ELEZIONI:
UN’ESPERIENZA POLITICA
Come Movimento per la Confederazione dei
Comunisti abbiamo a suo tempo molto riflettuto e quindi deciso di presentarci
alle elezioni politiche.
Abbiamo
inteso sperimentare anche questo, tra gli altri terreni di lotta, per la
semplice e ovvia ragione che il carattere della nostra formazione non è solo
ideologico (non dando a questo termine la connotazione leninista) o solo
movimentista ma eminentemente politico
pur essendo consapevoli che l'ambito elettorale non è certo quello a noi
più favorevole, né in linea generale, quello privilegiato.
Nonostante sapessimo che questa scelta veniva presa in considerazione solo
in Toscana, abbiamo comunque valutato che eravamo nella difficile ma
ragionevole condizione di tentare questa prova politica concreta e i risultati,
pur nella modestia di un esperimento in condizioni oggettive pesanti, non ci
hanno dato certo torto.
Il non essere presenti, dal nostro punto di
vista, ci avrebbe posto in quella collocazione che costringe l'azione politica
in un ambito astratto e più
precisamente quello di non tentare proposte alternative a quelle obbligate a
farlo in termini speculari alla critica radicale.
Ovviamente comprendiamo bene le ragioni
dell'astensionismo, del resto in aumento, ma abbiamo valutato di non sottrarci
allo scontro aperto e alle verifiche che possono essere severe, considerata la
realtà nella quale i comunisti sono oggi costretti a esprimere il proprio
pensiero e la propria azione, sia nelle lotte di fase, che di prospettiva.
Esisteva inoltre, oltre a quelli già esplicitati
in altre occasioni su questo giornale, un'altra ragione per convincerci a
questo passo. Un aspetto non irrilevante per chi ha aderito al Movimento per la
Confederazione dei Comunisti uscendo dal Partito della Rifondazione Comunista
in base ad una analisi politica e su un’ipotesi alternativa per una nuova
aggregazione.
In questi tre anni infatti non abbiamo mai
cessato, nonostante tutto, il tentativo di dare corpo a esperienze che per
quanto difficili e certo ad oggi non compiute, non ci facessero smarrire il
senso del pensare e fare politica in termini concreti cercando di non
relegarci, per quanto possibile, nell'ambito della critica e del dissenso di
resistenza, ambito certo non disprezzabile ma diverso dal dall'obiettivo
politico di partenza.
Ci ha mosso anche l'intenzione di aprire un
dibattito aperto, e la campagna elettorale è in questo senso il terreno adatto
in quanto consente di propagandare le analisi e le ipotesi, attorno
all'equivoco politico rappresentato sulla scena politica italiana dal Partito della Rifondazione Comunista.
Sebbene
Rifondazione non sia stata certo battuta dai risultati elettorali e anzi
l'equivoco che rappresenta ne esca rafforzato (almeno nel medio tempo) il
nostro lavoro di critica e disvelamento si è aperto in termini più leggibili
per molti compagni e in un ambito certo più ampio da quello consentito dalle
nostre esperienze e dai rapporti ad oggi intrecciati.
Per non incorrere nel rischio che il nostro
agire politico venga letto in funzione di mero astio o faziosità,
caratteristiche contrarie ad ogni processo di aggregazione tra comunisti, forse
è necessario ripercorrere brevemente la radice prima del nostro dissenso
profondo che non è mai stato segnato da animosità ma da un profondo disaccordo
tutto politico e politicamente ad oggi portato avanti.
La ragione principale del nostro distacco e
quindi della nostra uscita dal P.R.C. risiede nell'analisi maturata tre anni
fa e oggi rafforzata, che il P.R.C. non
possa e non intenda essere, quella forza che costruisce l'alternativa comunista
rifondata pur riuscendo a rappresentarsi come organizzazione antagonista.
Ci
è parso doveroso, dal momento che abbiamo con tanta determinazione valutato e
attaccato il carattere irreversibilmente riformista di questo partito,
coniugare questa analisi con azioni politiche, forzatamente modeste ma coerenti
a quanto abbiamo elaborato criticamente.
Il
carattere riformista del PRC, a nostro avviso, venne esplicitato con l'accordo
programmatico con il governo che doveva portare l'Italia nel polo imperialista
europeo nel quadro della seconda repubblica.
L'accordo
programmatico di governo, poi interrotto per ragioni molto lontane da una reale
inversione di tendenza, ci ha confermato in seguito, nonostante il massimalismo
e i giuochi di prestigio, la permanenza del P.R.C. nell'ambito bipolare con
l'accettazione della moneta unica europea, del pacchetto Treu, con il voto alla
legge Turco Napolitano, la non belligeranza sindacale, fino alla non belligeranza
con l'Ulivo alla Camera e al suo coinvolgimento sulla scelta dei sindaci.
Saremmo
però fuori da ogni concretezza se oggi, a risultati elettorali noti, non
vedessimo la realtà dei fatti: il bipolarismo ha vinto, la responsabilità del
centro sinistra nell'aver spianato la strada alla destra è sotto gli occhi di
tutti come la sua attuale disgregazione. Rifondazione ha retto.
Rifondazione ha retto portando dalla sua una
parte del dissenso di sinistra e dei comunisti che non hanno trovato
alternativa nazionale credibile. L'equivoco di un partito riformista quanto
massimalista si rafforza nonostante sia percepita la sua tendenza da un lato a
proporsi come una forza "bella e impossibile" tanto antagonista da
spaziare dal Sub Comandante Marcos fino al tentativo di ingoiare la radicalità
delle lotte antiglobalizzazione per istituzionalizzarle e dall'altro, di tifare
per Veltroni, l'uomo del maggioritario o per Rosa Russo Jervolino, nemmeno
fosse la Luxemburg, per mantenere
aperto il dialogo e il compromesso con il centro sinistra.
Per quanti lavorano per scomporre e ricomporre
l'aggregazione dei comunisti a partire dai filoni "dati" , per quanto
riguarda il P.R.C, si apre un scenario di difficoltà oggi forse maggiori,
almeno a tempi brevi. Ci sono però anche ragioni per pensare che nell'universo
politico, sindacale e sociale dell'intera sinistra si determinino scelte e
conseguenti tensioni capaci di creare nuove condizioni.
Le
analisi che abbiamo prodotto, alla sostanza, non sono state
contraddette.
Nel caso, sono le ipotesi che abbiamo delineato
che hanno necessità di nuova verifica e questo per due ragioni.
La prima è ovvia: il quadro politico di
riferimento generale è cambiato dopo le elezioni, il centro sinistra non è al
governo del paese. In seconda istanza, per quanto ci riguarda, deve esserci
chiaro che abbiamo ipotizzato, per tutta una fase, che le contraddizioni
politiche e sociali sarebbero emerse in termini più rapidi, mentre, per dirla
con Calvino: " le condizioni ci sono state tutte ma non per questo si sono
verificate".
Ma.
C'è sempre questo "ma" per quanti non vogliono la resa a sostenere i tenaci.
Inoltre, in politica, dopo aver analizzato
oggettivamente lo stato reale dei fatti, il "se" e il "ma"
sono nell'ordine delle cose perché il
quadro può modificarsi nonostante l'implacabilità delle linee di tendenza.
Questo "ma" consente di poter dire,
per esempio, che non è detto che la fase che si apre sia peggiore di quella già
tremenda che viviamo da anni.
La pace sociale e sindacale, la guerra, la
devastazione del lavoro, il conformismo soffocante non saranno spazzati via con
facilità, il Governo di centro sinistra ha lavorato in profondità e non sono
ipotizzabili "risorgimenti" e ripresa di conflitto che non vada oltre
la routine, ma seppure classe dirigente e popolo di sinistra siano tanto
compromessi , la durezza della realtà e dei bisogni può consentire la ripresa o
la scossa necessarie per un avvio.
Molto dipenderà dal Polo, molta della strada è
stata già tracciata dalla sinistra e inoltre, si dice, che abbia imparato la
lezione della politica, ma il suo carattere strutturale e culturale, gli
interessi che difende e le contraddizioni interne, possono determinare una
mancanza di prudenza e una accelerazione dei processi, del resto era quello che
temeva la stessa borghesia italiana ed europea.
L'esperienza della raccolta di firme non è
nuova.
Ogni compagno e compagna sa di quanto possa
essere dura, sa della pioggia, della difficoltà dei turni, della paura di non
farcela, può immaginare i visi ostili, chiusi, stanchi, delle persone che
passano in fretta all'uscita dei super mercati il venerdì pomeriggio e magari
ti scansano con la mano. Ma per quanto tutto ci fosse già noto o
immaginabile, con il passare dei giorni cresceva la netta
sensazione che invece molto era cambiato.
Non pretendo di fare facile sociologia politica
attorno a questa raccolta di firme ma alcuni aspetti colti direttamente
dall'approccio con altri esseri umani, dopo tanti dibattiti televisivi, qualche
riflessione l'hanno comportata.
Noi
ci presentavamo con i "dati personali" come direbbe Krahl : il nome
in primo luogo: Comunisti, Movimento
per la Confederazione dei Comunisti.
"I
comunisti disdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni".
Il
simbolo : Falce, martello, stella rossa.
Gli
slogans: No all'opposizione a metà di Rifondazione e alla sua ambiguità, No al
lavoro precario. Si ai meccanismi di riappropriazione del salario: Scala
Mobile, Tfr etc.
Si
alla libera circolazione dei lavoratori immigrati, No al maggioritario, No al
Governo di Centro Sinistra, Governo della guerra imperialista, delle
privatizzazioni etc.
Le cinquemila firme, che potevano essere molte
di più, sono state prese non risparmiando nulla e nessuno, asserendo
pubblicamente le nostre valutazioni e giudizi in termini da fare arrabbiare
qualunque appartenente alla "sinistra", qualunque pidiessino o
votante di Rifondazione.
Certo, alcuni si fermavano, specialmente nei
mercati, dove le persone hanno più tempo e alcuni dicevano che divisi si perde,
altri che quella stella rossa sembrava delle B.R, altri che di liste comuniste
ce ne erano anche troppe ma che erano finiti i comunisti.
Ma
nessuno, di quanti si fermavano, firmassero o meno, difendeva nessuno.
Tutti o quasi sembravano aver perso, nel breve e
pesantissimo giro di questi anni, identità e senso di appartenenza, persa
quella certezza di essere nel giusto, certezza talvolta arcigna, perfino
arrogante, offensiva, contro chi non era dei loro, propria di tanti compagni
del P.C.I, o quella baldanza orgogliosa della prima Rifondazione.
Questo senso di comunità, di gente che ha
convinzioni forti, che condivide ideali e speranze collettive sembrava lontana
come la luna.
Emergeva in tanti, in cambio della passione
politica, quasi un senso acre di dolorosa sfiducia che non è qualunquismo e
neppure nostalgia ma piuttosto amarissima disillusione.
Strano, pensavo, nessuno si arrabbia più come
una volta, di tanto ardore partigiano, perfino fazioso, rimaneva, come dopo un
incendio sul quale fossero state gettate
troppe acque, un nuvola densa: la paura che vincessero gli altri.
Il
bipolarismo aveva vinto, in poche parole. Quasi nessuno opponeva difesa
per la propria parte politica, emergeva invece il timore di nuova possibile
offesa, quella della vittoria di Berlusconi.
Ma. Ma è anche successo che non pochi, di ogni
età anche se in misura minore i giovani, domandandoci con chi eravamo, se
eravamo o meno con Rifondazione e perché volevamo presentarci alle elezioni,
avviassero con noi un ragionamento.
Il ragionamento
in non pochi casi ci vedeva concordi stabilendo così una sintonia inaspettata,
quasi il ritrovamento di un filo di analisi, di linguaggio e di bisogni comuni.
C'è una frase, nelle Ricerche filosofiche in cui
Wittgenstein si pone una domanda semplice ma alla quale è difficile rispondere
come a quelle dei bambini.
"Come faccio a sapere che questo colore è
rosso?" Ovviamente in questo caso il rosso era un colore casuale, ma il
senso della domanda non cambia. Il
percorso linguistico ineludibile e del resto noto non basta a spiegare
il senso del rosso o del blù, senso che è individuale perché ciascuno lo
percepisce diversamente, ma è comune perché riconoscibile in termini generali
per tanti, almeno come sintesi codificata.
Ecco, tra una folla delusa, infastidita, propria
dei banchetti di raccolta di firme, può succedere di intercettare e capire che
dieci, venti, trenta, quaranta e più persone hanno attraversato una sequenza di
pensiero e di esperienza per la quale si comunica oltre il senso comune ma in
termini comuni.
L'aggancio poteva essere il lavoro precario,
come il salario, ma era la domanda di libertà, la necessità di trovare il modo
di uscire dalla cappa dell'oppressione di classe, la consapevolezza della
difficoltà estrema del come e con chi riorganizzare questo bisogno che faceva
pensare che i comunisti c'erano, quelli a cui non basta la ridistribuzione del
reddito o migliori condizioni, che pure sono importanti, ma che hanno
l'esigenza di ben altro dall'accontentarsi
del meno peggio.
La questione comunista esiste ed esiste, per
quanto sommerso dal revisionismo o dal riformismo, lo spazio politico e sociale
perché ne riprenda la domanda e quindi l'organizzazione in termini
contemporanei. La questione del soggetto e delle nuove modalità è oggi all'ordine
del giorno ed è campo di ricerca quanto di individuazione di lotte
concrete.
Ma dovrebbe essere chiaro che le contraddizioni
e le oppressioni sono già tutte aperte e che una analisi sulle trasformazioni
strutturali del Capitale è già avviata, pur se ovviamente non compiuta è certo
delineata dai dati di fatto.
Il blocco sociale oppresso e potenzialmente
antagonista è sotto i nostri occhi, non è una opinione peregrina o roba da
gioco di prestigio, il capitale stesso lo determina. La difficoltà è trovare le
leve giuste perché torni a esprimersi.
Un ostacolo pesantissimo, volendo attenersi a
una questione, è quello della
riorganizzazione delle istituzioni in senso maggioritario e bipolare,
riorganizzazione voluta dalla stessa sinistra, fattore che aliena o quanto meno
compromette, la possibilità di avvalersi di rappresentatività e protagonismo.
Lo scontro si giocherà, se si giocherà, tutto fuori e tutto contro lo schema
bipolare, dovrà trovare se li trova, strumenti e luoghi dove legittimarsi a
partire da una piattaforma programmatica, rivendicativa in termini di classe,
cosa difficile per i comunisti, impossibile per i riformisti, per quanto lo
dichiarino alzando il tiro senza praticare il bersaglio.
Una confederazione, in assenza di un pensiero
unico dei comunisti, che intercetti la realtà dei bisogni immediati, pratichi
azioni e lotte concrete che contengano elementi di prospettiva su un terreno
dove il bipolarismo, anche di sinistra radicale, non può a fondo scendere,
rimane un’ipotesi concreta e aperta di lavoro.
Certo, aveva ragione chi diceva che lavorare
stanca, anche il lavoro politico stanca quando comporta tanti sforzi e pochi
risultati.
Quello dell’esperienza elettorale ha visto
sforzi e risultati, significa molto per chi l'ha prodotto e per i compagni e le
compagne che ha avvicinato.
Significa poco se non si riprendono subito nuove
iniziative che favoriscano e determinino nuova aggregazione. Non è scontato
ma è possibile, se non è un’istanza che
gira solo nella testa di alcuni tenaci, sebbene la tenacia, proprio adesso che
è rara sia materia utile.