danno che produce la sinistra al Governo della classe borghese tentando di farsi Stato, è sotto gli occhi di tutti. Come quel furbo fattore, crede di stipare qualche fiasco di vino lavorando alla vigna del padrone, ma la vigna è quella della borghesia. Se chiede sfruttamento pretende sfruttamento, se chiede guerra, vuole guerra.

Se al padrone servirà un altro buon fattore, troverà un fattore migliore. Le leve del potere si possono gestire ma sono quelle di altri, solo un processo rivoluzionario può determinarne le consegne.

A questa vigna non lavorano i comunisti, ma anche gli stessi riformisti europei, ammesso che questa definizione sia oggi corretta, dovrebbero riflettere sulla natura reale, sulla qualità delle riforme che hanno prodotto presiedendo i loro governi. Oltre alle considerazioni che in altra sede si sono espresse riguardo allo spazio reale che ha oggi il riformismo, le riforme che presentano una qualche utilità a livello popolare, necessitano comunque di conflitto e non di consenso verso il Governo.

Del resto, più volte nel corso delle nostre riflessioni, abbiamo già messo in evidenza come la sinistra, sia quella di governo sia quella di movimento, abbiano volutamente rimosso la questione dello Stato, ponendosi così all’interno del sistema.

Questo assorbimento avviene, sebbene in termini differenti, sia gestendo la direzione di marcia della classe dominante come accade alla sinistra governista, ma alla lunga, anche esprimendo lotte sociali nelle quali l’azione finisce per sostituire il senso generale dell’agire politico.

Praticare obiettivi di lotta, senza tenere conto dell’obiettivo di fondo, può sembrare un modo concreto e fattivo di esprimere antagonismo, certamente è una pratica anche positiva, ma diventa una scorciatoia che non incide se vuole sostituire la ricerca e l’analisi, in ultima analisi, la politica.

Porsi in termini contemporanei la questione dello Stato è invece una condizione obbligata per i comunisti. Senza affrontare questo nodo non è possibile neppure iniziare la ridefinizione di un ambito autonomo d’intervento teorico, politico e sociale, di un agire che abbia come ragione d’essere quello di porsi il compito, o almeno il quesito, del rovesciamento del potere borghese.

Un movimento comunista si forma per la rivoluzione, si organizza per la presa del potere con il fine di sostituire il "regno dell’illibertà" e dell’oppressione. In questa direzione, tra le difficoltà più aspre, porta avanti la propria ricerca e compie il proprio lavoro per diventare forza organizzata, cercando di rappresentare bisogni, istanze e interessi di campo, non ponendosi l’obiettivo di un’improbabile interesse generale e di una generale emancipazione aclassista, propria dell’approccio riformista.

Quando si esaminano le trasformazioni delle funzioni dello Stato e delle sue forme, intendendo con questo le regole stabili che hanno determinato un modello democratico, è forse ovvio ribadire che questi mutamenti intervengono a sancire processi avviati da tempo.

Com’è forse scontato, ma non inutile, riaffermare che come comunisti abbiamo chiare, attorno a questa questione, almeno due coordinate di fondo.

La prima è attinente alla consapevolezza che parlando delle forme delle politiche e del relativo assetto democratico (riferendoci alle formazioni statuali più avanzate, proprie del ‘900) si parla sempre di democrazia formale e non sostanziale e quindi di un modello variabile e comunque rigorosamente interno alla delimitazione imposta dalla classe dominante.

L’altra questione, che non possiamo mai perdere di vista, attiene ai rapporti di forza che i due estremi reali della contraddizione stabiliscono nelle diverse fasi, sapendo che non esiste tra loro conciliazione ma che trattandosi di una guerra, si può parlare in termini di tregua, sconfitta e ripresa dello scontro da parte dei due campi contrapposti.

Per un esame degli avvenimenti politici e sociali che hanno segnato i principali passaggi che connotano le trasformazioni di una forma di Stato, non essendo l’ordinamento dei poteri separabile dalla società, si dovrebbero osservare le trasformazioni in termini speculari alle modificazioni dei processi di produzione e accumulazione, alle modificazioni politiche generali che intervengono sul decadimento del patto politico e sociale che aveva determinato il precedente assetto, tenendo sempre come bussola per l’orientamento, l’analisi dei rapporti di forza.

Vi sono fasi in cui il costo della democrazia formale, così come si è andata configurando per determinati rapporti di forza e per equilibri politici stabili, comporta un costo troppo alto per il sistema borghese e presenta vincoli ostativi troppo pesanti per lo sviluppo capitalistista.

Assistiamo oggi ad uno sviluppo incessante del Capitale che è proprio di questa fase d’aperto scontro interimperialista.

Si ripropone, in forme odierne, un conflitto interno al capitale che non consente margini, che si svolge tutto nei punti più alti dello sviluppo e che esprime l’imperativo, per la competizione intercapitalista in atto, di rompere, a partire dall’Europa, ogni argine sul fronte del lavoro, del conflitto e della configurazione dei modelli democratici conseguenti.

Passaggio difficile e non lineare, anche per l’avversario, ma la cui direzione di marcia è tracciata.

Se queste, secondo il punto di vista d’alcuni compagni, sono le coordinate di fondo per cui si modificano le forme di dominio, oggi s’insiste invece molto su un paradigma, escludente d’ogni altra analisi, che correntemente è definito con il termine di globalizzazione.

E’ quasi come fosse apparso alla ribalta della storia un fenomeno inedito che tutto sussume e omogeneizza segnando, come una bandiera, il punto di svolta dell’era fordista, come se il peso del commercio internazionale "interno" alle grandi imprese e quello con le loro filiali, non siano stati fenomeni prodotti proprio dal fordismo maturo. E quindi, nel caso, il post fordismo stesso andrebbe letto non come cesura ma come processo.

Un mondo "globalizzato" e definitivamente "post fordista", così com’è oggi proposto, sia a destra come a sinistra, secondo il mio punto di vista, non serve affatto a dimostrare che si stanno comprendendo i processi in corso solo perché si definiscono.

Ci sono dei danni e dei rischi in questa neo ortodossia.

Il primo riguarda il metodo conoscitivo, perché si determina uno sbarramento che chiude ogni possibilità d’indagine ulteriore. Un processo che si definisce è un ossimoro che impedisce, dentro definizioni chiuse, un’ortodossia che è nemica della dialettica.

Il secondo danno riguarda la costruzione di un apparato di pensiero non utile per i comunisti che l’assumessero come analisi, in quanto la realtà appare dominata senza via d’uscita presente e futura dentro l’ambito di un Capitale che viene configurato oltre che immanente anche invincibile.

Infatti, a ben vedere, questo mondo globalizzato, dove tutto è post qualcosa, assolve alla funzione di escludere la possibilità stessa del conflitto in quanto tutto sarebbe già compiuto, e alla fin fine annulla la necessità stessa della politica intesa come strumento per il sovvertimento..

Queste definizioni apodittiche, tendono ad opacizzare, creando dei Totem inattaccabili, i poteri reali e gli apparati di supporto con il quale si esprime la classe dominante. Si volatilizzano nell’immaginario, pur permanendo fortissimi, le funzioni dello Stato e degli Stati, così come, di pari passo si induce a negare il lavoro, pur aumentando il lavoro salariato, decretandone la fine e la fine della sua incidenza ormai per sempre.

Senza dirlo apertamente è la contraddizione Capitale Lavoro che viene annullata, come se il Capitale, globalizzato e post fordista fosse riuscito ad uccidere per sempre il proprio nemico, regnando incontrastato, non per una fase di sconfitta, ma definitivamente. Non c’è bisogno di rivoluzione, insomma, perché l’ha già fatta il Capitale considerato che i due campi sarebbero ridotti ad uno.

Questo impianto del pensiero, che si riferisce alla globalizzazione post fordista, quando è esasperato, tende, infatti, ad escludere l’insieme delle forme antitetiche che produce l’oppressione di classe, ineliminabili in quanto determinate dalla struttura feroce del capitale, riducendo la contraddizione ad unità, senza anelli deboli o possibili punti di rottura, finendo per sacrificare definitivamente il metodo marxista di mettere sotto processo i fatti rilevando la natura contraddittoria della realtà.

Mentre invece, le trasformazioni non andrebbero né enfatizzate né negate. Anzi, esistono aspetti prorompenti e devastanti, propri di questa fase, conseguenti ad un processo d’accumulazione senza sbarramenti, dopo la fine della politica dei due campi, che sono da studiare.

Per esempio gli aspetti legati alla possibilità illimitata di collocare investimenti, la crescita della mobilità concorrenziale dei capitali nel meccanismo generale d’accumulazione, i processi d’accumulazione cognitiva data dalla rivoluzione informatica etc.

Si può convenire, perché è un fatto oggettivo, che sia cresciuto il grado d’internazionalizzazione delle economie e sul punto che è in corso una configurazione di fase nella quale il capitale industriale e finanziario hanno recuperato una libertà d’azione inusitata. Anche se, da quanto ho inteso, è difficile affermare, che esista un unico tasso d’interesse, un unico sistema dei prezzi per i beni prodotti che siano validi a livello internazionale.

La tirannia finanziaria che si è istituita ha indebolito pesantemente il lato del lavoro nel suo confronto con il capitale, costringendo il lavoro ad essere flessibile e mobile, non diminuendo, anzi crescendo come quantità ma in termini d’organizzazione disaggregata.

Il controllo sul lavoro è ferreo, com’è ferreo il controllo sociale e la necessità di cambiare le regole degli assetti dei poteri.

Considerato che il tempo è denaro, non si comprenderebbe la perdita di tempo e di fatica che comporta per il Capitale questo sforzo di normalizzazione sul fronte del lavoro, specialmente a livello europeo, se questi fossero ormai fattori irrilevanti.

Piuttosto che di fine del lavoro o di fine dello Stato, nella sussunzione apocalittica che avrebbe operato il Capitale, parlerei della riduzione ad invisibilità del lavoro, delle forme oppressive e repressive del controllo sociale e politico proprio della funzione degli Stati.

La partita, anche parlando di Stato, anzi, proprio parlando di Stato, si apre al cuore del campo e il Capitale non può che ricominciare ad attaccare dal suo nemico, il lavoro.

Il conflitto di classe, "il lato cattivo che produce il movimento che fa la storia", oggi è scoperto, isolato, indebolito ma non eliminato.

A sanzione di questa debolezza, arrivano le progressive cancellazioni dei presidi conquistati a livello di classe.

Per una sorta d’equivoco prodotto da un’analisi parziale che non considera "la cosa in se" e non si attiene alla rilevazione della realtà come sintesi dei fenomeni concreti, si può avere la falsa impressione, avvalorata nell’ambito di una generica sinistra di classe, che la società del nostro paese e delle socialdemocrazie europee, stiano attraversando una fase d’involuzione generale del sistema democratico.

Non si tiene di conto che il Capitale è in fase espansiva ed evolutiva e quindi non è l’insieme del sistema democratico a risentirne e a regredire ma la classe oppressa.

Quest’approccio universalista del bene comune, che tende a livello delle regole democratiche, (sempre formali) ad unificare interessi contrapposti in un supposto interesse generale è fuorviante perché lega allo stesso carro gli oppressi e gli oppressori., mentre la forbice dei bisogni si divarica.

Appare evidente che questa visione universalista e non dinamica dei rapporti di classe sul tema della questione dello Stato o più comunemente, sull’assetto democratico, svela in sostanza una visione profondamente riformista, pur se mascherata, nel caso della sinistra più radicale, dal rimpianto per l’insieme dei diritti e delle libertà oggi cancellate a partire dallo sfascio dei diritti sul lavoro, sulla persecuzione degli immigrati etc.

E il lamento della onesta sinistra di classe non si ferma. Investe parimenti, e questo fa parte del giuoco d’assemblaggio tra padroni e sfruttati, il soggetto antagonista.

Si leva allora un rammarico, senza responsabili, sui perduti presidi di solidarietà, di coscienza di classe, sull’emergere del razzismo, sulla divisione tra lavoratori giovani e vecchi etc. Non manca la critica verso il Governo che magari si esprime, manca la dissociazione, il chiamarsi fuori da coalizioni presenti o future con quanti hanno prodotto scelte scellerate, come una guerra imperialista, o le leggi sul lavoro in affitto o quelle concordate con i Sindacati di regime.

Questa sinistra "del rimpianto" è speculare a quella che governando concorre a produrre la devastazione ed è sempre pronta pur resistendo, ad essere assorbita, come accade quando non si hanno prospettive d’alternativa e profondi legami storici.

Ci sono molte ragioni nelle analisi prodotte da una parte di questa sinistra ma certo un torto di fondo.

Quello di aver rimosso, anche per ragioni adattive, opportuniste, il necessario spirito di scissione dal capitale e dalle forme sociali e politiche che il suo blocco storico di riferimento assume compresa la questione dello Stato.

E’ declamatorio, agire alla meno peggio sul livello sociale senza alzare la bandiera della politica e la bandiera della politica dei comunisti, parlando di P.R.C., è legata non tanto o solo ad una prudente o passeggera opposizione ma alla lotta contro i poteri costituiti per un nuovo ordine di poteri.

Questo spirito di scissione dal capitale è invece una condizione ineludibile per i comunisti, per iniziare a riaffrontare la questione della rivoluzione in termini contemporanei.

Questa differenza rende necessario oggi prendere le distanze dalla sinistra in tutte le sue articolazioni.

E’ necessario porsi fuori dell’ambito riformista, in quanto questo oggi non può che produrre altro da un pensiero e una prassi non autonoma dal capitale e conseguentemente legarsi agli ordinamenti del suo apparato statale.

Occorre, con tutte le difficoltà del caso, riprendere il passo dalla teoria dei bisogni, dalle modalità nuove dello sfruttamento che riguardano oggi moltitudini se solo si pensa alla divisione etnica del lavoro nei punti alti dello sviluppo.

Certo, da un punto di vista delle condizioni materiali del proletariato è evidente il peggioramento, com’è evidente quanto, per successive rotture, il sistema di "regole" che ordina la convivenza civile si vada modificando, sostituendo le forme più avanzate d’organizzazione della democrazia formale con provvedimenti restrittivi.

Il dato della vittoria politica del Polo, in ascesa irresistibile, la sua miscela esplosiva che somma il peggio della politica affaristica con un sovversivismo attivo quale quello della Lega e che ha portato un fascista a governatore del Lazio, segnala che a livello profondo, sociale, la devastazione è avanzata e che il sentire popolare è in parte irretito, in mancanza di contro altare, dalla ideologia della classe dominante in termini culturali e di consenso.

Ma è una trappola in cui cade anche la sinistra più radicale quella di leggere questo processo in termini di una generale regressione dell’insieme del modello democratico, ponendosi nell’ottica che dissocia il protagonismo e le condizioni materiali dei lavoratori dallo sviluppo progressivo della stessa società borghese.

Insomma, secondo questa visione, il livello democratico, la civiltà, la stessa cultura, potrebbero svilupparsi o permanere immutati, indipendentemente dal protagonismo o meno del soggetto antagonista, il quale invece, nel caso, emancipando se stesso emancipa l’insieme della società.

E’ possibile invece che questo assemblaggio democraticista che compie una parte della sinistra, finisca per fare molto danno opacizzando perfino la funzione degli apparati repressivi che sottendono lo Stato borghese, iscrivendo anche questo feroce supporto dell’ordinamento dei poteri, comprensivo degli apparati militari e dei servizi, in una melassa indigeribile o in una fissazione d’alcuni specialisti della materia.

La nefasta teoria della "nuova barbarie", della generale fase regressiva che investirebbe sia la classe che subisce il giogo del capitale che il capitale stesso, il quale oggi esprimerebbe il proprio dominio attraverso forme regressive e arcaiche, in una sorta di ritorno all’indietro generalizzato, è imperante quanto nociva.

Come deve essere chiaro che se certe circostanze si verificano esistono dei responsabili, oltre la globalizzazione.

Il Capitale procede più spedito senza il contrappeso della lotta di classe, non esprime né emancipazione né regressione, esprime, come un organismo intelligente, la propria capacità d’espansione secondo, le condizioni che gli si presentano e non ha nessuna altra vocazione da quella della propria valorizzazione.

Se in alcune fasi si può creare l’abbaglio che la democrazia formale, borghese, produca di per sé avanzamenti generali sul piano sovrastrutturale, è perché lotte durissime, ferocemente represse, hanno inciso toccando il nervo della struttura, che non è parte comune o neutra ma separata e in perpetua opposizione.

Il capitalismo è un sistema di rapina, non è in sé soggetto di nessuna vocazione progressiva.

Accetta di darsi regole se lo impongono i rapporti di forza e nel caso le utilizza in cambio di una maggiore pace sociale: basti pensare, per dire di una tipologia dei patti tra le parti che pure avversiamo, alla stessa concertazione triangolare tra Impresa, Governo e Sindacato di regime, della quale è già evidente la tendenza al superamento. Pensare che il capitalismo di per sé possa emancipare l’insieme della società e dei livelli democratici, se il soggetto interessato a liberarsi dal giogo ha il motore fermo è secondo il mio parere non tanto sbagliato quanto negativo

Il sistema complesso e discorde delle sovrastrutture che compongono una democrazia formale è un riflesso dell’insieme dei rapporti sociali di produzione. Esiste una reciprocità, una dialettica reale tra questi aspetti che dovrebbe essere osservata in termini oggettivi, anche per individuare il punto debole dell’avversario, e non ragionando secondo categorie quali evoluzione/involuzione. Questo approccio svela la sua sostanza controrivoluzionaria in quanto prevede che il capitale e la classe di riferimento si strutturino in termini universalisti dando luogo ad uno Stato che è proposto come luogo neutrale tra le parti, portatore d’elementi d’interesse generale. Uno Stato che si autoregolerebbe in termini statici qualunque siano i livelli di scontro che provengono dall’interno delle proprie contraddizioni, come in questa fase dell’imperialismo, senza tentare di stabilire maggiore egemonia, espansione e repressione verso il nemico comune.

In realtà si rompono i patti, si modifica il profilo dei diritti e delle libertà acquisite, si interviene nei dettati costituzionali e statutari, sulle leggi, sui patti sociali e sindacali della precedente fase, si tentano riforme omogeneizzanti quali quelle del maggioritario.

E’ la sinistra che si è incaricata in questa congiuntura di questo compito, e ha già iniziato, dopo averle fatte pagare ai proletari, a pagarne le conseguenze. Sempre a sinistra, un partito come PRC, nel caso migliore si attarda nell’attendismo di chi non ha deciso che strada prendere, senza lavorare per riportare politicamente e sindacalmente il soggetto antagonista, il lavoratori salariati, in condizione d’opposizione e d’attacco frontale.

Sulla questione del Governo, ha già svelato il proprio destino, mentre sulla questione dello Stato si distingue nel tacere.

La partita, parlando di nuove forme d’ordinamento dello Stato, si apre al cuore del campo e il capitale non può che cominciare ad attaccare dal lavoro, come ha da tempo cominciato a fare, per riscrivere, pur con difficoltà, le nuove regole.

Si tratterà per il lavoro futuro di evidenziare il portato pesantissimo dell’odierna repressione che l’avversario di classe esprime a tutto campo, sia con le forme classiche che in termini inediti, anche con lo strumento delle leggi, basti pensare alle leggi sul diritto di sciopero, il pacchetto Treu, le Bassanini, le modalità della contrattazione (vedi l’ultimo contratto dei tessili). Tenendo conto che oggi i sistemi repressivi presentando forti caratteristiche d’azione preventiva del conflitto e che lo stesso bipolarismo fa parte della partita.

E’ questa, infatti, una fase in cui l’oppressione di classe è violenta mentre è inadeguata la reazione del soggetto sfruttato che stenta ad esprimersi in termini di lotta, di rappresentanza e aggregazione e che, se riesce ad incidere in settori come quello dei trasporti, immediatamente si provvede a predisporre ulteriori limitazioni del diritto di sciopero.

In termini generali andrebbero inoltre osservate le forme di repressione/oppressione proprie di questo passaggio in cui l’invisibilità del lavoro, volutamente opacizzato, contrasta chiaramente con l’aumento del lavoro salariato.

La smaterializzazione del lavoro, tanto sbandierata, è contraddetta dall’aumento della materialità dello sfruttamento del lavoro e dello stesso tempo di lavoro che si allunga e si intensifica nonostante la sua indotta invisibilità.

"La merce circola e costa poco ma è fabbricata con la carne umana". Questa carne umana, ormai invisibile e innominata, è ancora, certo sommata alle macchine e alla rivoluzione informatica che sfrutta la mente, importante per il Capitale; stranamente ormai poco utile, per un processo rivoluzionario, per molti compagni.

Da questa rottura operata sul fronte del lavoro sono nate le modificazioni in corso a livello politico, istituzionale.

E’ il frutto di una fase di forte trasformazione/evoluzione del capitale che ha accelerato la propria mobilità, la mobilità dei fattori di produzione e della stessa forza lavoro.

Ma proprio questa paralisi di nuova aggregazione del soggetto politico antagonista è, al contrario della fase fordista, la condizione per lo sviluppo del capitale. Sgominare il fronte del lavoro e disperderlo è imperativo per affrontare in termini competivi lo scontro intercapitalista in atto e quindi quella della nuova aggregazione è la posta in gioco, davvero difficile, per i comunisti oggi.

La repressione delle forme aggregative antagoniste sul fronte del lavoro, oltre che su quello della politica, non dipende quindi solo da insufficienze soggettive, che pure esistono, ma è il portato dei nuovi processi d’accumulazione e il cuore dell’azione aggressiva del capitale e dei propri supporti.

La posta in gioco è di impedire la riorganizzazione, in termini contemporanei, dei lavoratori salariati. Il capitale tenta insomma di reprimere il proprio "nemico naturale" a partire dai primi tentativi di nuova associazione.

Non valutando invincibile il capitalismo esistono ragioni per affermare che questo tentativo di nullificazione del conflitto alla lunga non potrà prevalere, ma oggi non si può certo affermare che si individui con facilità la via d’uscita.

Dovrebbe essere compito dei comunisti individuarla prima che la destra la chiuda per lungo tempo.

Il nodo duro, quello della ragion d’essere dello Stato come forma d’oppressione di una classe su un’altra, è bandito dagli argomenti della politica odierna, quanto la nozione del sovversivismo, in certe fasi, delle classi dirigenti che potrebbero confezionare un modello di Stato davvero inquietante.

Eppure, non è così lontano il tempo in cui era convinzione comune tra compagni che "Lo Stato ha un solo vero contenuto, non l’astratto egualitarismo e universalismo, bensì la società civile/borghese, e ha un solo compito, quello di garantirne il meccanismo di funzionamento e di sviluppo."

L’ingresso al Governo del P.D.S e la stessa partecipazione del P.R.C all’ambito governativo, confermato "dall’evento" delle 14 coalizioni nell’esecutivo dei governi regionali, sembrano aver fatto passare come acqua questo netto, inappellabile giudizio.

Ma anche per l’avversario, scomporre e ricomporre una forma statuale non è un passaggio meccanico e immediato, come si vede oggi riguardo alla questione del maggioritario, ma la tendenza, la direzione di marcia sono inequivocabili.