Avv.
Giuseppe Pelazza
Se
tutto quanto il diritto, nella sua genesi e nella sua concreta applicazione, è
direttamente interessato dalla dinamica dei rapporti di forza tra le classi, i
settori del diritto del lavoro e del diritto penale sono quelli che manifestano
tale diretta influenza in modo più evidente; tali settori (lavoro e penale)
sono, inoltre, a loro volta strettamente interconnessi. Quanto maggiori,
infatti, sono le tutele sul piano del diritto del lavoro, e – più in generale –
sul piano dei diritti sociali, tanto minore è l’esigenza repressiva dello
Stato, che, invece, aumenta decisamente quando tali diritti vengono ridotti o
addirittura smantellati.
E
questa considerazione trova precisi riscontri sul piano della storia recente.
Se
guardiamo, infatti, al periodo della fine degli anni sessanta/inizi settanta,
notiamo come nella legislazione del lavoro si sviluppano – sull’onda di forti
lotte operaie – quegli elementi di tutela che, negli anni precedenti, avevano
iniziato ad essere introdotti. Del 1960 era stata la legge (n. 1369) che,
seppur con molti limiti, aveva cercato di ridurre il fenomeno dell’appalto di
pure e semplici prestazioni di lavoro; nel 1962 era stato stabilito il
principio (legge n. 230) che il contratto di lavoro deve essere sempre
considerato a tempo indeterminato (salvo le eccezioni tassativamente previste);
nel 1966 (dopo l’accordo interconfederale dell’anno precedente) si forma,
quindi, una prima, generale, normativa sui licenziamenti (legge n.604) che
prevede, nel caso di licenziamento illegittimo, l’obbligo dell’imprenditore di
riassumere o di pagare una penale. Infine (dopo ’68 e autunno caldo del ’69),
viene approvato il c.d. Statuto dei lavoratori (legge n. 300), con il quale lo
Stato deve fornire riconoscimento alla forza espressa dal movimento operaio e –
nel contempo – cerca di regolare e normalizzare le potenzialità di conflitto
emerse negli anni precedenti: al centro, comunque, dello Statuto sta il diritto
alla effettiva stabilità del posto di lavoro, nel senso che, quando sia
riconosciuto dal giudice che un licenziamento è stato intimato senza giusta
causa o giustificato motivo, il padrone è obbligato, oltre che a risarcire il
danno, anche a reintegrare il lavoratore nel suo posto di lavoro.
Bene:
a fronte di questo aumento di tutele, ed anche a fronte del riconoscimento
della forza operaia (che trova, tuttavia, anche delle risposte “sotterranee” da
parte del sistema di potere: le stragi), si verifica un mutamento di segno pure
nella produzione normativa penalistica. Possiamo, ad esempio, citare la c.d.
legge Valpreda, ricordando come alla fine degli anni ‘60/primi ’70, ci fosse il
divieto di concessione della libertà provvisoria per chi era imputato di gravi
reati, e come, a seguito del grande movimento di massa per liberare Valpreda e
denunciare le responsabilità dello Stato nella strage di piazza Fontana, venne
approvata, nel 1972, una legge, detta, appunto, “Valpreda”, per consentire,
anche in questi casi in cui prima era vietata, la concessione della libertà
provvisoria. Inoltre, proprio nel dicembre 1969 (in concomitanza, quindi, con
l’uccisione di Pinelli nella Questura di Milano) era entrata in vigore, e
sembra tristemente paradossale, la legge che non consentiva più
l’interrogatorio del fermato da parte della polizia.
D’altra
parte il vento di quegli anni ebbe degli effetti peculiari anche sulla
corporazione magistratura (e quindi sul momento applicativo del diritto), che
divenne essa stessa settore di intervento e di azione per gruppi di magistrati
che si collocavano, per così dire, all'interno dell'ottica anticapitalista: in
una relazione, ad esempio, del presidente di Magistratura Democratica (convegno
di Torino del 3 e 4 marzo 1972) si poteva leggere, a proposito del “ruolo del
giudice democratico”, “ ….. non più apparato di copertura per disegni
autoritari alla ricerca di marchi di legalità, ma strumento per smascherare
ogni tentativo del genere; non più corpo separato, ma legato alle masse
popolari per la verifica costante dell’indipendenza dal potere costituito, che
è l’unica indipendenza che conta; non più neutralità, che in concreto è scelta
di campo in favore dei potenti, giacchè essere neutrali fra un contendente
forte e uno debole significa operare una scelta in favore del primo, ma scelta
di campo antagonista in favore della classe subalterna …..” (in Quale Giustizia
n. 15-16, pag. 366).
Intorno
alla metà degli anni ’70, però ha inizio una complessiva azione
“normalizzatrice” da parte dello Stato e delle forze padronali, con la
connivenza-complicità di Pci e organizzazioni sindacali. Sul piano del diritto
del lavoro si assiste, così allo sviluppo della legislazione sulla Cassa
Integrazione, la cui applicazione consente un massiccio finanziamento alla produttività
a scapito dei diritti e degli interessi dei lavoratori, uno spostamento,
inoltre, dell’attenzione sociale della problematica legata ai diritti ad una
pretesa “emergenza” economica collettiva, tendente a vanificare ogni discorso
garantista, e, altresì, la possibilità , per i padroni, di liberarsi –
ponendoli in CIG – di lavoratori sgraditi, o perché particolarmente
politicizzati, o perché malati o scarsamente produttivi. Si sviluppa, poi, la
campagna padronale, non contrastata né dalle organizzazioni sindacali né dal
complesso della magistratura del lavoro (in gran parte, a sua volta,
“normalizzata” ad opera del PCI), contro il c.d. assenteismo, che implica lo
snaturamento dell’art. 2110 c.c.; si introducono (Accordo Interconfederale
26.1.77) le fasce orarie di reperibilità veri e propri arresti domiciliari) per
i lavoratori ammalati; si reintroduce, in via giurisprudenziale (sentenza
12.4.76 n.1268 della Cassazione) la prescrizione quinquennale del diritto alle
quote di retribuzione non corrisposte (nel senso che dopo 5 anni il diritto a
richiedere voci retributive non pagate viene cancellato); cambia l’orientamento
dei giudici a proposito della necessità di ragguagliare le mensilità aggiuntive
(13a, 14a,
ferie) alla retribuzione mensile totale.
Ma
non si può, ora, seguire analiticamente il percorso, che così inizia, di
completa dissoluzione del tessuto normativo e giurisprudenziale di tutela di
fondamentali diritti dei lavoratori che, passando dall’introduzione dei
contratti di formazione allo sviluppo dei contratti a termine e part time,
dalla modifica della liquidazione, alla sterilizzazione, blocco e soppressione
della contingenza, arriva fino all’oggi del pacchetto Treu, con il lavoro in
affitto, e dell’esplodere della generale precarizzazione dei rapporti di lavoro
(collaborazioni autonome, consulenze, collaborazioni coordinate e continuative
ecc.). Interessa invece, notare come questa svolta “normalizzatrice” abbia
luogo anche nel diritto penale. E, se è vero che nella seconda metà degli anni
70 si sono sviluppate diversificate forme di lotta armata, questa svolta
“normalizzatrice” ha avuto inizio prima di questo sviluppo.
Dal
1974, infatti è la legge sulle armi (cd legge Bartolomei) che introduce elevati
aumenti di pena; del 1975 è la legge (1a
nr. 110) che equipara le bottiglie incendiarie alle armi da guerra, prevedendo,
inoltre, delle ipotesi di reato basate sul “tipo di autore”, cioè legate alla
identità politica di chi commette il reato, per cui chi detiene anche una sola
bottiglia molotov ma “al fine di sovvertire l’ordinamento dello Stato” è punito
con il carcere da cinque a quindici anni. Sempre del 1975 è la legge Reale, che
estende, fra l’altro, il cosiddetto “uso legittimo delle armi” da parte della
polizia anche al fine di impedire la commissione di gravi delitti, opzione
evidentemente larghissima, cosicchè da quel periodo comincia la nuova epidemia
di uccisioni ai posti di blocco, in operazioni di polizia e in manifestazioni
(possiamo ricordare le uccisioni di Giannino Zibecchi, Rodolfo Boschi, Anna
Maria Mantini, Pietro Bruno, Mario Salvi, Francesco Lo Russo, Giorgiana Masi e
molti altri).
Negli
anni successivi, così come nel diritto del lavoro la nozione di “emergenza
economica” costituisce la base per smantellare le garanzie, nel diritto penale
la c.d. “emergenza terrorismo” porta a rompere la legalità consolidata ed
ordinaria: l’aspetto formale dell’ordinamento giuridico è drasticamente
relativizzato.
Quello
che conta non è più il valore normativo del quadro di riferimento all’interno
del quale deve essere collocato il conflitto, ma è, invece, il livello di
conflitto ed il livello dell’emergenza (spacciata come tale dai gestori del
potere) che subordine a se stesso il quadro di legalità. Così il Decreto Legge
del 30 aprile 1977 prevede la possibilità di sospendere la decorrenza dei
termini di durata della carcerazione preventiva, il D.L. 21.3.1978 n. 59
prevede che l’imputato espulso due volte non può essere presente al processo e
reintroduce, altresì, l’interrogatorio del fermato senza difensore.
Ma
è con il c.d. decreto Cossiga (15.12.1979 “Misure urgenti per la tutela
dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica”) che ha inizio il completo
snaturamento dei caratteri consolidati del processo penale: con esso, infatti,
vengono introdotti elementi di premialità (riduzione delle pene per chi
collabora) ed esaltati i meccanismi del cd “tipo di autore” (aumento della metà
delle pene per tutti i reati commessi per finalità di eversione): tutto questo
sarà poi sviluppato dalla legge sui pentiti del maggio 1982 e sulla
dissociazione del febbraio 1987.
Con
questa serie di innovazioni, il processo, inteso come dibattimento, è tutto
centrato sull’esigenza di spettacolarizzare il momento applicativo della pena a
quei soggetti che sono stati individuati dall’accusa (attraverso le parole dei
pentiti) come rappresentativi di uno schieramento antagonista agli interessi
dello Stato. Il dibattimento, cioè, è il luogo in cui vengono fatti i conti con
le identità politiche degli individui che sono stati coinvolti
nell’istruttoria: chi intende anche soltanto interessarsi alla sorte degli
imputati è a sua volta criminalizzato. Nelle aule-bunker, infatti, si può
entrare solo previe perquisizioni e schedature, ed è poi normale ritrovare il
fatto di essere stato presente fra il pubblico di un certo processo come
elemento indiziante per una imputazione di banda armata o associazione
sovversiva.
Queste
imputazioni, sono, infatti, il centro delle inchieste della fine degli anni
settanta/inizi anni 80, che portano in carcere, e quindi a processo, migliaia
di persone. E tutte queste inchieste sono state caratterizzate dalla volontà di
catalogare le identità degli imputati: collaboratori, dissociati, irriducibili
(anche chi nega gli addebiti). A tale catalogazione, inizialmente effettuata da
polizia e pubblici ministeri, seguiva un diverso destino carcerario: per i c.
d. irriducibili, infatti, era stato creato, al di fuori di ogni previsione di
legge, il circuito delle carceri speciali (colloqui con i vetri, ore d’aria
ridotte, niente socialità, limitazioni e controlli sulla corrispondenza, fino
alla deprivazione sensoriale e al completo isolamento dei cd braccetti della
morte), mentre i “collaboratori” rimanevano assai a lungo nelle caserme, e,
prima di essere definitivamente liberati, transitavano (peraltro per brevi
periodi) in carceri ove era loro applicato un ben diverso trattamento.
Partendo
da queste basi, anche nel dibattimento trionfava l’aspetto del controllo della
capacità dell’imputato di riallinearsi ai valori dominanti, ed il collegio
giudicante mirava allo scopo preminente di esercitare una pressione
politico-giudiziaria, attraverso la minaccia di pene differenziate, contro
l’imputato perché prendesse atto dei suoi errori, e ribadisse una volta di più che
lui, l’imputato, aveva torto, e ragione aveva lo Stato.
Con
questa impostazione, ovviamente, il problema della prova non aveva più alcuna
rilevanza nel processo, ridotto a formale e spettacolare suggello delle
operazioni di polizia e delle susseguenti istruttorie. Poteva, così, capitare,
che i giudici ritenessero particolarmente attendibili anche le dichiarazioni di
soggetti psichiatricamente deliranti (che, ad esempio, nella loro sofferenza,
oltre ad accusare altri, si ritenevano anche dotati di poteri straordinari, in
grado di provocare guerre o terremoti). E se scopo delle indagini e dei
processi era ottenere adeguate parole e dichiarazioni da parte degli imputati,
diventava plausibile (perché analogo è il meccanismo di violenza che connota
l’alternativa tra premio e inasprimento della pena e la tortura in senso
tecnico) che le forze di polizia praticassero tali vere e proprie forme di
tortura, a base di scariche elettriche sui genitali, costrizione ad ingurgitare
grandi quantità di acqua e sale, finte esecuzioni capitali, per andare poi
esenti da pena per prescrizione, dopo aver ottenuto, nella sentenza di primo
grado, l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale e
sociale (processo ai Nocs responsabili delle torture di Padova nel gennaio
1982).
Peraltro,
scardinato in nome dell’emergenza ogni civile principio, in quegli anni poteva
anche accadere che, per tentare di infiltrare suoi confidenti in organizzazioni
armate, la polizia li fornisse di armi ed esplosivo per preparare attentati
(cfr istruttoria nei confronti di alcuni funzionari della Questura di Pavia).
Ma
ora cessiamo dell’anedottica, e cerchiamo di riprendere il discorso sui
caratteri, e gli esiti, delle modifiche istituzionali introdotte in quegli
anni.
Innanzitutto
va sottolineato che questo spostamento del processo sul piano del controllo
dell'identità dei soggetti non è affatto stato superato, e questo conferma il
convincimento che le cosiddette emergenze sono state una pura e semplice
copertura per un disegno di rimodellamento del sistema che seguiva un suo
preciso ed autonomo progetto. Quindi la parola d’ordine, che molti fanno
propria, del superamento dell’emergenza è in realtà inane, poiché le logiche
che sottostavano alle modifiche di cui si è parlato erano (e sono) strutturalmente
essenziali per i bisogni di comando e di controllo dello Stato.
Ritornando
per un attimo ai meccanismi processuali penali, non si può, ad esempio (oltre a
ricordare la generalizzazione dell’istituto del pentito), non considerare che
il nuovo codice di procedura penale rappresenta un modello di processo che può
vivere solo sviluppando al massimo i cosiddetti riti alternativi, come il
patteggiamento, nel quale lo schema del controllo dell’identità del soggetto è
in massima evidenza: basti pensare che è l’imputato medesimo che chiede di
essere condannato a quella pena che egli stesso ritiene giusta. E questo vuole
essere il nuovo centro del processo di routine che, fra l’altro, per quanto
riguarda le garanzie, ha visto legittimare le cosiddette dichiarazioni
spontanee dell’imputato, e tutti sanno quanto spontanee siano in balia dei
poliziotti ed in assenza del difensore.
Così,
la “elasticità” e instabilità del rapporto di lavoro è una linea di tendenza,
per il potere, irreversibile, ed è di area DS il disegno di legge, al di fuori
dei clamori e delle ipocrisie referendarie, che di fatto vuole vanificare
l’art. 18 dello Statuto sulla reintegrazione nel posto di lavoro.
E,
va anche detto, tutto questo si colloca in un quadro di ancor più profondo mutamento
del complessivo sistema costituzionale. Mutamento, questo, che è stato attuato
con clamorose rotture della legalità da parte dei governi che si sono succeduti
negli anni 90: basti pensare alla guerra del Golfo ed alla aggressione alla
Repubblica Federale Yugoslava, veri e propri “Golpe” (violazione del
fondamentalissimo principio dell’art. 11 della Costituzione) che hanno
proiettato, per ora al di fuori dei confini, una enorme e spaventosa quantità
di violenza. A fianco di queste guerre, peraltro, si pone il nuovo modello di
difesa, calibrato non più sulla difesa del territorio nazionale, bensì sulla
tutela degli interessi economici occidentali dovunque, nel mondo, vengano posti
in discussione.
Il
travolgimento della Costituzione, d’altra parte, lo si è attuato, quanto ai
principi di uguaglianza e libertà, con la legislazione sull’immigrazione e, in
specifico, su respingimenti, espulsioni e campi di vera e propria detenzione
amministrativa. E questo imbarbarimento delle leggi non ha potuto che portare
all’imbarbarimento delle prassi: speronamenti e affondamenti delle imbarcazioni
dei migranti. Né può dimenticarsi la violenza che induce nella società
l’abitudine alla guerra e l’aggressività istituzionale verso chi, sfruttato
dall’Occidente da secoli, vorrebbe ora usufruire, quantomeno, della stessa
libertà di cui godono le merci.
In
questa complessa situazione è difficile fornire indicazioni, né, d’altra parte,
chi scrive è in grado di rispondere a tale compito: certo è, comunque, che
parallelamente alla distruzione dello Stato Sociale, allo snaturamento della
Costituzione, alla barbarie della guerra, il disagio sociale cresce e gli
apparati dello Stato, con il proliferare di inchieste (e comunque di
attenzioni) su chi non si allinea, dimostrano di temerne le conseguenze.
Milano,
26.05.2000