DALLE CRONACHE DI LUGLIO AL DIBATTITO SULL’IMMIGRAZIONE

Leonardo Mazzei

“Il capitalismo contemporaneo è incapace di offrire una prospettiva convincente all’umanità del prossimo millennio”. Così ci siamo espressi lo scorso anno nel documento “Una proposta ai comunisti”.

Questa affermazione, secca e perentoria, benché fondata su dati ed argomenti consistenti, sarà certo sembrata eccessiva a molti. Solo il tempo confermerà o meno la validità di un simile giudizio.

Tuttavia, alcune notizie di luglio, concentrate nello spazio di pochi giorni, ci riportano al senso di quella nostra affermazione.

Manila, 10 luglio 2000: alcune centinaia di abitanti di una bidonville vengono sepolti dal crollo della discarica che li sovrastava e li nutriva.

Secondo il giornalista Massimo Nava del Corriere della Sera: “La bidonville di Payatas, l’area della tragedia, non è nemmeno fra le peggiori. I bambini giocano con i topi, le donne cucinano nei rivoli di pioggia, gli uomini assemblano le baracche con tetti di lamiera e pareti di cartone tenute insieme da assi di legno e cellophane”.

Di bidonville come questa sono piene molte grandi città dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. A Korogocho, alla periferia di Nairobi, centomila persone vivono in un chilometro quadrato di rifiuti. In questo inferno 10 persone alla settimana muoiono di Aids. Ma la loro condizione è condivisa dal 60% degli abitanti della capitale del Kenya che, come a Korogocho, vive nelle baraccopoli.

E’ così a Città del Messico (forse la più grande città-discarica del mondo), al Cairo, a La Paz, nelle grandi città del Brasile e l’elenco potrebbe continuare.

Non è – questo è il punto – una realtà residuale, frutto di una condizione di sottosviluppo in via di superamento. E’, al contrario, un fenomeno in continua espansione che sembra degno di qualche fugace attenzione solo in occasione di fatti drammatici come quello di Manila.

Adeje (Nigeria), 11 luglio 2000: almeno 250 persone muoiono per lo scoppio di un oleodotto al quale cercavano di strappare, con secchi, taniche e bottiglie, alcune gocce di quell’oro nero che arricchisce le multinazionali e la casta dominante del loro paese.

Anche in questo caso non si è trattato di un episodio isolato. Due anni fa, a 40 chilometri da Adeje, 1000 morti; nel marzo scorso in un altro villaggio del delta del Niger ancora 50 vittime.

Ma le esplosioni degli oleodotti non sono altro che l’aspetto più visibile, pirotecnico, di una brutale lotta per la sopravvivenza in un paese dove il reddito pro-capite è di un dollaro al giorno e dove la ricchezza petrolifera è sfruttata da Shell, Chevron, Mobil, Elf, Texaco ed ENI.

E’ questa la situazione comune ai popoli di tanti paesi letteralmente depredati delle risorse della loro terra.

Durban, luglio 2000: alla dodicesima conferenza mondiale sull’Aids emergono dei dati impressionanti. Mentre il numero degli ammalati è ormai in diminuzione negli Usa ed in Europa, in alcune zone dell’Africa l’infezione minaccia di falcidiare un’intera generazione.

Questa malattia, terribile per tutti, per qualcuno lo è di più. In Sudafrica i contagiati sono 4 milioni, in Zimbabwe una persona su quattro è sieropositiva, in Zambia una su cinque, in Mozambico una su sette.

Su 34,5 milioni di persone contagiate 24,5 milioni vivono nell’Africa subsahariana, altri 5,5 milioni nell’Asia sudorientale. Ma naturalmente è proprio in queste realtà che il costo delle cure risulta insostenibile ai più.

Non a caso alla manifestazione che si è tenuta a Durban prima della conferenza i partecipanti hanno gridato slogan contro le multinazionali farmaceutiche.

Sempre a luglio è stato pubblicato il rapporto Unicef, paradossalmente intitolato “Il progresso delle Nazioni 2000”. Secondo questa insospettabile fonte 600 milioni di ragazzini vivono con meno di un dollaro al giorno; 250 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni sono costretti a lavorare; 30 milioni di bambini sono dati in pasto al giro della prostituzione nell’Asia sudorientale; un miliardo di persone vive senza acqua potabile, due miliardi e mezzo di persone senza i servizi igienici.

 

Ora qualcuno dirà che si tratta sì di dati drammatici, certamente veri, ma talmente risaputi da non costituire un elemento di novità nel panorama mondiale.

In realtà fatti e cifre parlano da soli. Forse la novità è relativa, ma la conferma del disastro prodotto dal capitalismo in interi continenti è clamorosa.

Quello che ora ci interessa sottolineare è che questi fatti e queste cifre ci rimandano a quello che è stato il principale tema di dibattito di questa estate in Italia: l’immigrazione. Se vogliamo, il collegamento tra le notizie di luglio e i flussi migratori è perfino banale. Dalle Filippine, il paese delle baraccopoli inghiottite dai rifiuti, arrivano in Italia le colf; dalla Nigeria, il paese degli oleodotti che esplodono, giungono le prostitute.

E’ evidente, in ogni caso, il legame tra le migrazioni e la crescente condizione di povertà in vaste aree del pianeta.

Il livello del dibattito sull’immigrazione è stato come al solito penoso. Ancora più penoso se posto in relazione alla drammaticità della condizione umana che il fenomeno migratorio evidenzia.

Ma al di là di questa valutazione, e dell’utilizzo strumentale di argomenti populistici a scopo elettorale, quello che conta è che il tema si è effettivamente imposto. E’ questo un segno della percezione dell’importanza del fenomeno nel quadro mondiale, del suo rilievo nella società italiana ed europea, del suo essere indicatore di un malessere profondo in grandi aree del mondo che solo gli inguaribili apologeti del capitalismo continuano a definire “in via di sviluppo”.

Naturalmente i protagonisti di questa discussione – politici con la pistola e la calcolatrice, politici con la croce e la calcolatrice, politici con la sola calcolatrice, “opinionisti” senza opinioni ossessionati dall’”audience”, industriali sempre solidali quando si tratta di sfruttare – non potevano che essere ben al di sotto della portata dei problemi.

Ne è dunque nato un dibattito quasi sempre distorto e spesso strumentale, ma che sarebbe errato sottovalutare proprio perché segnala la centralità della questione al di là delle distorsioni e delle strumentalizzazioni.

 

Prima di entrare nel merito è utile però un passo indietro per tornare alle “notizie di luglio”, notizie che in verità avevano avuto un prologo assai significativo alla fine di giugno con la morte per asfissia nel cassone di un camion frigorifero di 58 immigrati cinesi a Dover, in Inghilterra.

Intanto una domanda: di fronte al dramma della deriva di interi continenti verso una povertà crescente dove sono gli “umanitari”, gli instancabili sostenitori dei diritti umani specie se servono ad effettuare qualche nobile bombardamento?

Non hanno niente da dire, ad esempio, sulla minaccia dell’Aids nell’Africa subsahariana che – secondo la stessa Unicef – potrebbe essere fronteggiata adeguatamente con la modestissima cifra di 5000 miliardi di lire l’anno?

Da questi professionisti dei diritti umani non c’è evidentemente da attendersi niente, se non la costruzione di qualche trovata massmediatica (del tipo “partita del cuore”) da sfruttare a fini propagandistici.

Ma c’è un altro aspetto al quale è difficile sfuggire. Se guardiamo al quadro d’assieme, piuttosto che ad ogni singolo episodio, come non avvertire lo stridio tra un abisso sempre più incolmabile e le teorie trasversali sulla “globalizzazione”?

Se il mondo è sempre più “globalizzato”, come spiegare ad esempio l’abisso tra una medicina che si appresta all’ingegneria genetica per curare malattie oggi incurabili ed un’altra che non sa portare alcun conforto ai malati dell’Africa? Che cos’è, insomma, la globalizzazione?

Questo termine avrebbe ben poco senso se volesse limitarsi a descrivere una sorta di comando unico, un centro “super-imperialista” unificato. Il termine globalizzazione ha senso, per chi lo utilizza, solo in relazione ad una presunta tendenza all’omogeneizzazione del pianeta; una omogeneizzazione certo lenta (per alcuni da accelerare, per altri da contrastare) ma comunque in atto.

Ora, un simile processo per essere verificato dovrebbe essere in qualche modo percettibile, o comunque misurabile, quantomeno in termini di tendenza. E’ questo che emerge dalla realtà attuale?

Certo, gli abitanti di Manila, della Nigeria e dell’Africa australe sono raggiunti oggi da un’informazione, una cultura, uno spettacolo molto più simili di ieri all’informazione, alla cultura, allo spettacolo di americani ed europei, ma non sembra che questo abbia grande influenza sulle rispettive condizioni materiali.

Più che il “villaggio globale”, di moda dieci anni fa, quello che si è imposto è il pensiero unico del mercato, ma questo ci rimanda alla sconfitta del movimento operaio e del comunismo novecentesco piuttosto che all’affermazione delle nuove tecnologie “globalizzanti”.

Il termine globalizzazione risulta quindi ancora una volta sbagliato e fuorviante. Alla (relativa) omogeneizzazione culturale fa riscontro il crescente sfruttamento ad opera dei tre poli imperialistici fondamentali (Usa, Europa, Giappone). Continuare a parlare di globalizzazione, con una terminologia non casualmente neutra, significa contribuire – magari inconsapevolmente – all’occultamento di questa realtà.

 

Torniamo all’immigrazione, il tema che quest’anno ha riempito tante pagine di giornale. 

Come mai tanta attenzione? Eppure, dicono gli stessi dati del Ministero dell’interno, gli sbarchi di clandestini sono in diminuzione ed il numero complessivo di immigrati presenti in Italia sale molto lentamente.

La ragione sta forse nelle contraddizioni interne al blocco dominante, contraddizioni che hanno finora impedito l’assunzione di una linea univoca. Seguendo il semplice flusso delle informazioni è forse possibile individuare alcune di queste contraddizioni.

Secondo uno studio del Censis, pubblicato il 21 luglio, il 74,9% degli italiani (l’85% nel Nord Ovest) ritiene che la criminalità aumenti con la presenza degli immigrati. Benché la microcriminalità risulti in leggera diminuzione (il numero delle vittime è calato del 2,6% negli ultimi tre anni) l’80% degli italiani si dice convinto del contrario.

Da parte sua lo sceriffo Bianco si è premurato di far conoscere, con un apposito “Dossier Migrazioni”, il crescente peso della quota immigrata nelle attività della piccola e media criminalità.

Da questi dati si apprende, ad esempio, che la percentuale di stranieri denunciati per furti di automobili è passata dal 6% del 1988 al 23% del 1998; gli stranieri denunciati per traffico di stupefacenti sono passati dai 28.685 del 1988 ai 34.284 del 1999; quelli per sfruttamento della prostituzione sarebbero arrivati al 59% contro il 9% di dieci anni fa.

Prendendo per buoni questi numeri, e considerando che il numero complessivo dei denunciati è sostanzialmente stabile,  ne risulta un fortissimo calo delle attività di manovalanza della criminalità italiana, che evidentemente – al pari di molti padroni e padroncini – trova più redditizio utilizzare forza-lavoro immigrata a basso costo e maggiormente ricattabile.

Mischiando dati veri, del resto facilmente comprensibili guardando alla concreta condizione dei clandestini, con dati falsi tendenti all’accrescimento dell’allarme sociale, si arriva così all’effetto desiderato: la richiesta di ordine, del rispetto delle leggi, del pugno duro fuori e dentro le frontiere nazionali.

E’ questo il filone prevalente che va dal “democratico” Bianco al cattolico Casini che vuole sparare agli scafisti. Ma questa linea trova un primo ostacolo nella richiesta degli industriali che vogliono nuova carne umana a buon prezzo.

Da qui la richiesta al governo, ripresa dal ministro dell’industria Letta, di accrescere di 30.000 unità la quota inizialmente prevista per il 2000 in 63.000 ingressi.

Insomma: gli immigrati sono un problema, aumentano la criminalità, ma servono alle fabbriche e alle fabbrichette della quinta potenza industriale. Qualche contraddizione si intravede e non solo nel centrosinistra, ma anche nel centrodestra, tant’è che Letta può dichiarare: “Vadano (quelli del centrodestra) a spiegare la propria opposizione ai nuovi ingressi agli amministratori del Nord Est eletti con i voti del Polo e della Lega che, sollecitati dalle associazioni industriali, stanno premendo fortemente sul governo per la riapertura delle quote”.

E a proposito di quote è istruttivo andarsi a leggere il Decreto del Presidente del consiglio dei ministri dell’8 febbraio 2000. In esso si fa riferimento alla richiesta di “manodopera straniera per lo svolgimento di lavori a tempo determinato, specialmente stagionale” nei settori “turistico-alberghiero, agricolo, dell’edilizia e dei servizi”; ma anche a quella per “ricoprire posti di lavoro a tempo indeterminato nei settori siderurgico, meccanico e artigianale”.

Determinate le esigenze di lor signori e fissato un numero complessivo di 63.000, l’articolo 3 riserva una parte degli ingressi ai paesi “amici”, cioè maggiormente subalterni alla politica italiana nel Mediterraneo. E’ così riservata una quota particolare a “6.000 cittadini albanesi, 3.000 tunisini, 3.000 marocchini ed a 6.000 cittadini di altri paesi che sottoscrivano specifiche intese di cooperazione con l’Italia”.

Non solo ingressi controllati quantitativamente dunque, ma anche superselezionati per provenienza sulla base di criteri esclusivamente politici, è questa la linea del governo di centrosinistra.

Torniamo per un attimo ai dati, partendo da quelli pubblicati dall’Istat. Come noto il numero degli immigrati in Italia è particolarmente basso rispetto ai principali paesi dell’Unione Europea, essendo pari oggi al 2,2% della popolazione contro una media europea del 5% con punte del 9% in Germania e Belgio. Il ritmo di crescita è lentissimo: erano 1.240.000 al 1° gennaio ’98, 1.250.000 al 1° gennaio ’99, 1.270.000 al 1° gennaio 2000.

Questi dati vanno poi inquadrati nella situazione mondiale. Un documento della Commissione Europea, citando una stima della Banca Mondiale, valuta che “siano circa 100 milioni i migranti nel mondo e che di questi meno di un terzo viva in Europa o nell’America settentrionale, mentre la maggior parte si trova nei paesi del sud del mondo (35 milioni solo nell’Africa subsahariana)”.

Nonostante questi dati ridimensionino fortemente il fenomeno in termini quantitativi, l’Italia e l’Europa continuano a muoversi sulla linea del “sorvegliare e respingere”, segno di una profonda inquietudine oltre che di un calcolo politico cinico quanto squallido.

Intervenendo nel dibattito sulla futura forma istituzionale che dovrà assumere l’UE, Giuliano Amato si preoccupa di proporre intanto una cosa: una forza di polizia europea incaricata del controllo delle frontiere. E’ la stessa  proposta avanzata dallo sceriffo Bianco in un’intervista dell’11 agosto: “E’ giunto il momento di pensare all’utilizzo dell’Europol, cioè di una forza di polizia anche di altri paesi, nel controllo delle nostre frontiere che sono anche le frontiere dell’Europa”.

E’ la linea del pugno di ferro, alla quale si piegano gli umanitari a buon mercato, che trova alimento in una stampa largamente forcaiola che ormai arriva quasi a nascondere le vittime del quotidiano traffico di uomini. Esemplare il Corriere della Sera – un giornale pur non impegnato sul fronte populista-forcaiolo – che il 25 luglio, dopo aver riservato intere pagine alla morte di due finanzieri scontratisi con uno scafo albanese, dedica 10 righe alla morte di Julian, un bimbo albanese annegato lo stesso giorno nell’Adriatico e a quella di un non meglio specificato “straniero” rinvenuto ad Asti in un container proveniente dal Marocco.

 

Se sorvegliare e respingere è, nell’essenziale, la politica italiana (ed europea), evidente è l’incapacità di questa linea di offrire risposte di ampio respiro alle questioni poste dalle migrazioni.

Ci provano così alcuni intellettuali. E’ il caso di Galli Della Loggia che, prendendo le distanze dall’impostazione classica della destra populista, e riconoscendo la necessità di convivere in qualche misura con il fenomeno migratorio, arriva a proporre una concezione integralista ed assimilazionista che esprime probabilmente assai bene il pensiero della classe dominante.

Non accontentandosi di un semplice ragionamento, Galli Della Loggia propone addirittura al governo lo schema di una legge. Una legge che “preveda il rilascio della cittadinanza anche a chiunque non nato nella Penisola, tuttavia vi risieda da almeno qualche anno, alle seguenti condizioni: qualora 1) sia in possesso di permesso di soggiorno di qualunque durata; 2) non abbia riportato condanne penali; 3) sia in grado di provvedere al mantenimento proprio e della propria famiglia senza dover ricorrere a sussidi pubblici; 4) rinunci alla propria cittadinanza d’origine; 5) si riconosca nell’ordinamento liberaldemocratico della nostra Costituzione e dichiari di non appoggiare movimenti in genere contrari all’ordinamento liberale e democratico o che con la violenza o attività violenta abbia messo in pericolo gli organi costituzionali italiani o la politica estera italiana; 6) abbia un’adeguata conoscenza della lingua italiana.”

In sostanza Galli Della Loggia, considerando inevitabile il progressivo passaggio ad una società multietnica, si preoccupa di respingere categoricamente l’idea di una società multiculturale.

In termini come sempre più pragmatici, Giovanni Sartori torna sull’argomento con un editoriale ferragostano, chiarendo – se ce fosse bisogno – che “non è certo l’economia che ci chiede di trasformare il lavoratore-ospite nell’immigrato-cittadino”. Insomma, vengano come lavoratori, li sapremo ospitare in quanto si faranno sfruttare, ma poi…basta!

Lavoratori, ma non cittadini. Sartori, e con lui la classe dominante, pensa probabilmente qualcosa di più compiuto, che ancora non può scrivere: “lavoratori e dunque non-cittadini”.

E’ evidente il razzismo delle affermazioni di Sartori. Come è chiaro l’esito altrettanto razzista del ragionamento di Galli Della Loggia. Un razzismo magari meno rozzo di quello della destra populista, ma più efficace perché fondato sulla riaffermazione della superiorità culturale dell’Occidente, ai cui “valori”(vedi in particolare il punto 5 della sua proposta) occorre uniformarsi.

Per costoro, coerentemente, compromessi – specie se richiesti dal mercato delle braccia – se ne possono fare, ma non sull’adesione al pensiero unico. Alla politica del pugno di ferro si accompagna così un’ideologia reazionaria con la quale i comunisti dovranno imparare a fare i conti.

 

Prima di abbozzare alcuni ragionamenti di carattere generale sulla politica dei comunisti è utile evidenziare sinteticamente le contraddizioni in cui rimane avvolta la politica della classe dominante, alle quali cerca di rispondere assai organicamente Galli Della Loggia.

La prima contraddizione è quella tra la logica della “fortezza”, che abbiamo visto prevalente, e quella del profitto. Naturalmente al capitalismo non manca la capacità di mediare queste esigenze, ma risulterà sempre possibile controllare il razzismo che si è stimolato?

La seconda contraddizione riguarda il modo di sentirsi e di autorappresentarsi dell’Europa e dell’Occidente in genere. E’ la contraddizione – veramente insolubile – tra la veste “umanitaria” e la realtà inumana della sua politica di respingimento.

La terza (e decisiva) contraddizione sta nel voler limitare i flussi, nel mentre aumenta lo sfruttamento imperialista della maggioranza dei popoli che li alimentano.

La quarta (e fondamentale) contraddizione consiste nell’esaltazione della libera circolazione di merci e capitali mentre si nega la libera circolazione degli uomini.

Queste contraddizioni, non c’è bisogno di dirlo, non sono risolvibili nell’ambito capitalistico. Metterle in evidenza non basta, ma è il punto di partenza necessario.

 

Arriviamo qui al nodo che ci riguarda, quello della politica e dell’iniziativa dei comunisti.

E’ palese l’arretratezza che scontiamo in questa materia, come è palese il divario tra le forze disponibili e quelle necessarie per affrontare in modo minimamente adeguato queste questioni. Spetta tuttavia ai comunisti progettare e praticare una linea di unità di classe, basata su un internazionalismo che oggi deve cominciare all’interno delle proprie frontiere nazionali.

Spetta ai comunisti, non certo alla “sinistra”, una categoria anche in questo caso largamente insignificante. Del resto la sinistra modernizzante e tecnocratica nulla può aggiungere alle analisi degli uffici studi di Confindustria; quella “buonista” utilizza la solidarietà per coprire l’oppressione della propria politica; con quella “antagonista” va ricercata la massima unità, ma sapendo che tocca ai comunisti dire e proporre qualcosa di più.

E’ evidente che allo stato attuale non possiamo che limitarci ad un ragionamento di carattere generale.

In primo luogo abbiamo già visto che si deve  partire dalle contraddizioni prodotte dalla politica della classe dominante. In tal modo sarà possibile far emergere, se non altro, chi si batte per il futuro dell’umanità e chi no. Tutto ciò, naturalmente, può acquistare significato solo all’interno di un’attività tendente alla costruzione dell’unità di classe degli sfruttati.

In secondo luogo sarebbe necessario lavorare alla nascita di un movimento per l’affermazione del diritto universale alla libera circolazione degli uomini. Un diritto che cancelli la clandestinità, i traffici di carne umana, le “quote” confindustriali e governative.

Solo un movimento con queste caratteristiche potrebbe contribuire ad unificare un nuovo blocco sociale anticapitalista, dando al tempo stesso un contributo alla lotta immediata per il diritto alla cittadinanza, i permessi di soggiorno, l’assistenza sanitaria e contro tutte le forme di repressione (dai campi lager alle espulsioni).

Comprendere questa necessità è assai semplice, ben più difficile è praticare un simile obiettivo. D’altra parte oggi tutto è tremendamente difficile: ma perché non cominciare intanto a discuterne seriamente?

La costruzione di un movimento e di una campagna, necessariamente internazionale, che affermi il diritto inalienabile di ognuno a vivere e lavorare dove meglio crede è l’unica strada per dare un senso ed una prospettiva più ampia alle tante lotte locali che pure sono in corso.

Quel che si deve affermare non è il semplice diritto alla solidarietà, bensì quello alla libertà.

Una battaglia di libertà oggi necessariamente condotta nell’ambito capitalistico, ma che proprio in quanto battaglia generale ed universale si pone immediatamente contro di esso in termini consapevoli.

Una battaglia potenzialmente destabilizzante: è questa la ragione delle preoccupazioni della classe dominante che oggi riesce invece a rovesciare la destabilizzazione prodotta dalle migrazioni sui lavoratori in termini di concorrenza al ribasso, proprio perché manca un progetto ed una politica alternativa che affronti la questione alla radice con una nuova visione di classe.

Una battaglia dunque che ha a che vedere non solo con i diritti umani (quelli veri), ma con la ricostruzione delle condizioni della lotta contro un sistema che (globalizzato o no) davvero non ha più niente da proporre al futuro dell’umanità.