DUE ESIGENZE, DUE PROPOSTE

 

I profitti volano, grazie soprattutto alle regalie del fisco. I salari calano nella rassegnazione diffusa dei lavoratori.

Secondo uno studio di Mediobanca, relativo a 1828 società con oltre 500 dipendenti, gli utili netti sono passati da 7,6 miliardi di euro del ’97, agli 11,7 miliardi del ’98, ai 20,6 (circa 40.000 miliardi di lire) del ’99 con un aumento del 78% in un anno.

Un aumento dovuto principalmente ai guadagni borsistici, favoriti anche dall’irrisoria tassazione delle plusvalenze, a conferma comunque del peso sempre maggiore delle attività finanziarie.

Questi dati, pur così emblematici delle tendenze attuali, non hanno suscitato particolari commenti, tantomeno da un mondo politico tutto preso dal lavorio di posizionamento in vista delle elezioni del 2001.

Se da quel mondo non giungono segnali particolari sui fatti fondamentali dell’economia – segno dell’avvenuta aziendalizzazione della società – la stessa cosa non si può dire nella direzione opposta.

Non solo continua il pressing costante per ottenere più flessibilità, meno tasse (attraverso l’accaparramento del cosiddetto “bonus fiscale”), ancora meno Stato sociale: fin qui siamo nella normalità.

Ma oggi il capitalismo italiano sente di poter fare di più. E così, mentre da una parte Berlusconi
 – l’uomo più ricco d’Italia secondo Milano Finanza, con un patrimonio di 30.500 miliardi di lire solo in titoli azionari – rimane il favorito per le politiche della prossima primavera, c’è già chi pensa al dopo.

Roberto Colaninno, il “capitano coraggioso” di D’Alema, dopo aver acquistato a buon mercato (e contro la legge) Telemontecarlo, ricorda la sua amicizia con l’ex presidente del consiglio e perfino Guido Rossi arriva a parlare di “azienda-partito” dell’amministratore delegato della Telecom in concorrenza al partito-azienda del più noto proprietario di Mediaset.

Al di là delle estremizzazioni e delle esemplificazioni resta il fatto che si va affermando una sorta di “via italiana all’americanizzazione”. Un’americanizzazione inscritta nel DNA della Seconda Repubblica, figlia del maggioritario e dell’omologazione della sinistra, di cui è oggi possibile cogliere gli esiti fondamentali: spoliticizzazione diffusa, astensionismo elettorale, appiattimento culturale.

Quello che emerge dal “dibattito politico”, in proiezione 2001, è quel qualcosa in più che conferma una tendenza, pur colorandola oggi di tinte assai più grottesche di quanto fosse immaginabile solo poco tempo fa.

Il dibattito nel centrosinistra sulla cosiddetta “premiership” ne è un esempio da manuale. Probabilmente non appassiona nessuno oltre i diretti interessati, ma evidenzia in modo inequivocabile il livello – davvero americano – di personalizzazione della politica. Non a caso molti “leader” del centrosinistra – a differenza dei voti, i capi e i capetti non mancano di certo a questo schieramento – hanno proposto di rifarsi al modello comunicativo della recente convention democratica.

D’altra parte, dopo la completa omologazione dei programmi, che cosa può segnalare le residue (e insignificanti) differenze se non la scelta dei singoli candidati?

Al carnevale fuori stagione del dibattito sul candidato premier non manca ovviamente nessuno. Anche l’austero Cossutta, dopo aver proposto per scherzo il nome di Cofferati, torna così serio da far veramente sorridere quando dichiara che “Amato ha dimostrato di saper governare”. Perché Craxi, e andando all’indietro, De Gasperi o Mussolini non sapevano forse – a modo loro – governare?

Governare per fare che cosa? Dovrebbe essere la banale quanto dimenticata domanda. Ma evidentemente la legge suprema della governabilità capitalistica, lanciata da Craxi come l’unico metro di ogni politica, si è ormai affermata.

A questo dibattito sui nomi si dice indifferente Bertinotti che però prepara da tempo il nuovo accordo elettorale con il centrosinistra.

Poiché in politica, come lui stesso ricorda di sovente, non esistono accordi “tecnici”, è chiara la natura politica dell’operazione che si appresta a fare.

La farà nell’ambiguità, ma la farà. E siccome l’ambiguità ha bisogno di formule ogni volta diverse, ecco quella che verrà lanciata per il 2001: “la riduzione del danno” (intervista a La Repubblica del 20 agosto).

Questo linguaggio medico conferma in effetti che ci troviamo di fronte ad una forma patologica della politica, che certo non ha inventato Bertinotti, ma alla quale contribuisce nella misura in cui vi partecipa.

Dopo la desistenza “conclamata” del 1996, avremo probabilmente la desistenza “unilaterale” e un po’ nascosta come disdicevole nel 2001. Queste forme di concreta subordinazione all’attuale strutturazione manipolata del mercato della politica parlano più di cento documenti e di mille comizi.

D’altra parte, perché stupirsi dopo l’accordo elettorale e di governo in 14 regioni su 15 nella primavera scorsa?

 

In questa situazione non è difficile cogliere due vuoti giganteschi. Un vuoto politico, determinato dall’affermazione di fatto (al di là delle leggi elettorali e dei sistemi istituzionali che pure l’hanno fatto nascere) del bipolarismo. Un vuoto di iniziativa politica sui temi sociali più rilevanti in grado di smuovere le stagnanti acque attuali, nelle quali ogni idea di lotta sembra destinata a soccombere in mancanza di un progetto, una prospettiva, un’organizzazione dichiaratamente alternativa e contrapposta al regime bipolare.

Problemi enormi, ai quali nessuno è oggi in grado di rispondere adeguatamente. Ma i problemi sono questi: perché non dircelo chiaramente, abbozzando almeno qualche proposta per tentare di rispondervi?

Da questo punto di vista le elezioni politiche del 2001 non rappresentano di certo per i comunisti un’ultima spiaggia, costituendo tuttavia un passaggio significativo al quale sarebbe sbagliato sottrarsi.

Non rappresentano un’ultima spiaggia sia perché le elezioni di per sé non lo sono mai, sia perché abbiamo ben presente la condizione arretrata e lo stato appena embrionale del processo aggregativo che abbiamo avviato nell’ultimo anno con la costituzione di un coordinamento nazionale tra diverse realtà comuniste.

Costituiscono però un passaggio significativo, non fosse altro come sintesi simbolica dell’avvenuta omologazione dei comunisti a corrente alternata, antagonisti quando non conta, ruota di scorta ogni volta che serve. (Dei comunisti governativi a corrente continua e tensione calante del Pdci non è neppure il caso di parlare).

L’assenza di un’opposizione politica e strategica al regime bipolare – collocazione naturale per i  comunisti, se questo nome ha ancora un senso – è dunque la questione aperta alla quale non è possibile sottrarsi. Di questo discuteremo nelle prossime settimane, con la coscienza dei grandi limiti delle nostre possibilità, ma sapendo che anche una risposta parziale e insufficiente è sempre meglio di nessuna risposta.

 

Al di là di questa scadenza, ai comunisti serve ritrovare la capacità di riprendere un’iniziativa sul terreno sociale; un’iniziativa unificante che, partendo dalla condizione materiale dei lavoratori, abbia una caratterizzazione fortemente politica.

C’è un tema, da molto tempo nell’agenda di governo, sindacato e Confindustria, che esemplifica in maniera pressoché perfetta l’attuale livello del dominio di classe: il foraggiamento dei Fondi pensione integrativi con il trasferimento forzoso del Tfr (cioè la liquidazione).

La forma di questo prelievo è ancora materia di discussione tra i tre protagonisti della concertazione. Il sindacato vuole aliquote fiscali più favorevoli per i Fondi chiusi dove
Cgil-Cisl-Uil siedono nei consigli d’amministrazione; la Confindustria chiede invece parità di trattamento tra Fondi chiusi e Fondi aperti, tanto i suoi associati sono presenti (e dominanti) negli uni come negli altri.

A breve è prevista una decisione che, comunque vada, sancirà l’appropriazione del Tfr da parte dei Fondi pensione. In questo modo i padroni e i loro amici, dopo aver tagliato in questi anni il salario in tutte le sue componenti, avranno a loro completa disposizione una quota non disprezzabile di ciò che è rimasto.

Insomma, in un paese dove nessuno si sognerebbe di imporre, o anche solo di suggerire, le modalità di utilizzo dei profitti, si costringono di fatto i lavoratori a investire (tramite i Fondi pensione) una parte del proprio salario in Borsa.

Anche su questo tema, così significativo, si segnala uno strano silenzio. La nostra proposta è quella di pensare ed organizzare un’iniziativa politica per sancire il diritto all’intangibilità del salario contro ogni meccanismo artatamente coercitivo.

Un’iniziativa che magari utilizzi le forme tradizionali (ad esempio quella della Legge di Iniziativa Popolare) pur di sollevare in qualche modo la questione. Il problema oggi non è infatti quello di illudere sulla realizzabilità concreta di un simile risultato per questa via, ma quello di trovare un modo per dire no alla riduzione del salario a variabile dipendente delle quotazioni azionarie.

Naturalmente altri temi ed altre forme possono essere discusse ed individuate. Quel che conta, su questa questione come in materia elettorale, è cominciare a dare delle risposte

Risposte che inevitabilmente non potranno che essere modeste in questa fase. Ciò che importa, però, è che vadano nella giusta direzione. Nel silenzio del regime bipolare anche una voce isolata, purché chiara e comprensibile, può essere utile per iniziare a risalire la china e riprendere la lotta.    

 

P.S. sul Prc: questo articolo è stato scritto il 25 agosto. Oggi, 30 agosto, la stampa da grande risalto al riavvicinamento tra il centrosinistra e Rifondazione Comunista. Eravamo stati facili profeti. L’accordo ormai, benché avvolto nelle solite fumisterie bertinottiane, è in dirittura d’arrivo.

Su questo non avevamo dubbi e non ci sembra il caso di fare ulteriori commenti, anche perché
 – come a volte accade – la situazione è grave, ma non seria.

Auguri comunque ai “riduttori del danno” alleati con la causa del malanno! Auguri ai terapeuti improvvisati che si spartiscono un pugno di collegi con gli intossicatori di ogni politica!

Non sarebbe umano – e neppure comunista – essere contrari ad ogni vizio, ma quello della subalternità è davvero una malattia incurabile.