Una proposta ai comunisti

IL CAPITALISMO REALE

I bagliori dell’aggressione della NATO alla Jugoslavia hanno dato luce ai contorni dell’imperialismo di fine secolo.

Un imperialismo che, attraverso l’esercizio del puro dominio, cerca inutilmente di occultare l’incapacità del capitalismo contemporaneo di offrire una prospettiva convincente all’umanità del prossimo millennio.

Anzi, l’unica prospettiva che appare davvero certa è quella dell’incremento dello sfruttamento e dell’oppressione in un quadro segnato dall’affermarsi della tendenza alla guerra come tendenza generale del sistema.

La crisi iniziata negli anni ’70, con il dimezzamento dei tassi di crescita rispetto al primo venticinquennio postbellico, non trova infatti soluzione, producendo anzi un’abnorme rigonfiamento finanziario destinato a generare nuovi e più gravi squilibri.

Questa finanziarizzazione dell’economia non è la versione cattiva del capitalismo in contrasto con la versione "buona" legata alla produzione di beni e servizi, ma è lo sviluppo naturale del capitalismo, è in definitiva il "capitalismo reale" con il quale dobbiamo misurarci.

E’ in questo contesto regressivo che il keynesismo militare si ripropone come risposta capitalistica alla crisi. Una risposta vecchia che si avvale però di strumenti nuovi, a partire da un’alleanza militare come la NATO alla quale è assegnato un ruolo globale come strumento di dominio planetario con il duplice compito di combattere i nemici esterni, mediando nel contempo i conflitti interni.

Questo ruolo della NATO non corrisponde però al concetto di "Nuovo ordine mondiale". A prevalere è piuttosto il disordine, frutto dello scontro interimperialista interno all’onda lunga di ristagno da cui le classi dominanti cercano di uscire per ora senza successo.

I nuovi compiti della NATO esprimono il tentativo di gestire questo disordine, riducendolo all’interno dei "comuni interessi occidentali" e scaricandolo brutalmente all’esterno.

Così come non si intravvede davvero un "Nuovo ordine mondiale", non è pensabile neppure un nuovo "secolo americano" inteso come semplice e pacifica proiezione dell’attuale strapotere militare. La stessa guerra nei Balcani mentre mostrava la forza dell’imperialismo statunitense ne evidenziava anche i limiti.

Nell’attuale dopoguerra l’Europa è passata dal ruolo di apparente comprimaria a quello di effettiva protagonista. Le contraddizioni tra i 3 poli imperialistici fondamentali (USA, UE, Giappone) tendono oggi a concentrarsi tra i primi 2 ed anche la guerra alla Jugoslavia è stata il frutto della particolare "attenzione" riservata dagli USA all’Europa, specie dopo la nascita dell’euro.

Con l’ingresso nell’era della moneta unica si è chiusa la fase della costruzione europea affidata ai banchieri. E’ ora il momento della costruzione politica e militare, che richiederà tempo e lavoro per centralizzare sempre più poteri e risorse da sottrarre ai singoli stati nazionali.

La partecipazione senza riserve all’aggressione alla Federazione jugoslava va perciò letta non come il segno di una presunta debolezza europea, bensì come la scelta "obbligata" dal rango di potenza economica raggiunto e dal suo costituirsi in potenza politica.

La piena costruzione del polo imperialista europeo non è priva di ostacoli né di contraddizioni interne (basti pensare ad esempio al ruolo della Gran Bretagna). Tuttavia la concorrenza intercapitalistica spinge con forza i gruppi dominanti del continente alla piena realizzazione dell’UE in tutti i suoi aspetti, come unico modo per poter competere con Stati Uniti e Giappone.

La riaffermazione dell’egemonia militare, il sempre più frequente "mostrare i muscoli", è la principale risposta data dagli USA alla costruzione europea. Lo strumento militare è un mezzo che incide profondamente sui caratteri di questo scontro, ma che certo non lo stabilizza, né tantomeno lo estingue.

L’IMPERIALISMO ITALIANO

Le classi dominanti italiane, lo Stato italiano cercano di adeguarsi sempre più a questo livello dello scontro, come è emerso in maniera inconfutabile nella guerra contro la Jugoslavia.

Da questa guerra l’imperialismo italiano, come realtà autonoma e come parte del Polo europeo, è uscito bene. L’Italia si è vista riconoscere, per la prima volta nel dopoguerra, uno status di potenza regionale. Nella corsa alla ricostruzione l’Italia è in prima fila, così come in quella all’accaparramento delle imprese in corso di privatizzazione.

E, quel che più conta, il fronte interno ha tenuto bene: maggioranza e opposizione di destra unite a difesa del supremo interesse nazionale, il sindacato confederale impegnato al massimo nell’opera di sostegno così come il mondo della cultura e dell’informazione, il volontariato utilizzato in funzione di copertura con la "missione arcobaleno".

Il grido di vittoria di D’Alema sull’Italia divenuta un "grande paese", esplicita senza infingimenti il ruolo imperialista raggiunto dal nostro paese. Un ruolo chiaramente di seconda fascia, ma caratterizzato da una forte iniziativa verso tutta l’area balcanica, il Medio oriente e il bacino del Mediterraneo, le repubbliche ex sovietiche dalla Russia all’Asia centrale.

Questo salto di qualità è passato attraverso la ristrutturazione del sistema politico, da Tangentopoli al maggioritario, con la costruzione di un bipolarismo tanto anomalo nella sua variegata composizione, quanto efficace nella sua effettualità.

Risanamento economico, emblematizzato dal raggiungimento dei parametri di Maastricht; controllo sociale nella forma corporativa della concertazione garantita da CGIL-CISL-UIL; controriforma istituzionale da completare nella forma, già funzionante nella sostanza; riorganizzazione delle forze armate con il "nuovo modello di difesa" e con l’obiettivo dell’esercito professionale da raggiungere entro i prossimi 5 anni.

Sono stati questi i tasselli fondamentali del mosaico costruito dalle oligarchie finanziarie dominanti attraverso le politiche dei governi Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi e D’Alema.

E’ questo il quadro della Seconda Repubblica, un quadro dove i due poli di centrodestra e di centrosinistra battibeccano nel teatrino della politica per decidere sistematicamente insieme sulle questioni fondamentali: dalla politica economica, alle privatizzazioni; dall’elezione del presidente della repubblica alla guerra.

Le vicende di questi ultimi anni dimostrano come la semplificazione degli schieramenti politici in 2 poli altro non è che il mezzo più efficace per ottenere la riduzione ad una politica, quella dettata dal pensiero unico del mercato.

Tutto ciò ha le caratteristiche di un regime.

IL REGIME AUTORITARIO DELLA SECONDA REPUBBLICA

Regime non vuol dire fascismo e nemmeno deve far pensare al vecchio regime democristiano.

Il regime della Seconda Repubblica è qualcosa di profondamente diverso dall’uno e dall’altro. Intanto è un regime che ingloba entrambi i poli ed emargina ogni opposizione istituzionale. In secondo luogo esso si fonda su un’ideologia pervasiva – quella del mercato – che tutto riesce a permeare proprio in quanto esterna e superiore ad entrambi gli schieramenti.

Ne risulta una forma di democrazia autoritaria capace di far convivere il massimo della frammentazione partitica con il minimo di pluralismo politico e culturale.

Nella Seconda Repubblica è ammesso il dissenso, non l’opposizione.

La controriforma delle istituzioni non è ancora finita, ma il bipolarismo è ormai operante a tutti gli effetti e con il bipolarismo la politica intesa come scelta tra opzioni diverse tende a spegnersi nel buio omologante della governabilità capitalistica.

Una governabilità che lascia al teatrino massmediologico il compito di selezionare gli attori di volta in volta più convenienti, ma che non ammette deroghe ai propri imperativi di fondo. E’ questa l’essenza del regime autoritario della Seconda Repubblica, un regime che potrà cambiare il guidatore, non la rotta.

Nel regime bipolare o si sta in uno dei due poli o si è destinati alla marginalità.

Ovvio che i comunisti non possono accettare né l’una, né l’altra condizione. Anche da qui la necessità di un’autonomia strategica e culturale fondata sull’opposizione di sistema al capitalismo ed alle forme istituzionali tipiche di questa fase storica.

Non esiste lotta al bipolarismo se non ci si colloca intanto con chiarezza fuori di esso. Questa considerazione sarebbe banale se non contenesse il nodo fondamentale dell’attuale crisi del Prc.

Questa crisi, resa manifesta dal tracollo elettorale alle europee, viene da lontano.

Si tratta della crisi di una linea politica sempre in bilico tra opposizione radicale al governo e ricerca continua di accordi con le forze che il governo sostengono. Questa ambiguità non poteva reggere a lungo, né il rigonfiamento massmediologico poteva surrogare l’assenza di un strategia.

Certo è che il bipolarismo alla lunga non ammette troppe ambiguità, non solo perché fondato proprio sull’adesione ad uno dei due schieramenti, ma perché parte di un sistema istituzionale che cancella nei fatti la forma tradizionale della rappresentanza politica.

La triade partito di massa, sindacato tradizionale, rappresentanza istituzionale è infatti irrimediabilmente in crisi. Mentre la trasformazione del 2° elemento in tassello indispensabile del sistema concertativo è un dato ormai acquisito, il venir meno del 3° elemento con la controriforma istituzionale colpisce mortalmente alla radice ogni possibilità di vita effettiva del 1°.

Il rapportarsi dei comunisti alle istituzioni, fermo restando l’obiettivo rivoluzionario del loro abbattimento, non può non tener conto del loro modificarsi in relazione allo sviluppo delle forme produttive, dell’organizzazione del dominio di classe, delle forme concrete attraverso le quali si esercita l’egemonia della classe dominante sulla base dell’evolversi dei rapporti di forza tra le classi stesse.

La riflessione sui nuovi caratteri delle istituzioni e sulla crisi della rappresentanza non riguarda solo il Prc, ma le prospettive dei comunisti oggi.

Anzi, se nel Prc il pendolo bertinottiano è già tornato ad oscillare verso la "sinistra di governo", confermando l’incapacità strutturale di questo partito di andare oltre lo schema bipolare, per i comunisti è proprio su questo punto che si dovrà misurare la capacità di risposta alle profonde trasformazioni prodotte dalla ristrutturazione capitalistica degli ultimi decenni.

Una ristrutturazione che dal mondo della produzione si è irraggiata all’insieme della società, modificandola in ogni suo aspetto per salvare l’essenziale: la riproduzione e l’estensione del dominio di classe, la riproduzione e l’estensione del lavoro salariato, fino all’affermazione del modo di produzione capitalistico come unica forma possibile delle relazioni sociali su scala planetaria.

COME REAGIRE?

La fine del compromesso sociale keynesiano che ha travolto le forme della mediazione politica a livello istituzionale richiede una risposta sulle questioni del blocco sociale, del sindacato di classe e dell’organizzazione comunista.

Una risposta da non eludere, che nessun documento senza un’adeguata pratica politica e sociale può risolvere. Di sicuro una risposta, o meglio un insieme di risposte, semplicemente introvabili se ricercate con le lenti di un’epoca ormai tramontata.

Compito dei comunisti non è quello di guardare nostalgicamente al tempo che fu, bensì quello di indagare le attuali contraddizioni, gli attuali processi di composizione e scomposizione, l’attuale strutturazione delle classi, gli attuali soggetti prodotti dall’odierna configurazione di classe.

La sproporzione tra questi compiti e le forze comuniste oggi esistenti è fin troppo evidente. Tocca tuttavia ai comunisti mantenere ben saldo l’obiettivo della lotta a fondo contro il capitalismo per la realizzazione di una società libera, senza sfruttati e senza sfruttatori.

Per poterlo fare credibilmente è necessario affrontare i problemi alla radice, impostando un lavoro ricostruttivo teso ad accumulare nuove forze intellettuali e di militanza.

Questo significa che al primo posto va collocato il lavoro di ricerca e di elaborazione teorica, cioè della ridefinizione di un’ipotesi comunista adeguata ai tempi odierni che parta dall’alto della concezione del materialismo storico e che sappia reindividuare, così come è stato nel ‘900, i punti di rottura rivoluzionaria dell’attuale assetto sociale.

Questo è indubbiamente il compito più difficile e chiara è la coscienza della inadeguatezza delle nostre forze. Nondimeno come comunisti dobbiamo misurarci con questa necessità.

Anche l’esigenza di reindividuare un’adeguata tattica politica va messa al centro della riflessione a partire dalla lotta al regime bipolare.

L’abbandono di ogni logica del "meno peggio" di bertinottiana memoria è necessaria ma non ancora sufficiente. Ci vuole di più: occorre abbandonare completamente la dicotomia destra/sinistra che oggi – a differenza che nel passato - discende da una strutturazione del mercato politico organizzata dall’alto dalle oligarchie finanziarie che controllano il sistema informativo e culturale.

Questo elemento di chiarezza dei comunisti deve però fare i conti con un disorientamento ed una ancora inadeguata maturazione politica che pesa in ampi settori del movimento dei lavoratori e di massa.

La dicotomia destra/sinistra, se riproposta oggi, diventa una trappola in ultima istanza indistinguibile dalla falsa alternativa del bipolarismo, termine anch’esso ingannevole che utilizziamo solo per comodità di esposizione delle modalità di funzionamento del regime. Ne consegue che oggi non si tratta di "ricostruire la sinistra" – questa c’è già ed ha il volto di D’Alema – bensì di ricostruire progetto comunista e la soggettività del blocco sociale anticapitalista.

I comunisti, anche nel linguaggio, scelgono così la strada della chiarezza. L’alternativa non è tra destra e sinistra, né tantomeno tra il governo attuale ed uno "alternativo"; la scelta di fondo che attiene al destino stesso dell’umanità e che può riattivizzare forze e settori sociali oggi in "letargo" è quella tra capitalismo e suo rovesciamento, in definitiva tra capitalismo e comunismo.

RICOSTRUIRE GLI STRUMENTI DEL CONFLITTO DI CLASSE

E’ facile comprendere che un tentativo di rilancio su base puramente ideologica sarebbe destinato al fallimento. E’ perciò centrale il tema della ricostruzione degli strumenti del conflitto.

Senza conflitto di classe non solo non si da "domanda" di comunismo. Senza conflitto di classe si è condannati al conflitto nella classe sia a livello nazionale (tra occupati e disoccupati, tra "garantiti" e non, nord e sud, giovani e anziani ecc.), sia a livello internazionale con il subalterno accodarsi agli interessi imperialisti portatori di guerra ed oppressione.

Il conflitto di classe non si rilancia proclamandolo. Molti sono i motivi che determinano l’attuale letargia dei soggetti sociali. Pesa ancora la sconfitta subita negli ultimi decenni e l’arretramento culturale che ne è derivato, la ricostruzione di un’egemonia ideologica della borghesia ed in particolare delle sue oligarchie finanziarie, emblematizzata dal quotidiano rito religioso delle quotazioni borsistiche.

Ma pesa in misura non irrilevante l’assenza di un qualsiasi strumento di organizzazione del conflitto. E’ questo il punto di partenza – non facile, ma possibile – di un progetto di riorganizzazione del blocco sociale antagonista.

Il nodo del sindacato di classe deve dunque essere affrontato come punto decisivo.

Mentre i sindacati istituzionali non solo sono inutilizzabili, ma devono essere combattuti come nemici in quanto parte essenziale del patto corporativo; quelli extraconfederali e di base segnano un momento di difficoltà superabile solo con un salto di qualità verso una maggiore unità per avviare il percorso verso l’organizzazione del sindacato di classe della maggioranza dei lavoratori.

La ricostruzione del sindacato di classe è infatti la condizione imprescindibile per ogni ragionamento credibile sulla riaggregazione del blocco sociale.

I comunisti sostengono perciò in maniera convinta tutte le esperienze e tutti i percorsi concreti tendenti a questa ricostruzione in un’ottica unitaria, consapevoli delle attuali diversità quanto delle pressanti esigenze imposte dal vuoto lasciato libero dal sindacalismo di regime.

Solo iniziando a dare una qualche solidità al progetto del nuovo sindacato di classe si porrà su basi più concrete la stessa costruzione di strumenti organizzati per la riaggregazione delle tante figure del lavoro flessibile, del precariato, del non lavoro.

La necessaria riorganizzazione di questi spezzoni della classe non potrà che avvenire attorno ad una rinnovata capacità di riapertura del conflitto basata su programmi fortemente unificanti.

Gli obiettivi di fase, difensivi e tattici, sono importanti. Sono anzi la condizione per un’iniziativa politica non meramente propagandistica. Ma il loro perseguimento risulterebbe velleitario e non credibile senza avere iniziato la costruzione dei nuovi strumenti del conflitto di classe.

Il programma di fase non può che partire dalla materialità dei bisogni, rimettendo al centro la questione del salario in tutti i suoi aspetti, la riapertura di una vertenza generale per la riduzione dell’orario di lavoro, la battaglia per una modifica complessiva del sistema fiscale, l’iniziativa contro l’ulteriore smantellamento della scuola, della sanità e della previdenza pubblica, il reddito ai disoccupati; cioè in definitiva la necessità della redistribuzione sociale della ricchezza prodotta e degli enormi profitti del capitale industriale e finanziario.

Il problema di fondo è però quello di indicare delle priorità, dei punti di attacco capaci di fare leva sulle contraddizioni principali e di ridare credibilità complessiva ad un programma di classe e ad un progetto comunista.

Il fatto è che non vi sono in questo momento esperienze concrete da assumere come punti di riferimento generale.

Oggi c’è solo l’iniziativa dell’avversario di classe, fin nei suoi aspetti più reazionari e rivoltanti come i referendum antisociali promossi dai radicali. Contro questi referendum i comunisti ritengono necessaria un’iniziativa immediata di tutte le realtà del sindacalismo di base e dell’area antagonista, puntando ad una forte mobilitazione capace di denunciarne il carattere antiproletario, antidemocratico e liberticida in quanto portatori di tutte le libertà per i padroni ottenute azzerando tutti i diritti conquistati dai lavoratori.

Nel costruire collettivamente una piattaforma di iniziativa politica e sociale i comunisti devono lavorare per mettere in comunicazione le singole lotte e per uscire dalla gabbia dell’economicismo a partire da temi unificanti, come ad esempio quelli della sanità e dell’ambiente.

Ogni iniziativa su questi terreni deve mirare, al di là dei singoli obiettivi, allo scopo fondamentale della ricostruzione-ricomposizione del blocco sociale antagonista.

Oggi più di ieri la soggettività antagonista non esce come prodotto "naturale" delle contraddizioni del modo di produzione capitalista. Ai pesanti elementi di disgregazione oggettiva, frutto della ristrutturazione capitalista dell’ultimo quarto di secolo si è sommata la crisi della soggettività comunista in tutte le sue varianti.

Si è così disgregata la coscienza di classe acquisita nella fase precedente, riportando alla subordinazione ideologica i lavoratori dei paesi capitalistici avanzati ed ancor più i popoli della periferia degli "imperi".

L’identità della classe operaia e del fronte antimperialista si è trasformata nella non-identità e nelle centomila identità.

L’attuale riemergere delle contraddizioni di fondo della società capitalistica – dalla crescente polarizzazione di classe su scala planetaria al dominio delle oligarchie finanziarie; dal riproporsi dello scontro interimperialista alla guerra guerreggiata – crea le condizioni per la ricostruzione di una nuova identità antagonista.

Le forme della riaggregazione e della riattivizzazione del blocco sociale non sono però ancora chiare e definite. Manca infatti una pratica capace di verificare le diverse ipotesi in campo.

I comunisti sostengono ogni sforzo tendente alla ricostruzione di una pratica e di un’identità anticapitalista.

In questa direzione la forma associativa e quella consiliare possono procedere parallelamente, ricercando un rapporto sinergico ed una costante verifica nella pratica sociale.

In ogni caso i comunisti lavorano per la definizione di una nuova coscienza di classe, per il passaggio dal dissenso all’opposizione, operando anche all’interno dei movimenti di massa sociali e politici e lavorando per orientarli verso una rottura strategica con l’attuale sistema capitalistico.

Il blocco sociale antagonista non ha più la possibilità di avvalersi della forma tradizionale della rappresentanza. La riorganizzazione autoritaria delle istituzioni mina infatti alla base ogni ipotesi di questo tipo.

In questa prospettiva si pone la necessità di un confronto serrato sulla questione delle istituzioni reso ancora più urgente dalla evidente crisi di rappresentanza che mostra il blocco potenzialmente antagonista e che si manifesta anche attraverso un diffuso astensionismo elettorale.

UNA PROPOSTA AGGREGATIVA PER I COMUNISTI

Quadro imperialista e di regime, riemergere delle contraddizioni di fondo del sistema, ricostruzione dell’identità e dell’organizzazione del blocco sociale antagonista, riapertura di un percorso che porti ad un nuovo sindacato di classe: sono questi i temi che stanno di fronte ai comunisti oggi e che impongono la ricerca e lo sviluppo di un nuovo processo aggregativo tra le realtà comuniste che vogliono misurarsi su questi terreni.

Abbiamo preso atto della sproporzione tra i compiti e le forze, ma proprio questa sproporzione rende indispensabile l’avvio di un processo aggregativo, certo ancora inadeguato ma capace di indicare una via d’uscita alla falsa alternativa tra le formazioni istituzionali (Prc e Pdci) e le tante piccole organizzazioni residuali tenute insieme dall’ideologia, ma incapaci di misurarsi con i problemi politici e teorici dell’oggi.

Poiché nessuno di questi 2 "poli" – pur variegati al loro interno – è oggi attrattivo, la risultante di questa falsa alternativa finirebbe con l’essere la dispersione nel disimpegno.

La proposta che avanziamo è ancora limitata, dovendo tener conto delle difficoltà oggettive e soggettive e della necessità di evitare strette organizzativistiche non rispondenti alle caratteristiche della fase attuale.

L’assenza di movimenti anticapitalistici significativi, la crisi della militanza comunista, rendono oggi improponibile ogni ipotesi di organizzazione nazionale.

La proposta non è dunque questa, bensì quella di costruire un coordinamento tra le realtà comuniste disponibili, come primo passo verso lo sviluppo di nuove e più avanzate forme organizzative di tipo confederativo.

La crisi dei "partiti di massa", sempre meno partiti e sempre meno di massa, come quella dei gruppi di "avanguardia" sempre più residuali, conferma infatti l’impraticabilità di queste formule per chi vuole porsi l’obiettivo della rinascita di un soggetto comunista inteso come lo strumento fondamentale della lotta al sistema e del suo rovesciamento.

Con la proposta di un coordinamento non si vuole semplicemente istituzionalizzare una pratica di consultazione ed interscambio in parte già in atto.

Il coordinamento che proponiamo vuole essere qualcosa di più sia per l’obiettivo che si pone sia per le sue modalità di funzionamento.

Poiché l’obiettivo è quello di essere il punto di partenza di un processo ben più ampio, il funzionamento non può rimanere indefinito e senza regole. Per questi motivi avanziamo anche una proposta organizzativa.

 

 

 

LA PROPOSTA ORGANIZZATIVA (ipotesi di regolamento)

  1. Le realtà comuniste organizzate in forma associativa, di movimento, riviste ecc. a,b,c…..decidono di dotarsi di un coordinamento nazionale al fine di:

  1. Sviluppare iniziative volte alla ricostruzione di un pensiero e di una pratica comunista in Italia.
  2. Intraprendere iniziative coerenti con il presente documento.
  3. Coordinare l’attività comune delle entità aderenti.
  4. Lavorare allo sviluppo di un’ipotesi e di una pratica confederativa dei comunisti.
  5. Dotarsi di uno strumento di dibattito del coordinamento nazionale.

  1. Tutte le decisioni del coordinamento nazionale vengono assunte all’unanimità.
  2. Le strutture aderenti al coordinamento mantengono le proprie regole e i propri rapporti organizzativi.
  3. Il coordinamento nazionale è formato in maniera paritetica nel numero di…. compagni per ogni realtà aderente.
  4. Il coordinamento nazionale può all’occorrenza assegnare compiti operativi specifici a singoli compagni.
  5. Il coordinamento nazionale decide le forme di autofinanziamento della propria attività, alle quali sono comunque chiamate a concorrere tutte le strutture aderenti.
  6. Il coordinamento nazionale convoca almeno 3 volte l’anno l’assemblea del quadro attivo dei militanti delle strutture aderenti come sede del dibattito e del confronto politico unitario. L’assemblea può essere convocata anche su richiesta di almeno una struttura aderente al coordinamento.
  7. I documenti, le prese di posizione e tutto il materiale del coordinamento viene firmato: "Coordinamento nazionale tra (seguono le firme dei soggetti aderenti).
  8. Le presenti regole organizzative verranno sottoposte a verifica entro il prossimo anno.

 

UN PROGRAMMA DI LAVORO COMUNE

Definita una base politica di massima alla quale fare riferimento ed una relazione minimamente organizzata, si tratta di individuare un programma di lavoro che sappia mettere in evidenza le analisi, sviluppare il confronto ed anche i punti di divergenza sapendo trovare le strade di risoluzione delle divergenze eventualmente emerse.

Questo non è un compito facile, anzi è proprio su questo scoglio che si può infrangere un metodo ed un comportamento ancora inadeguatamente maturo dei comunisti.

In questo senso riteniamo necessario individuare due livelli di lavoro:

  1. IL PIANO TEORICO
  2. L’imperialismo del XXI secolo, la questione del partito, quella dello Stato, dell’internazionalismo, delle nazionalità, dello sviluppo delle forze produttive, del blocco sociale anticapitalista e della trasformazione sociale, assieme ad altre questioni cruciali per la riaffermazione del ruolo dei comunisti, sono elementi che vanno affrontati con un lavoro organizzato di confronto e di elaborazione teorica di lunga lena data la condizione pratica e politica in cui questo lavoro si deve sviluppare.

  3. IL PIANO POLITICO E SOCIALE

Anche qui c’è la necessita del confronto e dell’approfondimento, con la coscienza che un processo pratico a questi livelli sconta oggi inevitabilmente diverse basi politiche e materiali di partenza dei compagni e delle strutture che, in qualche modo, si rifletteranno su posizioni e scelte politiche immediate.

Partire da questo dato, che oggettivamente può dividere, e lavorare nel tempo per superarlo non può essere altro che il segno di una ritrovata capacità di sapere affrontare politicamente e praticamente la situazione attuale.

APRIRE IL CONFRONTO

La proposta qui sommariamente descritta è una base di partenza per il confronto tra tutte quelle forze e strutture comuniste che, coscienti delle difficoltà attuali, si pongono comunque nella prospettiva della ricomposizione ed in questo senso intendono dare un chiaro segnale.

 

 

Movimento per la Confederazione dei Comunisti

Rete dei Comunisti

 

 

Novembre 1999