All’interno della discussione dei comunisti sul tema dello Stato – tema che abbiamo messo al centro del convegno nazionale del 20-21 maggio – riteniamo particolarmente importante l’analisi del diritto nei suoi vari aspetti. E’ questa, infatti, una delle tante questioni “dimenticate”, di cui è necessario rimpossessarsi per ricostruire e comprendere il quadro complessivo delle trasformazioni che hanno portato alla costruzione della Seconda Repubblica. L’articolo di Giuseppe Pelazza, ricostruendo sinteticamente 30 anni di stravolgimento del diritto, individua le basi giuridiche su cui si fondano le attuali politiche repressive.

 

Diritto del lavoro e diritto penale nella democrazia autoritaria

Avv. Giuseppe Pelazza

 

Se tutto quanto il diritto, nella sua genesi e nella sua concreta applicazione, è direttamente interessato dalla dinamica dei rapporti di forza tra le classi, i settori del diritto del lavoro e del diritto penale sono quelli che manifestano tale diretta influenza in modo più evidente; tali settori (lavoro e penale) sono, inoltre, a loro volta strettamente interconnessi. Quanto maggiori, infatti, sono le tutele sul piano del diritto del lavoro, e – più in generale – sul piano dei diritti sociali, tanto minore è l’esigenza repressiva dello Stato, che, invece, aumenta decisamente quando tali diritti vengono ridotti o addirittura smantellati.

E questa considerazione trova precisi riscontri sul piano della storia recente.

Se guardiamo, infatti, al periodo della fine degli anni sessanta/inizi settanta, notiamo come nella legislazione del lavoro si sviluppano – sull’onda di forti lotte operaie – quegli elementi di tutela che, negli anni precedenti, avevano iniziato ad essere introdotti. Del 1960 era stata la legge (n. 1369) che, seppur con molti limiti, aveva cercato di ridurre il fenomeno dell’appalto di pure e semplici prestazioni di lavoro; nel 1962 era stato stabilito il principio (legge n. 230) che il contratto di lavoro deve essere sempre considerato a tempo indeterminato (salvo le eccezioni tassativamente previste); nel 1966 (dopo l’accordo interconfederale dell’anno precedente) si forma, quindi, una prima, generale, normativa sui licenziamenti (legge n.604) che prevede, nel caso di licenziamento illegittimo, l’obbligo dell’imprenditore di riassumere o di pagare una penale. Infine (dopo ’68 e autunno caldo del ’69), viene approvato il c.d. Statuto dei lavoratori (legge n. 300), con il quale lo Stato deve fornire riconoscimento alla forza espressa dal movimento operaio e – nel contempo – cerca di regolare e normalizzare le potenzialità di conflitto emerse negli anni precedenti: al centro, comunque, dello Statuto sta il diritto alla effettiva stabilità del posto di lavoro, nel senso che, quando sia riconosciuto dal giudice che un licenziamento è stato intimato senza giusta causa o giustificato motivo, il padrone è obbligato, oltre che a risarcire il danno, anche a reintegrare il lavoratore nel suo posto di lavoro.

Bene: a fronte di questo aumento di tutele, ed anche a fronte del riconoscimento della forza operaia (che trova, tuttavia, anche delle risposte “sotterranee” da parte del sistema di potere: le stragi), si verifica un mutamento di segno pure nella produzione normativa penalistica. Possiamo, ad esempio, citare la c.d. legge Valpreda, ricordando come alla fine degli anni ‘60/primi ’70, ci fosse il divieto di concessione della libertà provvisoria per chi era imputato di gravi reati, e come, a seguito del grande movimento di massa per liberare Valpreda e denunciare le responsabilità dello Stato nella strage di piazza Fontana, venne approvata, nel 1972, una legge, detta, appunto, “Valpreda”, per consentire, anche in questi casi in cui prima era vietata, la concessione della libertà provvisoria. Inoltre, proprio nel dicembre 1969 (in concomitanza, quindi, con l’uccisione di Pinelli nella Questura di Milano) era entrata in vigore, e sembra tristemente paradossale, la legge che non consentiva più l’interrogatorio del fermato da parte della polizia.

D’altra parte il vento di quegli anni ebbe degli effetti peculiari anche sulla corporazione magistratura (e quindi sul momento applicativo del diritto), che divenne essa stessa settore di intervento e di azione per gruppi di magistrati che si collocavano, per così dire, all'interno dell'ottica anticapitalista: in una relazione, ad esempio, del presidente di Magistratura Democratica (convegno di Torino del 3 e 4 marzo 1972) si poteva leggere, a proposito del “ruolo del giudice democratico”, “ ….. non più apparato di copertura per disegni autoritari alla ricerca di marchi di legalità, ma strumento per smascherare ogni tentativo del genere; non più corpo separato, ma legato alle masse popolari per la verifica costante dell’indipendenza dal potere costituito, che è l’unica indipendenza che conta; non più neutralità, che in concreto è scelta di campo in favore dei potenti, giacchè essere neutrali fra un contendente forte e uno debole significa operare una scelta in favore del primo, ma scelta di campo antagonista in favore della classe subalterna …..” (in Quale Giustizia n. 15-16, pag. 366).

Intorno alla metà degli anni ’70, però ha inizio una complessiva azione “normalizzatrice” da parte dello Stato e delle forze padronali, con la connivenza-complicità di Pci e organizzazioni sindacali. Sul piano del diritto del lavoro si assiste, così allo sviluppo della legislazione sulla Cassa Integrazione, la cui applicazione consente un massiccio finanziamento alla produttività a scapito dei diritti e degli interessi dei lavoratori, uno spostamento, inoltre, dell’attenzione sociale della problematica legata ai diritti ad una pretesa “emergenza” economica collettiva, tendente a vanificare ogni discorso garantista, e, altresì, la possibilità , per i padroni, di liberarsi – ponendoli in CIG – di lavoratori sgraditi, o perché particolarmente politicizzati, o perché malati o scarsamente produttivi. Si sviluppa, poi, la campagna padronale, non contrastata né dalle organizzazioni sindacali né dal complesso della magistratura del lavoro (in gran parte, a sua volta, “normalizzata” ad opera del PCI), contro il c.d. assenteismo, che implica lo snaturamento dell’art. 2110 c.c.; si introducono (Accordo Interconfederale 26.1.77) le fasce orarie di reperibilità veri e propri arresti domiciliari) per i lavoratori ammalati; si reintroduce, in via giurisprudenziale (sentenza 12.4.76 n.1268 della Cassazione) la prescrizione quinquennale del diritto alle quote di retribuzione non corrisposte (nel senso che dopo 5 anni il diritto a richiedere voci retributive non pagate viene cancellato); cambia l’orientamento dei giudici a proposito della necessità di ragguagliare le mensilità aggiuntive (13a, 14a, ferie) alla retribuzione mensile totale.

Ma non si può, ora, seguire analiticamente il percorso, che così inizia, di completa dissoluzione del tessuto normativo e giurisprudenziale di tutela di fondamentali diritti dei lavoratori che, passando dall’introduzione dei contratti di formazione allo sviluppo dei contratti a termine e part time, dalla modifica della liquidazione, alla sterilizzazione, blocco e soppressione della contingenza, arriva fino all’oggi del pacchetto Treu, con il lavoro in affitto, e dell’esplodere della generale precarizzazione dei rapporti di lavoro (collaborazioni autonome, consulenze, collaborazioni coordinate e continuative ecc.). Interessa invece, notare come questa svolta “normalizzatrice” abbia luogo anche nel diritto penale. E, se è vero che nella seconda metà degli anni 70 si sono sviluppate diversificate forme di lotta armata, questa svolta “normalizzatrice” ha avuto inizio prima di questo sviluppo.

Dal 1974, infatti è la legge sulle armi (cd legge Bartolomei) che introduce elevati aumenti di pena; del 1975 è la legge (1a nr. 110) che equipara le bottiglie incendiarie alle armi da guerra, prevedendo, inoltre, delle ipotesi di reato basate sul “tipo di autore”, cioè legate alla identità politica di chi commette il reato, per cui chi detiene anche una sola bottiglia molotov ma “al fine di sovvertire l’ordinamento dello Stato” è punito con il carcere da cinque a quindici anni. Sempre del 1975 è la legge Reale, che estende, fra l’altro, il cosiddetto “uso legittimo delle armi” da parte della polizia anche al fine di impedire la commissione di gravi delitti, opzione evidentemente larghissima, cosicchè da quel periodo comincia la nuova epidemia di uccisioni ai posti di blocco, in operazioni di polizia e in manifestazioni (possiamo ricordare le uccisioni di Giannino Zibecchi, Rodolfo Boschi, Anna Maria Mantini, Pietro Bruno, Mario Salvi, Francesco Lo Russo, Giorgiana Masi e molti altri).

Negli anni successivi, così come nel diritto del lavoro la nozione di “emergenza economica” costituisce la base per smantellare le garanzie, nel diritto penale la c.d. “emergenza terrorismo” porta a rompere la legalità consolidata ed ordinaria: l’aspetto formale dell’ordinamento giuridico è drasticamente relativizzato.

Quello che conta non è più il valore normativo del quadro di riferimento all’interno del quale deve essere collocato il conflitto, ma è, invece, il livello di conflitto ed il livello dell’emergenza (spacciata come tale dai gestori del potere) che subordine a se stesso il quadro di legalità. Così il Decreto Legge del 30 aprile 1977 prevede la possibilità di sospendere la decorrenza dei termini di durata della carcerazione preventiva, il D.L. 21.3.1978 n. 59 prevede che l’imputato espulso due volte non può essere presente al processo e reintroduce, altresì, l’interrogatorio del fermato senza difensore.

Ma è con il c.d. decreto Cossiga (15.12.1979 “Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica”) che ha inizio il completo snaturamento dei caratteri consolidati del processo penale: con esso, infatti, vengono introdotti elementi di premialità (riduzione delle pene per chi collabora) ed esaltati i meccanismi del cd “tipo di autore” (aumento della metà delle pene per tutti i reati commessi per finalità di eversione): tutto questo sarà poi sviluppato dalla legge sui pentiti del maggio 1982 e sulla dissociazione del febbraio 1987.

Con questa serie di innovazioni, il processo, inteso come dibattimento, è tutto centrato sull’esigenza di spettacolarizzare il momento applicativo della pena a quei soggetti che sono stati individuati dall’accusa (attraverso le parole dei pentiti) come rappresentativi di uno schieramento antagonista agli interessi dello Stato. Il dibattimento, cioè, è il luogo in cui vengono fatti i conti con le identità politiche degli individui che sono stati coinvolti nell’istruttoria: chi intende anche soltanto interessarsi alla sorte degli imputati è a sua volta criminalizzato. Nelle aule-bunker, infatti, si può entrare solo previe perquisizioni e schedature, ed è poi normale ritrovare il fatto di essere stato presente fra il pubblico di un certo processo come elemento indiziante per una imputazione di banda armata o associazione sovversiva.

Queste imputazioni, sono, infatti, il centro delle inchieste della fine degli anni settanta/inizi anni 80, che portano in carcere, e quindi a processo, migliaia di persone. E tutte queste inchieste sono state caratterizzate dalla volontà di catalogare le identità degli imputati: collaboratori, dissociati, irriducibili (anche chi nega gli addebiti). A tale catalogazione, inizialmente effettuata da polizia e pubblici ministeri, seguiva un diverso destino carcerario: per i c. d. irriducibili, infatti, era stato creato, al di fuori di ogni previsione di legge, il circuito delle carceri speciali (colloqui con i vetri, ore d’aria ridotte, niente socialità, limitazioni e controlli sulla corrispondenza, fino alla deprivazione sensoriale e al completo isolamento dei cd braccetti della morte), mentre i “collaboratori” rimanevano assai a lungo nelle caserme, e, prima di essere definitivamente liberati, transitavano (peraltro per brevi periodi) in carceri ove era loro applicato un ben diverso trattamento.

Partendo da queste basi, anche nel dibattimento trionfava l’aspetto del controllo della capacità dell’imputato di riallinearsi ai valori dominanti, ed il collegio giudicante mirava allo scopo preminente di esercitare una pressione politico-giudiziaria, attraverso la minaccia di pene differenziate, contro l’imputato perché prendesse atto dei suoi errori, e ribadisse una volta di più che lui, l’imputato, aveva torto, e ragione aveva lo Stato.

Con questa impostazione, ovviamente, il problema della prova non aveva più alcuna rilevanza nel processo, ridotto a formale e spettacolare suggello delle operazioni di polizia e delle susseguenti istruttorie. Poteva, così, capitare, che i giudici ritenessero particolarmente attendibili anche le dichiarazioni di soggetti psichiatricamente deliranti (che, ad esempio, nella loro sofferenza, oltre ad accusare altri, si ritenevano anche dotati di poteri straordinari, in grado di provocare guerre o terremoti). E se scopo delle indagini e dei processi era ottenere adeguate parole e dichiarazioni da parte degli imputati, diventava plausibile (perché analogo è il meccanismo di violenza che connota l’alternativa tra premio e inasprimento della pena e la tortura in senso tecnico) che le forze di polizia praticassero tali vere e proprie forme di tortura, a base di scariche elettriche sui genitali, costrizione ad ingurgitare grandi quantità di acqua e sale, finte esecuzioni capitali, per andare poi esenti da pena per prescrizione, dopo aver ottenuto, nella sentenza di primo grado, l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale (processo ai Nocs responsabili delle torture di Padova nel gennaio 1982).

Peraltro, scardinato in nome dell’emergenza ogni civile principio, in quegli anni poteva anche accadere che, per tentare di infiltrare suoi confidenti in organizzazioni armate, la polizia li fornisse di armi ed esplosivo per preparare attentati (cfr istruttoria nei confronti di alcuni funzionari della Questura di Pavia).

Ma ora cessiamo dell’anedottica, e cerchiamo di riprendere il discorso sui caratteri, e gli esiti, delle modifiche istituzionali introdotte in quegli anni.

Innanzitutto va sottolineato che questo spostamento del processo sul piano del controllo dell'identità dei soggetti non è affatto stato superato, e questo conferma il convincimento che le cosiddette emergenze sono state una pura e semplice copertura per un disegno di rimodellamento del sistema che seguiva un suo preciso ed autonomo progetto. Quindi la parola d’ordine, che molti fanno propria, del superamento dell’emergenza è in realtà inane, poiché le logiche che sottostavano alle modifiche di cui si è parlato erano (e sono) strutturalmente essenziali per i bisogni di comando e di controllo dello Stato.

Ritornando per un attimo ai meccanismi processuali penali, non si può, ad esempio (oltre a ricordare la generalizzazione dell’istituto del pentito), non considerare che il nuovo codice di procedura penale rappresenta un modello di processo che può vivere solo sviluppando al massimo i cosiddetti riti alternativi, come il patteggiamento, nel quale lo schema del controllo dell’identità del soggetto è in massima evidenza: basti pensare che è l’imputato medesimo che chiede di essere condannato a quella pena che egli stesso ritiene giusta. E questo vuole essere il nuovo centro del processo di routine che, fra l’altro, per quanto riguarda le garanzie, ha visto legittimare le cosiddette dichiarazioni spontanee dell’imputato, e tutti sanno quanto spontanee siano in balia dei poliziotti ed in assenza del difensore.

Così, la “elasticità” e instabilità del rapporto di lavoro è una linea di tendenza, per il potere, irreversibile, ed è di area DS il disegno di legge, al di fuori dei clamori e delle ipocrisie referendarie, che di fatto vuole vanificare l’art. 18 dello Statuto sulla reintegrazione nel posto di lavoro.

E, va anche detto, tutto questo si colloca in un quadro di ancor più profondo mutamento del complessivo sistema costituzionale. Mutamento, questo, che è stato attuato con clamorose rotture della legalità da parte dei governi che si sono succeduti negli anni 90: basti pensare alla guerra del Golfo ed alla aggressione alla Repubblica Federale Yugoslava, veri e propri “Golpe” (violazione del fondamentalissimo principio dell’art. 11 della Costituzione) che hanno proiettato, per ora al di fuori dei confini, una enorme e spaventosa quantità di violenza. A fianco di queste guerre, peraltro, si pone il nuovo modello di difesa, calibrato non più sulla difesa del territorio nazionale, bensì sulla tutela degli interessi economici occidentali dovunque, nel mondo, vengano posti in discussione.

Il travolgimento della Costituzione, d’altra parte, lo si è attuato, quanto ai principi di uguaglianza e libertà, con la legislazione sull’immigrazione e, in specifico, su respingimenti, espulsioni e campi di vera e propria detenzione amministrativa. E questo imbarbarimento delle leggi non ha potuto che portare all’imbarbarimento delle prassi: speronamenti e affondamenti delle imbarcazioni dei migranti. Né può dimenticarsi la violenza che induce nella società l’abitudine alla guerra e l’aggressività istituzionale verso chi, sfruttato dall’Occidente da secoli, vorrebbe ora usufruire, quantomeno, della stessa libertà di cui godono le merci.

In questa complessa situazione è difficile fornire indicazioni, né, d’altra parte, chi scrive è in grado di rispondere a tale compito: certo è, comunque, che parallelamente alla distruzione dello Stato Sociale, allo snaturamento della Costituzione, alla barbarie della guerra, il disagio sociale cresce e gli apparati dello Stato, con il proliferare di inchieste (e comunque di attenzioni) su chi non si allinea, dimostrano di temerne le conseguenze.

 

Milano, 26.05.2000