HA ORMAI SUPERATO L'ANNO DI VITA, IL " BREVETTO NATO " DELLA " GUERRA UMANITARIA ".
di
A. Gorini
Questo tipo di brevetto, nelle volontà di chi ha
voluto omologarlo, anche se come tutti i brevetti non garantirà, nel concreto,
al suo inventore né la priorità né la privativa, dovrebbe avere davanti a sé un
lungo periodo di sfruttamento. Ed è possibile intendere l'aspettativa
dell'omologante. Non è infatti difficile prevedere che la categoria di
"guerra umanitaria", con gli attuali modelli geostrategici e gli attuali
rapporti di forza, sarà ancora utilizzata, pure se in differenti e specifiche
accezioni rispetto alla sua validazione
iniziale. Validazione iniziale che
si dette, appunto tra il marzo ed il maggio del 1999, sulla Repubblica
Federativa Juguslava (RFJ) nata dagli
Accordi di Dayton del dicembre del 1995.
La "invenzione" di " guerra
umanitaria ", una contraddizione in termini anche a livello di logica
formale, nasce e si sviluppa sia come categoria generale che come modello
operativo validato, all'interno di una situazione storicamente data, che è quella attuale. Sostanzialmente,
in questo caso, attuale sottende una
nuova forma di risposta del capitale nordamericano a concrete sfide e
necessità. Perché, a nostro parere, la "guerra umanitaria" proviene
da quella feconda e fantasiosa "scuola di pensiero" che risponde agli
interessi sussunti dalla Dottrina di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti e
non da una comune volontà del Nord, anche se a guida nordamericana, di
riorganizzare stabilmente i rapporti tra il centro e le periferie.
L'INSTABILITÀ
DELLE CONDIZIONI AL CONTORNO, OVVERO IL PASSATO RECENTE.
Non è, chiaramente, per motivi di stocastica
semantica che nel secolo scorso venne coniato il verbo
"balcanizzare". E per questo, pensiamo che sia corretto affermare che
l'unico e vero tentativo di costruire uno Stato Jugoslavo, per di più sulla
base rivoluzionaria dell'emancipazione delle classi subalterne, si dà con la
guerra di liberazione nazionale (1941-1945) contro gli invasori nazisti e
fascisti, la quale fu, come si può dedurre dalla precedente affermazione, pure
una durissima guerra civile e di classe, pagata tra l'altro dal popolo
jugoslavo con la spaventosa cifra di un milione e settecentomila morti.
F.W. Deakin, capo di una missione inglese lanciata
nel 1943 in una zona controllata dai partigiani comunisti, vedeva nei
componenti dell'Esercito Popolare di Liberazione diretto dal Partito Comunista,
l'unica realtà politico-sociale organizzata che fosse realmente jugoslava[1]
e che potesse iniziare a costruire, a liberazione avvenuta,
una nazione concreta e reale con questo nome.
Nonostante questa oggettiva valutazione di Deakin,
il quale oltre che maggiore durante la guerra era professore di Storia moderna
ad Oxford, ancora nel 1949 il
bollettino ufficiale d'informazione jugoslavo "Tanjug"[2]
dedicava nel suo intero numero di luglio un intervento del Maresciallo Tito
sulla necessità di risolvere la questione nazionale.
La citazione di questi "rilevamenti"
relativi alla problematica non risolta della questione nazionale potrebbe
continuare senza soluzione di continuità, variando solo nella densità di
distribuzione a seconda di momenti di particolare tensione, sino alla fine
degli anni Ottanta.
In questo stesso periodo, coincidente con l'inizio
della scalata al potere di Milosevic, si dà però l'avvio a mutamenti profondi
ed irreversibili della Repubblica Federale Socialista Jugoslava (RFSJ). Vengono
infatti definitivamente smantellate a partire dal livello costituzionale le
strutture della "autogestione socialista" e contemporaneamente
implementate le liberalizzazioni delle condizioni per lo stabilirsi nel paese
di imprese a capitale privato. L'effetto di queste misure politico-economiche
provoca una caduta verticale dei redditi dei lavoratori; il loro potere di acquisto
si riduce ad 1/3 rispetto a quello del 1980, l'inflazione assume valori a tre
cifre ed la disoccupazione coinvolge il
26% della popolazione attiva.
Sono così pronte le condizioni per il "si salvi
chi può". Riemergono più forti, ed ora pesantemente strumentalizzate, le
vecchie polarizzazioni nazionali e, certo in un modo non improvvisato e non
segreto, Slovenia e Croazia annunciano la loro volontà di uscire dalla RFSJ,
innescando, nella prima metà del 1991, la soluzione militare per dirimere le
divergenze antagonistiche tra dirigenti del centro e della periferia.
In questo contesto, contro le indicazioni della
Comunità Europea, la Germania, alla quale si assoceranno anche Austria e Stato
Vaticano, riconosce unilateralmente Slovenia e Croazia. Ad esse, direttamente
attraverso il confine austriaco, vengono fornite armi ed equipaggiamento
militare per sostenere la guerra contro la RFSJ.
Asserire che questo atto unilaterale, atto illegale
fatto ai danni di uno Stato sovrano internazionalmente riconosciuto ed
appartenente al Gruppo dei non allineati, non
abbia fortemente ipotecato la direzione dello sviluppo della crisi
Jugoslava, come tra i molti dicono anche Conversi ed Avramovic[3],
sembra eccessivamente, e sospettosamente, ingenuo. Le responsabilità del capitale
tedesco, che voleva garantirsi una penetrazione rapida e possibilmente la più
esclusiva possibile, nella ex Jugoslavia sono comparabili, normalizzando il
periodo e l'allora potenza d'intervento tedesca, con le misure che ha ritenuto necessarie prendere nel 1999
l'imperialismo nordamericano.
REPUBBLICA FEDERATIVA
JUGOSLAVA REPUBBLICHE Superficie Popolazione (Capitali
abitanti) km² 1.SERBIA 56.000 5.800.000 (Belgrado 1.200.00) Kosovo (A) (Pristina
155.500) 10.800 2.151.000 Vojvodina (A) (Novi Sad 180.000) 21.500 1.983.000 SERBIA
CON
TERRITORI
AUTONOMI (A).….88.300
9.934.000 2.MONTENEGRO
13.800 640.000 (Podgorica 117.900) RFJ
(Belgrado)……102.100
10.574.000
LE DINAMICHE
COMPLESSIVE:
¨ NELLA
REPUBBLICA FEDERATI-
VA JUGOSLAVA.
La
criminale aggressione della
NATO
alla Repubblica
Federativa Jugoslava
(RFJ), aggressione di fatto
concentrata
sulla Repubblica
di Serbia che ha patito
ufficialmente
la perdita di duemila civili
e di quattrocento militari a causa dei bom-
bardamenti, è venuta realizzandosi in una
situazione complessiva già particolarmen-
te grave per la RFJ.
Dobbiamo infatti ricordare che, da tempo,
l'FMI e la BM non intrattengono più nes-
suna relazione con Belgrado che si trova
anche sospesa dall'Organizzazione Mon-
diale del Commercio (WTO), con il con-
seguente isolamento dagli scambi dei mercati
mondiali.
Le ulteriori sanzioni legate all'aggressione del
1999, ovvero divieto d'investimenti,
sospensione delle forniture
petrolifere ed embargo dei voli di linea (quest'ultimo recentemente
cancellato), cadono dunque in una situazione quasi collassata. E questo quadro
va ulteriormente integrato con l'impatto distruttivo, diretto ed indiretto, che
i bombardamenti hanno provocato.
Una visione molto semplicistica del costo di questa
conoscenza diretta delle democrazie occidentali da parte del popolo della RFJ è
la seguente:
I danni economici
vivi, che
dipendono evidentemente dai risultati dei 79 giorni di massicci bombardamenti,
una media di 455 raid giornalieri, che hanno distrutto la maggioranza delle
principali industrie e lo scheletro
infrastrutturale del paese, hanno un valore approssimato di trentacinque miliardi di Euro[4].
I danni
sociali indotti, anche se difficilmente quantificabili, hanno criminalmente ridotto la
qualità di vita della gente jugoslava. Per le classi subalterne, oltre
all'aumento della disoccupazione e delle "ferie forzate", il PIL/ab è
ora valutato a meno di 300 U$ (nel 1989
era di 3.000 U$), il che significa pesantissime difficoltà per garantirsi
nutrizione, abbigliamento e riscaldamento, del resto già problematico per la
distruzione delle principali centrali elettriche e per l'embargo petrolifero.
Contemporaneamente la caduta verticale di tutti gli indici legati alla qualità
ed alla quantità delle prestazioni dello stato sociale (salute, previdenza,
istruzione), sposta su limiti di rottura la tenuta delle famiglie proletarie.
Anche i danni
ambientali, che certamente non si fermeranno né alla Serbia né alla ex
Jugoslavia, sono di dimensioni enormi. Una loro analisi, doverosa per altro,
esula però dalle possibilità di questa comunicazione. Solo il caso di sottolineare
come una conseguenza, già in atto, della guerra, imputabile alla distruzione
delle centrali elettriche, delle raffinerie e all'embargo sul petrolio, sia
l'enorme incremento dell'abbattimento
degli alberi. Il livello quantitativo di abbattimento provocherà la
devastazione dell'ecosistema delle foreste e l'erosione del suolo.
I rischi futuri, di fatto certi (ciò che si ignora
attualmente è la loro manifestazione quantitativa), sono pesantissimi sia sul
piano ambientale che ecologico. I residui radioattivi rilasciati dai proiettili
all'uranio impoverito della NATO ed il materiale tossico e cancerogeno emesso a
causa delle distruzioni dei depositi dei complessi industriali ed in special
modo di quelli petrolchimici di Pancevo e Prahovo, rispettivamente ubicati alla
periferia di Belgrado ed al confine con la Bulgaria, causeranno:
-effetti
negativi al momento della riproduzione della flora e della fauna, per i danni
fisici all'habitat ed alle popolazioni derivanti da alcuni tipi di
contaminazione chimiche (a rischio alcune delle specie migratorie tra le più
rare in Jugoslavia);
-
contaminazione dei cibi, con conseguenze per la salute umana, derivanti dall'accumulazione di materiale tossico e
cancerogeno nel suolo e nei diversi stoccaggi attivi e passivi;
-effetti
cronici di differente pericolosità
sulla salute umana derivanti da inquinamento provocato da molte delle
componenti tossiche rilasciate, essendo tra esse forse il più pericoloso
l'uranio impoverito. Nel concreto,
alcuni degli effetti saranno: aborti, difetti di nascita, danni mortali
al sistema nervoso ed al fegato. Comunque nei loro aspetti più generali gli
effetti del bombardamento delle industrie jugoslave rappresentano un serio
rischio sia a livello locale che regionale per la saluta umana a lungo termine[5].
In questo
catastrofico quadro vengono ad inserirsi due
altri fattori negativi, in parte prevedibili, i cui effetti si faranno
sentire anche in futuro, ovvero:
-
Il
primo fattore è rappresentato dal forte peggioramento delle relazioni tra le
due Repubbliche di Serbia e del Montenegro,
che fa prevedere, ad analisti di differenti schieramenti che vanno dalle
differenti Istituzioni dell'Unione Europea alle varie Ongs in loco, la
possibilità di un conflitto militare, le cui cause sarebbero da ricercare nella
volontà di una parte della classe dirigente montenegrina, rappresentata dal Presidente del Montenegro
Milo Djukanovic, di separare il loro destino da quello della Serbia. La
secessione dalla RFJ permetterebbe al Montenegro, anche appoggiandosi
sull'Italia e sugli Stati Uniti, di aggirare o di cancellare le sanzioni e
l'isolamento in atto attrezzandosi, contemporaneamente, a paradiso fiscale
sulle sponde dell'Adriatico.
-
Il
secondo fattore è rappresentato dalle penetrazione nella RFJ ed in particolare
in Serbia, di vettori di "democratizzazione" quali l'USAID, la
Fondazione Soros[6] e le
differenti Ongs i quali praticano una cooperazione economica/progettuale
fondata sulla discriminazione ideologica e politica, in una situazione
complessiva di forte e generalizzata miseria.
Si deve purtroppo prendere atto che l'esistenza di
questi due fattori incrementano le difficoltà di un attestamento significativo
della resistenza di classe.
Nello scenario sinteticamente ora descritto, con
l'impegno di continuare ed aumentare la solidarietà, che dovrà concretizzarsi
in differenti settori, con il popolo jugoslavo e le sue Organizzazioni, occorre
però avere chiaro che l'attuale Repubblica Federativa Jugoslava (RFJ) non può essere vista come un saliente il quale, messosi a difesa
circolare, stia bloccando con la sua resistenza l'applicazione del modello di
globalizzazione impedendo la realizzazione dei progetti imperialisti. Né
potrebbe, comunque, esserlo.
Anche per quanto prima detto, sulla cancellazione irreversibile
delle strutture legali e produttive non compatibili con la presente fase
capitalistica, si deriva che non è sulla linea di difesa degli interessi di
classe che la RFJ ha rifiutato inizialmente, cioè prima dei bombardamenti, di
firmare gli "Accordi" di Rambouillet.
La RFJ si è invece mossa sulla linea della difesa
della sovranità nazionale, comunque giusta, sinergizzata dalla categoria di
"appartenenza serba", cosa che sinora ha funzionato, almeno come
collante passivo, sulla maggioranza delle classi subalterne della RFJ.
¨ NELLA NATO.
La NATO, ad
assoluto controllo statunitense, ha comunque sofferto di incongruenze e
contraddizioni che avrebbero potuto essere per lei laceranti.
Continuare i bombardamenti, oppure fermarli come
manifestazione di buona volontà, nonostante che il piano militare messo appunto
ed approvato con convinzione da tutti i 19 componenti l'alleanza nell'ottobre
del 1998, non ne prevedesse l'interruzione.
Utilizzare solo i bombardamenti od iniziare anche
una invasione terrestre totale, come anche proponeva il Capo militare della
Nato, il generale tedesco Klaus Neumann.
E così via, con le possibili differenti combinazioni
rispetto ai gradienti, positivi o negativi, d'intervento militare..
Sta di fatto che il vicesegretario di Stato
nordamericano Strobe Talbott, ha detto alla BBC che "i rapporti
all'interno della NATO si erano fatti sempre più complicati e sarebbe stato
difficile preservare l'alleanza se Slobodan Milosevic non si fosse arreso il 3
giugno".
Ma gli Stati Uniti hanno fatto mentre gli europei
dicevano.
Ed è interessante sottolineare come la "intransigenza" finale
manifestata dagli statunitensi in
Europa si trasformi, al contrario, nella ricerca di una cogestione, di una
condivisione dei "problemi" presenti o potenziali presenti nel
continente Latino Americano dove essi assumono la decisione di ricercare
"spregiudicatamente" la pace sociale in funzione delle mutate
necessità egemoniche del loro capitale.
Nei Balcani, quindi, la linea di utilizzare la
"dialettica" dei bombardieri
e delle occupazioni militari, è per gli Stati Uniti lo strumento che dovrebbe fare di loro chi deciderà della stabilità o
instabilità dell'area, con le conseguenze che ne derivano.
¨ I RIFLESSI IN
ITALIA.
In Italia, il passato monarchico e fascista delle
classi dirigenti non si è certo cancellato nel cuore del capitale italiano.
L'Albania, la Macedonia, il Kosovo, la Slovenia fanno parte di questo recente
passato. Come non ricordare che in Macedonia, quasi feudo della casa Savoia,
gli italiani ebbero il monopolio sulla coltivazione del tabacco. Forse saranno
stati anche questi nostalgici
ricordi ad aver indotto le istituzioni italiane ad assumere il necessario alto profilo che si è concretizzato con
l'invio di 4.200 militari come forza d'occupazione in Kosovo (il secondo
contingente in grandezza, dopo quello statunitense).
Ma oltre ad una attenzione verso l'alto profilo
militare da impiegare, peraltro insoddisfacente secondo alcuni alti ufficiali
(lamentele che sono costate il posto al generale Mazzaroli, numero due, sino
alla sua rimozione avvenuta alla fine di febbraio, della KFOR), ve ne è pure
un'altra verso la penetrazione delle imprese e degli interessi economici
italiani. Questo lo ha estremamente chiaro Umberto Ranieri sottosegretario agli
Esteri, che dà per scontata una futura forte presenza del capitale italiano nel
Kosovo e dintorni. Per fissare sul terreno da ricolonizzare, industria,
energia, comunicazioni e finanza vi sarà quasi certamente anche una legge
specifica, finalizzata.
LA ROTTURA
DELLA LEGALITÁ OPERATA IN EUROPA: UNA CONTRADDIZIONE DA SVILUPPARE.
Ma, come c'era da aspettarsi, dalle illegali
decisioni e dai criminali fatti precedentemente descritti, nonostante la
disperata ricerca di consenso, sono scaturiti alcuni "danni" per i
manovratori.
I "danni" hanno però imboccato il percorso
della rottura.
Questa rottura ha interessato praticamente tutta
l'Europa "socialdemocratica". Ed ha significato, al di là delle
violazioni delle regole assunte/imposte (Costituzioni e Leggi) per garantire
una pace sociale, l'innesco di conseguenze che dovranno essere sviluppate con
l'obiettivo de farle prendere corpo in un futuro di breve periodo.
Queste conseguenze sono, come nucleo, le
cancellazioni di un "patto", e di una "delega" che una
forte percentuale delle classi subalterne aveva accordato con gli eredi delle
sinistre istituzionali.
È certo un
fatto che questi accordi, anche se non ben definiti, evitanti accuratamente la
discussione dei problemi quantitativi legati alla distribuzione dei consumi e
dei limiti ecologici dell'utilizzo delle risorse naturali, proiettavano la
riscoperta della faccia umana del capitalismo sostenendo di conseguenza la sua
riformabilità e la sua viabilità come
progetto globale, virtuale antitesi di quella "guerra umanitaria"
che è stata poi una tra le poche realizzazioni unitarie e concrete, come
serietà di assunzione e di futura sostenibilità, della politica d'intervento
dell'Unione Europea dentro e fuori dei propri confini.
È certo un fatto che pur in presenza di forti
contraddizioni interne alla NATO, dovute all'evidente illegalità della
decisione di bombardare la Serbia, decisione violatoria anche degli articoli
fondanti lo stesso Patto Atlantico, la "socialdemocrazia" europea
abbia deciso di non risolverle, puntando tutto, al contrario, sulla ricerca del
consenso dei propri governati.
Siamo stati dunque magicamente riportati ai sogni
della "trinità" clausewitziana di:
"popolo, esercito e governo". Resta l'evidenza che le numerose
"trinità" europee non hanno risolto il problema per le quali erano
state opportunisticamente evocate, ovvero essenzialmente per
"assicurare" la caduta "dell'Hitler - Milosevic" (un po'
prima era solo Milosevic ed anche "garante della pace e della stabilità
dei Balcani") e dell'esportazione, conseguente, della
"democrazia" nel Kosovo e nella RFJ.
È questo che fa gridare alle differenti Ongs che "la guerra ha fallito". Ma
questa è una rappresentazione già conosciuta.
In Italia la rottura, anche formale, si è consumata
sul "patto" legale e sociale di maggiore valenza. Si è cioè
manifestata nello stracciamento della nostra Costituzione, in particolare del
suo Articolo 11. Secondariamente, nell'evasione dell'applicazione degli Accordi
di Ginevra firmati dal nostro paese (come dalla stragrande maggioranza della
comunità internazionale e certamente da tutti i paesi NATO)[7].
Ed a questo proposito, le dichiarazioni del sottosegretario alla Difesa, Paolo
Guerrini,[8]
sulla compatibilità e liceità dell'uso dei proiettili all'uranio sparati un po'
dappertutto in Serbia (si e visto sopra cosa ne pensano altri tecnici
"borghesi" su questo problema), offrono un campione significativo di
come la maggioranza della sinistra istituzionale italiana abbia fatto fronte
alla soluzione delle contraddizioni che un capitalismo dal volto "non
umano" le poneva.
La lezione fornitaci dall'Europa
"socialdemocratica" sulla scommessa di essere portatrice di una
diversità capitalistica, e pagata per ora dalle sofferenze e dal sangue della
popolazione serba, è esaustiva. Le contraddizioni innescate dalla rottura della
legalità e dei patti, possono aprire una crescita della solidarietà
internazionale di classe e quagliare le differenti soggettività per dibattere e
sintetizzare anche operativamente gli strumenti necessari a svilupparla.
[1] F.W.D. Deakin: " La montagna più alta. L'epopea dell'Esercito Partigiano Jugoslavo". (Einaudi)
[2] Tanjug - Notizie dalla Jugoslavia. 11 - 27 luglio 1949
[3] Daniele Conversi "German
Bashing and the Breakup of Yugoslavia" - marzo 1998;
Predrag Avramovic "Germany, Britain and the Recognition of the Former Yugoslav Republics: a Liberal Intergovernmentalist Approach" - 1998.
[4] fonte:Programma di ricostruzione. ICE - aprile 2000
[5] fonte danni sociali e ambientali: Yugoslavia Report
[6] La Fondazione Soros è presente anche in Centro America dove opera a parametri "invertiti"
[7] "Articolo 11: L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo."
Per ciò che riguarda gli Accordi di Ginevra, ci si riferisce, in questo caso, a 4 Convenzioni e 2 Protocolli Aggiuntivi che definiscono i limiti dei conflitti armati di qualunque tipo rispetto alla scelta ed all'uso delle armi e degli obiettivi da colpire.
[8] Corriere della Sera dell'11 marzo 2000