E’ tempo di Intifadah

"Nessuno può costringere un popolo a dimenticare" - Edward Said

 

Mariella Di Stefano

 

Circa duecento vittime fra i palestinesi, migliaia i feriti. Questo il bilancio provvisorio della nuova ondata di lotta, l'Intifadah Al-Aqsa, che sta infiammando i territori, riportando al centro dell'attenzione internazionale il nodo irrisolto della questione palestinese.

Sovranità nazionale, dichiarazione di uno stato indipendente, diritto al ritorno dei 4 milioni di profughi della diaspora disseminati in diversi paesi del Medio Oriente e non solo, liberazione delle migliaia di prigionieri politici. Combattenti di una guerra che trae origine dalle politiche di egemonia imperialista sull'area del Mediterraneo.

Da sempre infatti tutto ciò che avviene in Palestina è strettamente intrecciato alla necessità di controllare l'area che dal Nord Africa arriva fino al Golfo Persico. Un'area di importanza vitale sia perché fonte di rifornimento energetico sia in quanto raccordo strategico, autostrada marittima fra l'Oceano Atlantico e quello Indiano. Quindi via di accesso per gli armamenti e gli aiuti militari statunitensi, oltre che per il trasporto del petrolio, basilare per l'economia occidentale capitalistica.

La pacificazione/normalizzazione del fianco sud dell'area mediterranea è stata pertanto sempre uno degli obiettivi perseguiti dalle potenze imperialiste, per ragioni tanto economico-strutturali quanto di stabilità globale. Ed è dunque in quest'ottica che vanno lette e interpretate le alterne vicende che, dal primo periodo di penetrazione del colonialismo europeo, alla creazione dello stato sionista come gendarme imperialista nell'area mediorientale nel secondo dopoguerra, si dipanano fino alle tragiche vicende di oggi.

Un'area peraltro che le vicende storiche del ventesimo secolo hanno dimostrato gravida di contraddizioni. Basti pensare al panarabismo nasseriano, agli stretti legami intrattenuti da alcuni paesi arabi con l'ex Unione Sovietica e quindi destabilizzanti per gli equilibri imperialisti, alla proiezione internazionalista del movimento rivoluzionario arabo-palestinese nei decenni passati, con ricadute anche al di fuori del Medio Oriente. 

E’ stato anche contro questa intransigenza che si sono sviluppati i tasselli dell'intervento imperialista, nell'intento di ridisegnare un quadro della regione sempre più funzionale agli interessi del capitalismo internazionale. Dopo la sconfitta del nazionalismo nasseriano, sprofondato nelle contraddizioni delle borghesie nazionali arabe, rotto il fronte del rifiuto grazie all'acquiescenza dei paesi arabi filoimperialisti, ridotto alla fame l'Iraq con due guerre devastanti, il passaggio successivo è stata la penetrazione per linee interne al movimento nazionalista palestinese per romperne la coesione, secondo la ben nota regola del divide et impera. Un obiettivo parzialmente conseguito con la cooptazione della borghesia palestinese capeggiata da Arafat e rappresentata nell'Autorità nazionale palestinese, che ha condotto per tappe alla fase di normalizzazione della questione palestinese abilmente propagandata come "processo di pace".

Che cosa fosse in realtà il cosiddetto "processo di pace" lo hanno gridato nelle strade della Palestina, e di tutto il mondo arabo, i militanti dell'Intifadah e l'intero popolo palestinese, sconfessando con il proprio sacrificio la politica collaborazionista della dirigenza arafattiana.

Gli ultimi eventi, pur con l'enorme carico di morte e sofferenza che comportano, dimostrano che i tentativi di pacificazione e le atroci guerre intraprese - dalla guerra nel Golfo alla più sotterranea guerra in Libano - non sono serviti a soffocare le legittime aspirazioni del popolo palestinese né tanto meno a stabilizzare definitivamente quest'area di valenza strategica, che rimane, al contrario, ancora costellata di conflitti. Conflitti che coinvolgono direttamente la riva settentrionale del Mediterraneo e che mettono l'Europa in una posizione "scomoda". Non solo per la contiguità geografica con il versante meridionale, ma anche per il flusso migratorio da cui è investita, come conseguenza delle devastanti politiche economiche delle borghesie nazionali  arabe, che hanno ridotto in miseria intere popolazioni.

Versando il proprio sangue gli shabab palestinesi hanno dichiarato morto il "processo di pace", demistificandone senza mezzi termini il carattere illusorio e la funzionalità ad altri interessi. E d'altra parte i processi di pace e le cosiddette "soluzioni politiche", qui come in altre aree di conflitto, sono spesso l'altra faccia di missili e bombardieri, armi utilizzate dall'imperialismo per imporre i propri interessi in ogni angolo del pianeta.

Ciò che sta accadendo in Palestina ci riguarda quindi direttamente, in primo luogo per le implicazioni di ordine globale della questione arabo-palestinese, che rimanda ai processi di ridefinizione degli assetti imperialisti nell'area mediterranea dopo due guerre del Golfo, l'intervento "umanitario" nella ex Jugoslavia, e quant'altro. Ma anche perché oggi qualsiasi ipotesi di cambiamento non può che avere respiro internazionale.

E anche per questo stupisce la sostanziale indifferenza di buona parte della sinistra italiana nei confronti dell'Intifadah, o al meglio il solidarismo che non riesce a superare la pur giusta ma parziale indignazione per l'aggressione israeliana. L'eccessiva vicinanza evoca forse troppi fantasmi?

 

Oslo: un "processo di pace" fantoccio

 

Il "nuovo" scenario in Medio Oriente non nasce dunque dal nulla. E non è neanche frutto soltanto della provocatoria passeggiata del macellaio Sharon sulla spianata delle Moschee. Discende invece direttamente dal senso di frustrazione e di rabbia che il proletariato palestinese ha accumulato in anni di inutili promesse. E non è altro che l'esplicitazione dell'aperto rifiuto nei confronti di quel processo di pace avviato con la Conferenza di Madrid del 1991 e proseguito con gli accordi di Oslo del settembre 1993.

Un processo di pace che si è rivelato una vera e propria beffa per il popolo palestinese. Agli obiettivi di massima fissati ormai sette anni fa, è seguita una situazione via via più stagnante che ha ratificato nei fatti la penetrazione dello stato sionista nei territori dell'autonomia palestinese, non ha bloccato le edificazioni e gli insediamenti dei coloni ebrei, ha perpetuato l'arrogante occupazione dell'esercito sionista. 

I nuovi insediamenti si sono moltiplicati ed estesi (sono 200mila gli ebrei in più a Gaza e in Cisgiordania), così come sono proseguite le demolizioni di case dei palestinesi. La politica del fatto compiuto è stata trasversale a tutte le compagini governative che si sono alternate in questi anni: i governi Rabin, Peres, Netaniahu e Barak, senza alcuna distinzione fra presunti "falchi" o "colombe". Anzi, secondo dati forniti dalla stessa stampa israeliana, dal 1998, quando c'era Netaniahu al governo, a oggi  la costruzione di nuovi edifici da parte israeliana è aumentata di un terzo.

Che cosa è stato offerto al popolo palestinese? La negazione dei propri diritti, ratificati anche dalla "legalità internazionale", e un'esistenza da sfruttati all'interno di bantustan più o meno contigui, accoppiate al placebo dell'autogoverno. Come è stato denunciato  da più parti - e non solo dai palestinesi ma anche da intellettuali non asserviti come Noam Chomsky - l'obiettivo non dichiarato degli accordi di Oslo è stata la realizzazione di una sorta di mini stato composto da quattro cantoni in Cisgiordania (Jericho, un cantone meridionale esteso verso Abu Dis, il villaggio proposto in sostituzione di Gerusalemme come capitale dei palestinesi, un cantone settentrionale con Nablus, Jenin e Tulkarem e un cantone centrale con Ramallah), con uno statuto più vago per la striscia di Gaza. Tutti comunque circondati dai territori annessi da Israele. Insomma una riedizione dei vecchi modelli coloniali, con il territorio utile della Cisgiordania e le risorse vitali (acqua in primis) sotto il controllo sionista e la popolazione amministrata dal regime corrotto e clientelare dell'ANP, serbatoio di forza-lavoro a basso costo per Israele. 

Non solo. Gli accordi di pace di Oslo non hanno abolito l'ordine militare n° 92 dell'agosto 1967, che assegnò prima all'esercito sionista poi all'autorità israeliana Mekerot il controllo dell'acqua palestinese. All'inizio degli accordi di Oslo il problema idrico era tra quelli ancora da discutere negli accordi sullo status finale dei territori. In realtà nel 1995 israeliani e ANP hanno stipulato un'intesa (OSLO II, i cosiddetti Accordi di Taba) che ponesse le basi per l'accordo finale. Questo lascia di fatto il controllo sulle risorse idriche totalmente in mano a Israele, che controlla ancora l'80% delle risorse idriche della Cisgiordania e della striscia di Gaza. Gli abitanti dei territori dipendono perciò dall'acqua piovana oppure sono costretti ad acquistare sul mercato l'acqua, utilizzando il 20% del loro scarno reddito. E secondo la Banca Mondiale, una fonte non certo schierata con i popoli oppressi, il 90% dell'acqua della Cisgiordania viene utilizzata da Israele mentre i palestinesi dispongono solo del 10%.

Per non parlare poi delle disastrose condizioni economiche in cui versa la quasi totalità degli abitanti dei territori. Le piccole industrie locali  (produzione di sapone, oli, tessuti, dolciumi, cave) sono in uno stato di assoluta stagnazione, come anche la maggior parte dei progetti di sviluppo prospettati a Oslo. La popolazione vive in condizioni di grande povertà, con livelli di disoccupazione che toccano punte del 40%. Chi infine lavora in Israele ha di solito un impiego parziale e stipendi irrisori, senza garanzie sociali e subisce costantemente il ricatto della chiusura dei territori, con gravi conseguenze per l'economia delle famiglie.

Altra questione irrisolta riguarda il previsto rilascio di tutti i prigionieri politici. In realtà le sporadiche liberazioni che hanno avuto luogo a partire dal settembre del 1993 (e che Israele ha fatto passare per grandi concessioni), sono state accolte dai palestinesi con rabbia e manifestazioni di protesta, sia per l'esiguità del numero che per le modalità del rilascio, i cui criteri sono stati l'appoggio agli accordi di Oslo (con la firma addirittura di un'umiliante dichiarazione di "dissociazione"), l'aver quasi completamente scontato la pena e soprattutto il non essere accusati di attacchi diretti agli israeliani.   

E in questo panorama la subordinazione dell'autorità nazionale palestinese agli interessi di USA e Israele, ottenuta anche con la corruzione economica, è stata un tassello fondamentale. Basti pensare che il 60% del bilancio pubblico dell'ANP va in burocrazia e sicurezza per Arafat e solo il 2% in infrastrutture. 

Le premesse di quanto sta accadendo oggi c'erano dunque già tutte all'epoca della ratifica degli accordi e più che di "processo di pace", come ci hanno detto in questi anni, c'è stata nei fatti l'articolazione della soluzione imperialista alla questione palestinese. D'altra parte dopo la guerra del Golfo le potenzialità di manovra da parte dell'imperialismo USA sono cresciute e, come si è puntualmente verificato, la svolta del "processo di pace" nella "bantustunizzazione" dei territori palestinesi era ormai matura.

 

La sinistra palestinese

 

Tutte queste contraddizioni, benché occultate dall'Autorità nazionale palestinese (che per soffocare il dissenso non ha esitato a ricorrere all'assassinio, al carcere e alla “cooperazione” con servizi segreti sionisti e americani), sono riemerse in occasione del summit di Camp David, nel luglio 2000. E hanno preso forma intorno al nodo di Gerusalemme, irrinunciabile per il popolo palestinese, e del suo statuto e a quello dei rifugiati. E pur essendo il diritto al ritorno una delle parole d'ordine portanti del movimento di liberazione palestinese - sancito peraltro dalla dichiarazione ONU 194 dell'11-12-1948 - anche in questo caso è stata prospettata una soluzione ambigua e pasticciata: rientro simbolico di alcune decine di profughi e una qualche forma di indennizzazione per tutti gli altri.

Proprio a cavallo del summit di Camp David si è svolta la sesta conferenza del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), una delle organizzazione storiche della sinistra palestinese, ferma sostenitrice di uno sbocco democratico e socialista alla questione palestinese. Dopo la guerra del Golfo, il crollo del revisionismo nell'ex URSS, l'avvio del processo di "normalizzazione" anche con la Siria, questa come altre organizzazioni della sinistra palestinese, hanno attraversato una grossa fase di crisi. Crisi politica e di prospettiva.

La capacità di contare e di incidere sui rapporti di forza, di rappresentare efficacemente gli interessi palestinesi si è progressivamente offuscata, mentre prendevano piede anche nei territori palestinesi le organizzazioni islamiche, principalmente Hamas e le sue diverse emanazioni. Organizzazioni che hanno tratto linfa da una serie di fattori concomitanti: il progressivo abbandono di posizioni a favore dei palestinesi da parte dell'A.N.P., la crisi che ha coinvolto le organizzazioni della sinistra contrarie agli accordi, la perdurante occupazione militare dei territori, fonte di delusione e insofferenza fra le masse. Alla ferma opposizione contro gli accordi e alla capacità di mantenere lo scontro aperto anche sul piano militare, dando una risposta concreta alla rabbia dei palestinesi, Hamas ha associato un grande attivismo a livello sociale, con la fondazione di cliniche, scuole, fornendo servizi gratuiti o quasi, organizzando comitati di sostegno per le famiglie dei martiri della lotta contro il sionismo e dei prigionieri politici.     

Questo aspetto va tenuto nella giusta considerazione anche da parte della sinistra palestinese, indipendentemente dal fatto che le organizzazioni islamiche sono state spesso utilizzate come strumento di contenimento di movimenti laici e di sinistra, o in attività di destabilizzazione funzionali agli interessi delle potenze imperialiste occidentali.

In questo quadro generale c'è stata tuttavia negli ultimi mesi una ripresa del dibattito in funzione propositiva da parte delle organizzazioni della sinistra palestinese, che stanno cercando di rilanciare il proprio ruolo all'interno dei territori.

In questo senso si può leggere anche la conferenza del FPLP, dove sono state ribadite da parte del nuovo segretario Mustafa Ali Al Zubari alcune linee generali che potrebbero fungere da riferimento per la ricostruzione di un'opposizione di sinistra. Il FPLP ha condannato senza mezzi termini i negoziati di Camp David, ritenendoli basati sulla sostanziale egemonia di israeliani e statunitensi  e nella cornice, non condivisibile, degli accordi di Oslo e ha invitato ad abbandonare immediatamente i negoziati tra Palestina e Israele, sottolineando che l'amministrazione statunitense non è parte neutrale nel conflitto con Israele e negli attuali negoziati, ma sostiene pienamente il governo israeliano.

Sul piano della riflessione politica è stato affrontato il problema della crisi del fronte ed è emersa la volontà di venirne a capo rilanciando la cooperazione con le organizzazioni che difendono realmente i diritti del popolo palestinese sulla base del principio che solo la resistenza può condurre alla sconfitta del nemico, come ha dimostrato la vittoria del popolo libanese contro l'occupazione nel Sud del Libano.

Questa linea è stata confermata nei comunicati rilasciati dal FPLP nel corso dell'Intifadah, che invitano sostanzialmente all'unificazione di tutte le forze sulla base comune del rifiuto degli accordi liquidazionisti, della condanna dell'occupazione israeliana e dello sviluppo della lotta popolare.

 

Una nuova leadership?

 

Il fallimento del vertice di Sharm-el-Sheik, insito nella logica degli eventi, ha confermato da un lato la sostanziale acquiescenza del fronte dei paesi arabi opportunisti, dall'altro lo scarso respiro di qualunque soluzione che non riconosca i diritti storici del popolo palestinese.

L'Intifadah ha posto con forza l'esigenza di una leadership alternativa e soprattutto di un programma alternativo tra i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, della diaspora e di Gerusalemme, fondato su alcuni punti chiari e irrinunciabili: nessun ritorno alla cornice di Oslo e nessun compromesso sulle risoluzioni internazionali che ordinano la rimozione di tutti gli insediamenti e le strade militari, l'evacuazione di tutti i territori occupati o annessi nel 1967. E si è già realizzato un riavvicinamento fra le diverse componenti del movimento palestinese, con la creazione di un coordinamento (comitato di forze nazionaliste e islamiche) finalizzato a dare una qualche forma organizzativa a una rivolta per lo più spontanea e al quale partecipano una decina di gruppi fra cui Al Fatah, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, il Fronte democratico, Hamas.

Qualcosa di analogo si verificò con la prima Intifadah. L'Intifadah del 1987 non fu soltanto una rivolta spontanea. Fu anche il frutto di una riorganizzazione nei territori occupati da cui emerse una leadership alternativa a quella che all'epoca risiedeva a Tunisi. Si formò nel vivo della lotta una forma di ricomposizione reale: il comando unificato nazionale della rivolta, che fu il prodotto dell'unità d'azione sul campo delle diverse organizzazioni e portò nella società palestinese elementi nuovi ed inediti.

Oggi il popolo palestinese si trova nuovamente a un punto di svolta: il cambiamento è all'ordine del giorno e nel vivo della lotta si potranno formare una leadership e un programma nuovi che tengano conto delle richieste popolari, del fiato corto di un certo tipo di accordi  e del quadro internazionale. Dal quale non emergono solo elementi negativi. La partecipazione all'Intifadah degli arabi israeliani, il sostegno della resistenza nel sud del Libano, la mobilitazione di centinaia di migliaia di arabi in tutto il mondo rappresentano infatti un grande potenziale di emancipazione antimperialista.

La questione palestinese può ripartire dunque da queste basi, con la consapevolezza, parafrasando E. Said, che "quel che accadde nel 1948 è storia vera, la reale espropriazione di un popolo. Fino a quando tutto ciò non verrà riconosciuto non ci potrà essere pace, anche se le attuali leadership hanno deciso di dimenticare il passato. I palestinesi non sono un equivoco, ma un popolo molto concreto. Tutta la faccenda potrà concludersi solo quando saranno riconosciuti i suoi diritti".

Per tornare infine a casa nostra, non si può passare sotto silenzio il sostanziale allineamento del governo italiano alle posizioni di Israele e USA, manifestatosi in due occasioni consecutive. La prima a Ginevra quando la Commissione dell'O.N.U. per i diritti umani ha condannato la repressione dello stato sionista con 19 voti a favore, 16 contrari e 17 astenuti e dove i 7 paesi dell'UE con diritto di voto, compresa l'Italia, hanno votato contro. La seconda, qualche giorno dopo, all'assemblea generale dell'O.N.U. dove un altro più blando documento di condanna è passato con il voto di diversi paesi europei, ma non dell'Italia. Questa linea di politica internazionale, che rompe anche nei confronti degli equilibrismi "filoarabi" che caratterizzarono la borghesia italiana dagli anni '60 fino al craxismo, la dice lunga sul mutato DNA della sinistra di governo.

Evidentemente, sulla bilancia internazionale, gli shabab palestinesi falcidiati dal piombo sionista pesano meno dei bambini africani che hanno commosso alle lacrime il diessino Veltroni, pacifista bifronte.