Femminilizzazione della forza lavoro

O. Lunghi

 

E' il lato Cattivo

E' il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia.

Le forze produttive si sviluppano di pari passo

all'antagonismo delle classi.

Il lato cattivo, l'inconveniente della società

va crescendo

fintanto che le condizioni materiali

della sua emancipazione

non pervengono al punto di maturazione.

 

Marx. La miseria della filosofia.

 

Almeno in termini d'organizzazione e di visibilità il lato cattivo non va oggi di pari passo con lo sviluppo produttivo.

Il Capitale continua a produrre trasformazioni continue e a sviluppare la propria capacità di allargare il fronte dello sfruttamento senza produrre oggi il soggetto che specularmente abbia la forza di contrapporglisi.

Si è anche invertito di conseguenza quel modello sociale di sviluppo di tipo emancipatorio che in parte è stato frutto del conflitto permanente e in parte è stato funzionale al dispiegarsi dello sviluppo produttivo.                          

Si tratta di un'inversione che se permanesse segnerebbe in termini di frattura l'impianto stesso che ha accompagnato la storia dell'industrialismo e l'insieme dei rapporti sociali a questo relativo.

Potrebbero, se non si trattasse che di una fase, cambiare le coordinate fondamentali attorno alle quali si sono mossi i meccanismi d'accumulazione del profitto, il blocco sociale della borghesia intesa come organismo sociale investito di segno progressivo e il conseguente apparato giuridico.

Lo stesso fronte del proletariato potrebbe vedere una tabula rasa dell'insieme delle proprie organizzazioni storicamente date.

La trasformazione prodotta oggi dal capitale è potentissima ma in luogo di procedere per avanzamenti, comprensivi degli stadi precedenti, si riappropria dello stato precedente al novecento facendone sistema d'accumulazione contemporanea, pur mantenendo tutte le forme acquisite con l'industrialismo. Una torsione inedita.

Seguendo quest'ipotesi di ragionamento i paradigmi novecenteschi impiantati sul binomio emancipazione e parità contro l'oppressione di classe potrebbero ridefinirsi in senso contemporaneo con i termini di schiavitù e libertà.

Se il ruolo e la funzione sociale del lavoro e dei lavoratori muta di segno e si assesta sul non valore, se il lavoro è ridotto a stato di non visibilità e non incidenza, pur mantenendosi intatta la possibilità del suo sfruttamento, la definizione corrente di "lavoro servile" diventa più di una definizione ma piuttosto una condizione, spia di un mutamento da interrogare nella sostanza e nella tendenza.

Partendo da quest'approccio, per rintracciare una consonanza nella realtà con questa torsione che non può nascere dal nulla, la condizione tradizionale del lavoro femminile appare la più adeguata.

Se esiste una modalità nella storia che riassume la capacità di sfruttamento totale del lavoro da parte del capitalismo è quella riservata alla componente femminile delle classi subalterne.

Si è trattato e si tratta di un'appropriazione indiscriminata di fatica, di tempo, di possesso del corpo e per un lungo tratto della stessa conoscenza. Con l'aggiunta, per quanto riguarda segnatamente le donne, di pesantissimi condizionamenti sociali, culturali e religiosi che hanno radice nell'ordine patriarcale. Radice modificata dai passaggi della storia e dall'industrialismo, permanendo però sostanzialmente uguale a se stessa nonostante i balzi in avanti e le lotte per la parità delle donne.

La modalità dello sfruttamento della forza lavoro delle donne ha mantenuto, nonostante tutto,  forti aspetti di non valore sociale, di flessibilità infinita, di non visibilità e incidenza e un'adattività del proprio tempo estrema.

Una modalità di sfruttamento della forza lavoro diversa, da quelli assegnata al soggetto forte, l'operaio maschio bianco delle società avanzate.

Una modalità, quella dello sfruttamento del lavoro delle donne proletarie molto consonante a quell'imposta oggi all'insieme del lavoro salariato composto di donne, uomini e immigrati.

Questa riduzione a femminilizzazione del valore-lavoro a livello sociale, secondo il mio punto di vista, impone considerazioni analitiche approfondite per la ricerca di una nuova teoria e prassi di lotta e d'organizzazione degli sfruttati. Impone anche il riappropriarsi di un termine e un concetto rimosso nel novecento, che è quello di Libertà.

Proprio oggi a mio parere è tempo che riemerga, nel suo significato marxista il valore di questo termine e che finalmente si sostituiscano le parole d'ordine del novecento che vertevano sui concetti d'uguaglianza e parità.

La libertà presuppone la schiavitù e il novecento ha negato, pur permanendo filoni di pensiero minoritari che hanno condotto una propria strada parallela, questo binomio per definire la condizione delle forze produttive.

Per l'apparato ideologico culturale, perfino per il lessico corrente, il termine libertà è riservato per indicare aspetti privati del vivere sociale, politicamente è usato per popoli privati d'identità, di propria terra, di un'organicità giuridica o statutaria, (intendendo il termine di statuto nella diretta lettura del “ poter stabilire”), per persone ristrette in prigioni o per indicare la condizione di quanti hanno vissuto o vivono nei sistemi comunisti.

Non si usa correntemente il termine di libertà parlando di lavoratori, di proletari, di donne e uomini, che vivono all’interno delle punte alte dello sviluppo o nei paesi a diretto supporto.

Solo le donne, non a caso, prima di precipitare nel silenzio odierno, dopo qualche anno di pensiero della differenza e della torsione a mio parere conservatrice della politica di genere, hanno osato riproporre, in luogo di parità e uguaglianza, la questione della libertà.

Se la libertà sottende la schiavitù, deve essere il nodo oscuro della schiavitù, che rinvia a sistemi sociali precedenti al capitalismo addirittura arcaici, la ragione per la quale il concetto di liberazione è stato inviso alla cultura novecentesca della sinistra, dei comunisti e della stessa borghesia.

L’industrializzazione, le fasi tumultuose dello sviluppo del capitale, la risposta rivoluzionaria dell’ottobre, suggerivano in luogo della libertà, altri termini e quindi altri valori, quali quelli dell'uguaglianza e della parità, già introdotti dall'illuminismo e dalla rivoluzione francese.

La borghesia, essendo realmente “l’organizzatrice storica più capace di sviluppare trasformazione ed evoluzione” ha potuto, negando la propria tirannia, includere nel suo pensiero più avanzato la questione dei diritti dei cittadini e della loro uguaglianza formale.

Il concetto di libertà non è stato del resto estraneo alla stessa cultura moderna, nel caso è stato soppiantato da tendenze prevalenti di segno diverso.

L'Europa del X1X secolo aveva pur espresso nei suoi strati più consapevoli la convinzione che il concetto di libertà era un'insopprimibile aspirazione nella storia dell'umanità, proclamò anzi una sorta di "religione della libertà" ovviamente riservata in termini preminenti ai ceti alti della società organizzati in termini politici e culturali nell'ambito laico liberale.

Ma la stessa borghesia non ha esitato a produrre fascismo e nazismo come risposta alla rivoluzione bolscevica e ai moti italiani degli anni 20, negando come primo atto il concetto di libertà, quasi si trattasse di un vezzo del quale adornarsi solo quando tutto scorre senza scosse.

Si pensi solo al discorso di Mussolini del '22, quando contro i liberali sferrò un ferocissimo attacco sulla rivista Gerarchie, proprio sul punto della libertà definendola un mezzo e non il fine per l'umanità, questione che il Principe-tiranno era autorizzato a negare e reprimere nei momenti decisivi, stravolgendo con questa lettura strumentale l'opera del Machiavelli e influenzando non poca cultura nostrana in termini tali che ci vollero le noterelle gramsciane per ripristinarne il senso.

Ma oltre a questi passaggi autoritari e drammatici della storia del novecento testimonianza del violento sovversivismo delle classi dirigenti borghesi pronto a dispiegarsi con ferocia oltre i nobili paludamenti,   l'andamento delle forze produttive novecentesco imponeva nella sostanza un asse diverso, di "controllato" allargamento delle basi democratiche formali, incompatibile con l'assunzione dei concetti di libertà/schiavitù.

La necessità di organizzare il profitto economico in termini di concentrazione di forza- lavoro imponeva piuttosto una rozza e articolata parità degli sfruttati, un livellamento che metteva in conto, pur se nulla è stato mai regalato ai proletari, una concezione del diritto e del valore del lavoro, ovviamente circoscritto e funzionale al motore economico messo in moto, non consentendosi la borghesia di abbandonare allo sviluppo casuale e spontaneo gli aspetti sovrastrutturali.

Il campo avverso, il fronte del lavoro, della sinistra, dei comunisti, alzando la testa come soggetto organizzato, stabiliva che ragionare e agire in termini di schiavitù e di libertà, era come tornare all'indietro, far perdere senso e valore al lavoro come motore attivo della contraddizione, specialmente a fronte della vittoriosa rivoluzione e delle prospettive straordinarie che questa aveva posto in essere.

Tra liberazione e uguaglianza il concetto che ha prevalso per tutto il novecento è stato quello ugualitario e paritario che i nuovi processi d'accumulazione hanno incrinato.

Oggi che stanno tornando, proprio in termini di prospettiva futura dello sviluppo e non d'arretratezza, i nuovi schiavi e le nuove schiave, legati direttamente al giogo del capitale, e che i diritti sono erosi, mentre avanzano i bisogni, vale la pena di ricordare non solo in termini libreschi che il valore massimo per Marx è, con tanta ragione, quello della libertà.

Marx pone la questione della rottura con "il regno dell'illibertà" come processo rivoluzionario principale.

La conquista insomma della libertà come atto storico e non ideale che riguarda uomini e donne che collettivamente pensano e lottano per la propria liberazione dal giogo della classe borghese. Una prospettiva, quella della libertà grandiosa e aperta che a ben vedere, tenuto conto delle contingenze della storia che non l'ha sviluppata per le ragioni accennate, confligge con il concetto d'uguaglianza e parità perché questo binomio tende, sia nel regime borghese sia nel sistema comunista, a regolare e sanzionare l'esistente, non anticipa il futuro ma tende ad imporre l'ordine prodotto mentre le dinamiche reali vanno in altre direzioni.                                                                                                                                                                                                         

Se parità e uguaglianza sono prevalse nell'apparato politico culturale del novecento, con esiti peraltro fallimentari a livello concreto, le ragioni oltre a quelle determinate dalla spinta industrialista che le ha prodotte, sono da ricercare nelle oggettive esigenze di maggiore giustizia redistributiva e giuridica determinata dalle enormi disparità e discriminazioni subite da larghe masse di lavoratori. E questa necessità è valsa, a maggior ragione, nell'ambito della oppressiva condizione femminile.

Se esiste una condizione storicamente segnata dalla illibertà nello stesso ambito delle classi subalterne, la condizione delle donne in generale e delle donne proletarie è esemplare dell'esistenza di un soggetto politico negato e disperso. Buon osservatorio quindi, quanto quello, ovviamente diverso, della realtà della forza lavoro immigrata e dell'insieme dei nuovi lavori proposti a grandi masse giovanili per comprendere la realtà odierna,

Quella del lavoro riservato alle donne è comunque la norma più consolidata che conosciamo e che meglio lega passato, presente e futuro

Lavoro sfruttato e non riconosciuto, spesso neppure nominato, senza funzione politica, estremamente adattivo e infinitamente flessibile, servile piuttosto che produttivo, lavoro che comporta l'espropriazione del proprio tempo e la sua suddivisione, lavoro senza continuità, estremamente provvisorio, precario per definizione perché soggetto alle variazioni della impresa e del suo apparato sociale di supporto, la famiglia.

Nonostante che un rilevantissimo segmento di donne siano oggi inserite a pieno titolo nell'ambito della organizzazione del lavoro fino ad ieri riservata agli uomini, che molte donne siano ormai responsabili del proprio reddito e perfino di quello familiare, nessuno può ingannarsi sul punto che il lavoro delle donne è nella sostanza considerato accessorio, non riferibile a valore o ad asse portante della società.

La storia delle donne è stata almeno per grandi linee, la storia di un soggetto invisibile a livello politico, non ha mai ottenuto riconoscimento di protagonismo nel motore produttivo. La questione delle donne proletarie, essendo queste sfruttate a livello strutturale e a livello sovrastrutturale, richiama direttamente il concetto di libertà in luogo di un'impossibile parità ed uguaglianza.

La lotta dell'emancipazione delle donne emerge come questione sociale alla fine dell’ottocento, ha attraversato tutto il 900 tra lotte per la parità, diritto di voto, alfabetizzazione, immissione massiccia nei processi produttivi, correndo però parallela ad una condizione di non libertà della propria persona perché componente non centrale nei processi produttivi ma appendice variabile, così com'è oggi delineata la contemporanea divisione del lavoro.

Esiste, inutile ribadirlo, una specificità della illibertà insita nella condizione femminile che non è riferibile ad altra condizione, il ruolo sociale che le obbliga a scegliere, in assenza di servizi di rientrare nell'ambito domestico per la cura dei figli, degli anziani, malati, etc, il loro essere poste in funzione d'ammortizzatore sociale, sfruttando perfino i sentimenti più delicati, l'uso della beatificazione salvifica o della leva dei sensi di colpa, il loro per prime non darsi valore ma trovare valore nel riconoscimento sociale, sono anelli stretti che ad oggi, pur se forzati da tante lotte, non si sono allentati, anzi, tornano a serrarsi.

Ma l'aspetto che in questa nota si vuole evidenziare è quello delle donne lavoratrici che è oggi questione centrale, anzi, emblematica, perché, fatta salva la propria specifica oppressione, sta diventando modello generale da allargare a tutti i lavoratori.

Il soggetto forte, al quale era al carro che pur trainava, è oggi ridotto alla medesima condizione riservata al lavoro femminile: svalorizzato e invisibile.

Quello che interessa ora sviluppare non è tanto il parallelo di oppressione sociale vissuta dalla componente femminile, ma piuttosto il modello d'organizzazione del lavoro, precario, adattivo, "integrato" con piccoli lavori di servizio, lavoro saltuario, fatto di prestazioni a domicilio con le nuove macchine, modalità storiche del lavoro femminile..

Il lavoro delle donne ha mantenuto, infatti, carattere di servaggio complessivo pur navigando nelle contraddizioni della modernità.

Per avvalorare quest'affermazione, basti pensare oltre alla realtà che vivono le donne del primo mondo a quella che in contemporanea subiscono in termini di lavoro femminile le donne dei paesi più espropriati e sfruttati del pianeta.

La realtà di questa condizione, può assurgere a modello e metafora delle nuove forme di sfruttamento cui pare condannata gran parte dell'umanità dei paesi ricchi.

Appare evidente come siano saltati i paradigmi d'integrazione/sviluppo, almeno quanto quelli di parità e uguaglianza per sostituirli con lotta per la libertà dallo sfruttamento senza altri aggettivi.

Come già accaduto di ribadire, la svalorizzazione del lavoro salariato non è certo la fine del lavoro, così come la svalorizzazione della forza lavoro femminile non era certo non lavoro.

E questo è evidente pensando ai paesi poveri. Già negli anni 70, l'economista Boserup dette un peso diverso al lavoro femminile portando alla luce il paradosso che pur ignorata, la funzione sociale e lavorativa delle donne reggeva l'economia di sussistenza dei paesi del Sud e la sopravvivenza d'intere popolazioni.

Insomma, il lavoro delle donne non esisteva ma senza di quello nulla si sarebbe retto, così come oggi, il lavoro è invisibile ma senza quello, oltre la finanziarizzazione, molto profitto crollerebbe.

Illuminare quest'aspetto del lavoro incessante che impegna milioni di donne sul fronte economico, e su quello relativo alla perversione del feroce  sviluppo capitalistico in termini d'alimentazione, salute, acqua, ecc., questioni tenute "fuori mercato" ma segnate dal profitto e comunque questioni dove si svolge la vita, è credo importante.

La ristrutturazione generale dei poteri e dei ruoli di pezzi di mondo vuole la femminilizzazione del lavoro e della povertà. Per dirne una, nel crocevia asiatico, il telelavoro è il simbolo della modernizzazione basata sull'assolutizzazione del doppio, triplo ruolo lavorativo che comporta adattività e flessibilità infinita, realtà ben nota alle donne proletarie e oggi sistema generale del nuovo proletariato.

Quando le macchine permisero di diminuire la forza lavoro muscolare, le donne e i ragazzi furono utilizzati, irreggimentando tutta la famiglia al dominio del capitale.

La novità che colgo nell'oggi consiste nel fatto che dal punto di vista del soggetto, tutti i proletari, compresi quanti lavorano con la conoscenza, sono ridotti alla stessa stregua, senza la gerarchia, anche positiva, di un soggetto forte che possa essere traino per l'emancipazione dei soggetti più deboli.

Arcaismo e modernità si alleano, sono la modalità dello sviluppo contemporaneo non il segno di una crisi. Torna alla mente il passo di Marx della sua lettera a Ruge, quando si afferma che non si tratta di tracciare un trattino tra passato e futuro, bensì di realizzare i pensieri del passato.

La tipologia dell'organizzazione del lavoro oggi attinge dalla miniera della sperimentazione dello

sfruttamento femminile.  Il nuovo lavoro è oggi donna.

Se si dissolvono, si recuperano e s'integrano i sistemi consolidati con il loro seguito di culture, organizzazione della realtà, si è quasi obbligati a prenderne atto e a cercarne il filo conduttore che impegna la prospettiva non attardandosi nello sgomento dell'imprendibilità del reale.

Se esiste un rivoluzionamento degli strumenti d'accumulazione che muta i rapporti sociali tradizionali, se la mobilità dei fattori produttivi impone oggi come non mai un processo cumulativo d'appropriazione, a tutto campo, tempo, corpo, conoscenza, direttamente consonante ad un approccio di nuova schiavitù, si tratta di riappropriarsi di un metodo che consenta di pensare e organizzare le azioni partendo da un'analisi condotta con occhi nuovi., riproponendo la questione della libertà e non quella della progressiva emancipazione.

Oggi il sistema produttivo e i processi di nuova accumulazione creano disuguaglianza e disparità come presupposti dello sviluppo facendo tabula rasa d'ogni presupposto di parità.

Avanzo l’ipotesi che sia adesso necessaria l’unità dei diseguali per avviare un processo rivoluzionario, in luogo della pre marxista “cospirazione degli uguali”.

Tenendo ferma, in questa fase in cui il vecchio si disintegra e il nuovo stenta a delinearsi, l'analisi non contraddetta per i marxisti, contenuta nei Grundisse su cui poggia l'analisi sul rapporto tra lavoro salariato e capitale come contraddizione insolubile.

Dove l'un termine produce e nel frattempo nega l'altro: "Il capitale si presenta come prodotto del lavoro", e "il prodotto del lavoro si presenta altresì come capitale"; ma “il capitale è lavoro (oggettivato) che si contrappone al lavoro vivo”, ed esercita un dominio, un comando sul lavoro vivo. E' il lavoro vivo che "ha dato una propria anima" al lavoro oggettivato.

Questo per dire che pur se cambia di segno e si rivoluziona, il capitale necessita del lavoro salariato e che il lavoro salariato, se riprende incidenza, in quanto si riorganizza come avversario della classe dominante, può tornare a contendere e soppiantare il profitto.

Tornare ad essere, in ultime parole, il Lato cattivo che fa la storia.

Lavorare come comunisti per concorrere a determinare questa e non altra aggregazione politica e sindacale, essere pronti a recepirne il flusso profondo e non oggi apparente, ricercare le nuove avanguardie capaci di esprimere e organizzare il nuovo soggetto che torni ad esprimere "il lato cattivo" che si muova di pari passo con l'odierno sviluppo.

Potrebbe essere una buona ragione di lavoro per quanti si pongono la questione comunista oggi.