DELL’ORGANIZZAZIONE. RIFLESSIONE SUGLI OBIETTIVI E SUI MEZZI PER LA LOTTA POLITICA DEI COMUNISTI

di Giovanni Bruno

 

Sono ormai trascorsi due anni dalla scissione della CCA e dall’obiettivo fallimento di un tentativo di riaggregazione dei comunisti rivoluzionari. Non voglio qui tracciare un bilancio, che richiederebbe spazi, tempi e confronti ben più ampi, ma indicare alcuni elementi di riflessione che non mi pare siano stati affrontati in modo organico, a partire dalla questione dell’organizzazione dei comunisti per il prossimo secolo.

La questione organizzativa è risultata centrale nel dibattito della CCA, poiché intorno a tale questione si sono definite due tendenze allora irriducibili rispetto all’analisi storica del ‘900 e soprattutto a quale modello politico organizzativo ci si possa e debba riferire per avviare credibili processi rivoluzionari.

Il confronto è diventato scontro attorno al modello confederativo, visto da una parte come la nuova forma organizzativa dei comunisti nell’epoca dell’imperialismo globalizzato, mentre l’altra intendeva la confederazione come fase transitoria e interlocutoria nel processo di riaggregazione dei comunisti in vista di ridefinire una linea strategica e omogenea e darsi la forma più strutturata di partito comunista.

Le due “frazioni” hanno sostenuto le proprie posizioni con argomenti che hanno definitivamente messo a nudo il nodo teorico di fondo, radicato in valutazioni storiche divergenti sul passato e sulle vicende del ‘900 in cui i comunisti hanno avuto un ruolo determinante.

Ricorderò, per chiarezza, che la mia posizione fu in contrasto con l’idea che la forma confederativa fosse l’approdo organizzativo dei comunisti per il futuro, posizione che è stata del MCC; non perché ritenga la confederazione un modello non utilizzabile dai comunisti, ma perché ritenni che comunque sia necessaria l’attivazione di processi di omogeneizzazione politica che permettano di superare i contrasti strategici tra chi milita nella stessa organizzazione, pur mantenendo aperto il dibattito, il confronto e anche lo scontro politico in un quadro di maggioranze e minoranze che consolidano l’organizzazione e le decisioni politiche.

Pur aderendo alla parte che aveva evidenziato l’esigenza di una maggiore centralizzazione e omogeneizzazione politica, non ho mai condiviso i tentativi di accelerare l’orientamento politico-organizzativo verso il partito comunista, passi che si sono poi rivelati affrettati e deleteri per la non chiarezza interna e che hanno provocato l’emergere di forze centrifughe che hanno rotto il quadro della CCA. Ciò che mi sembra si dovesse e si debba tuttora evitare sono la sloganistica ed i proclami, tantopiù quelli di autoproclamazione referenziale di costituzione del partito comunista, poiché le parole che spesso dovrebbero chiarire e determinare concetti possono in tanti casi diventare il paravento formale dietro cui si cela la difficoltà di analizzare la realtà con le sue trasformazioni e di sperimentare ed affinare nuove forma di organizzazione e di costruzione della decisione politica. Lo sforzo invece va fatto, ma va fatto nella direzione che ci eviti di cadere nelle trappole tese dalla ideologia dominante, chiamato oggi eufemisticamente pensiero unico.

Innanzitutto occorre affrontare una approfondita analisi della fase storica assieme ad una analisi della composizione di classe. L’organizzazione comunista del proletariato nelle sue nuove forme e per il suo nuovo profilo deve ben conoscere la classe sociale di riferimento nelle sue articolazioni per poter affrontare il problema della sua organizzazione. Ma è già qui che si annida una trappola: infatti le analisi sociologiche e di classe, affiancate dalle analisi delle trasformazioni del mondo del lavoro flessibilizzato e precarizzato, ci parlano di una classe dispersa e  frammentata, che ha perduto coscienza e consapevolezza politica; ciò non porta alle considerazione dell’ideologia capitalista che afferma che non esisterebbero più le classi stesse, ma conduce molti comunisti a proporre analisi in cui non si considera più la classe operaia produttrice come centrale nella contraddizione fondamentale tra capitale e lavoro, ma si pone l’accento su soggetti antagonisti come disoccupati, giovani, stranieri per la ricostruzione di un blocco sociale antagonista. Dunque, poiché il lavoro è precarizzato e flessibilizzato, disperso sul territorio, occorrerebbe un nuovo tipo di organizzazione sindacale e politica dislocata sul territorio, per dar conto della divisione sociale e politica dei soggetti antagonisti.

Credo che questo tipo di ragionamento sia piuttosto debole, e non mi sembra di potervi rintracciare un asse politico e culturale che permetta di determinare la riaggregazione sociale, sindacale e politica del proletariato antagonista.

A mio avviso il cardine della questione non è il tentare di intervenire sugli effetti della ristrutturazione capitalistica, cioè sulla disgregazione in atto accettandola ed assumendola come dato a tal punto da costruirvi addirittura sopra l’organizzazione; piuttosto vanno aggredite le cause, e l’organizzazione dei comunisti che si propongono l’obiettivo della trasformazione rivoluzionaria della società deve essere adeguata alla struttura del nemico di classe.

La cosiddetta globalizzazione non si caratterizza infatti solamente per la disgregazione e frammentazione del proletariato, che ripeto mi pare un effetto della ristrutturazione, ma soprattutto per i processi di concentrazione del capitale e di centralizzazione degli istituti economico-finanziari che determinano le politiche di repressione e di ipersfruttamento a livello planetario da parte delle multinazionali. La borghesia non ha destrutturato la propria azione politica, ma l’ha ancor più centralizzata ed omogeneizzata negli organismi internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale; ciò che ha volatilizzato sono i meccanismi di comunicazione e di comando, quelli sì resi più efficaci da una dislocazione virtuale in rete delle informazioni e degli scambi economico-finanziari.

I comunisti dunque, più che dotarsi di strumenti privi di incidenza reale, devono porsi il problema di come incidere nuovamente su questi meccanismi, attraverso un’organizzazione che non presti il fianco ad una ulteriore disgregazione politico-ideologica.

A tale proposito, non mi convincono le reti o i coordinamenti come strumenti di riaggregazione, poiché invece di affrontare direttamente tali problemi si avvitano su se stessi in reciproche autolimitazioni. Non credo che siano produttive per la riaggregazione e per la ricostruzione di percorsi rivoluzionari versioni rosse della strategia lillipuziana contro la globalizzazione; ciò può essere utile per il confronto e l’allargamento del dibattito politico, non per costruire strategie e organizzazioni.

Senza cadere nella sloganistica, ritengo che sia oggi necessario avviare una strategia di carattere neo-leninista, in cui l’organizzazione dei comunisti diventi l’approdo storico di processi di lotta, mobilitazione, selezione di quadri politici militanti, battaglia ideologica delle idee contro l’ideologia dominante; l’omogeneizzazione politica è una necessità da cui non si può prescindere per un efficace ed attuale intervento politico anticapitalistico e per la costruzione di processi storici di trasformazione in senso socialista e comunista della società.