HAIDER.: LA DESTRA E LA POLITICA IERI E OGGI

Paolo Gentile

 

Il governatore della Carinzia H. Haider entra a far parte del governo austriaco. Non si può rimanere indifferenti a un simile avvenimento, soprattutto per chi, come molti di noi, ha fatto dell’antifascismo e dell’antifascismo militante una cultura che ha attraversato l’intero percorso individuale.

D’altro canto, però, non possiamo fermarci a una riflessione, comunque importante, che si limiti ad indicare come di consueto  quello stato di degrado dei tempi che ha devastato ogni forma di cultura antagonista e, quindi, di cultura antifascista in generale.

L’avvenimento, come era prevedibile,  ha immediatamente sollevato polemiche tra le compagini   politiche europee e gli organi centrali dell’UE, soprattutto a partire dalla spinta che  aree sociali e politiche, collocate nell’ambito di una sinistra in parte antagonista e in parte no, hanno dato. 

Per molti è stata la conferma di un andamento politico interno ed esterno all’UE che riproporrebbe il rischio di un ritorno delle destre xenofobe e razziste alla ribalta della politica internazionale, con le conseguenze che possiamo immaginare. Si tratta, indubbiamente, di una tendenza in atto nella quale, però, non va vista - si ritiene - una vera e propria possibilità di deviazione  interna agli attuali assetti del capitalismo, quanto una linea di tendenza della cultura di questo capitale sicuramente interna all’attuale stato delle cose ma con possibilità di deviazioni e enfatizzazioni da parte di gruppi o compagini sociali che non risultano centrali al modo di essere del capitale oggi. Soprattutto, per quanto riguarda una capacità di gestione interna al capitale stesso; come giustamente scrive Cararo su questo giornale a proposito di xenofobia e razzismo, Haider non è meno xenofobo di coloro che hanno firmato il  Trattato di Schengen sull’immigrazione.

Non si tratta soltanto di dire come certe linee di tendenza siano molto più interne al capitale di quanto sembri ma piuttosto, e soprattutto, di quanto siano scienza di questo capitale tradotta in ideologia e non disponibile ad essere supporto teorico di  rigurgiti neonazisti tranne che per quanto riguarda i comportamenti di alcuni gruppi in Germania o in Inghilterra i quali, per quanto possano essere deprecabili, non  sono comunque comportamenti in grado di diventare movimenti come furono quelli di Hitler e Mussolini, se non altro perché bisogna chiedersi chi in questo contesto sia disponibile a suffragare economicamente tali istanze.

In sostanza, non si vuole affermare che si tratta di  abbassare la guardia su questioni rilevanti come l’antifascismo e la cultura antifascista proveniente dalla lotta partigiana - in tale cultura è  cresciuta nella seconda metà del ‘900 più di una generazione di comunisti - quanto piuttosto di osservare (uno studio accurato di tipo storico-logico non può essere affrontato in questa sede) in che rapporto si muovono, soprattutto per quanto riguarda il ‘900, sistemi totalitari e rapporti di produzione, in riferimento soprattutto all’aspetto della rappresentanza e inquadrando la questione nella crisi più generale della politica degli stati nazionali in quanto essi stessi espressione della politica.

Se riconosciamo come ormai palesemente in atto una crisi cronica del pensare e del fare politica a fronte di una prevalenza del Mercato e della Moneta, perché anche le Destre in quanto espressioni “politiche” sarebbero esenti dalla inutilità dell’essere in quanto Destra, ordinamento, istituzioni, spazio pubblico o meglio spazio della politica?

Non è possibile che il tipo di cambiamenti avvenuti nel modo di produrre la ricchezza e di distribuirla nel momento in cui mette in crisi le élites politiche tradizionali, le compagini socialdemocratiche, le quali dipendono sempre di più dalle istituzioni monetarie centrali, non dovrebbe mettere in crisi per gli stessi motivi anche le nascenti volontà politiche di Destra? In sostanza, non potrebbe essere arrivato il momento di pensare ad una analisi più attenta del mercato e dei suoi meccanismi di dissoluzione del soggetto antagonista e della cultura politica in generale e di come questi nuovi meccanismi funzionano?

Apro una piccola parentesi. A proposito delle ultime elezioni vinte da Berlusconi, Revelli su Liberazione, pochi giorni dopo, osservava come si fosse ormai arrivati alla fine di un ciclo storico, nel senso che D’Alema e i partiti che hanno sostenuto il suo governo, a prescindere dalle scelte oggettive, si vengono a costituire, a fronte di un evento elettorale, in quanto ceto “politico”. E’ appunto la crisi del concetto e della prassi di ceto politico che Revelli mette in luce di fronte alla preponderanza delle leggi di mercato e alla potenza mediatica del capitale. Le masse, atomizzate dentro il circolo chiuso dell’individualità, non si rivolgono più a un ceto politico in quanto trasmettono ad esso una volontà politica la quale diverrebbe poi prassi di governo in grado di garantire diritti “universali”. Tutt’altro. Il voto di massa si rivolge al partito azienda di Berlusconi il quale non esprime alcun ceto politico, di nessuna levatura né culturale né morale ma, viceversa, è una semplice compagine sociale o una delle piccole o grandi oligarchie -  centri di potere - costituite da individui i cui interessi, momentaneamente, coincidono ma sono sicuramente scevri da ogni forma di progettualità politica.

Il quadro intermedio di Forza Italia, infatti, ha tutta l’aria di una riesumazione del vecchio sottobosco democristiano ma con più qualità formale e sostanziale e quindi un aggregato in grado di muovere, stimolare, coordinare interessi sicuramente di tipo economico inerenti la posizione di enti o gruppi nel mercato. Un percorso inverso a quello che abbiamo sempre conosciuto e cioè un ceto politico, o comunque una élite, che in quanto concrezione politica è espressione di una natura sociale intrinseca di più individui e la rappresenta nelle sedi opportune.

L’espressione politica di un essere sociale comunque esistente e non necessariamente condivisibile  nella sua definizione sembra dissolversi come prassi di governo - comunque separata - a fronte di una condizione che impone agli individui l’espressione di se stessi in quanto cultura, comportamenti, in un’astrazione molto più alienata e lontana da loro stessi di quanto non lo sia stata la politica. E cioè il denaro, la massima espressione dell’astrazione capitalistica e quindi elemento - più forte - di una falsa coesione.

Nel mercato gli individui si presentano non per come realmente sono, e cioè venditori della loro forza lavoro, per un verso,  compratori di forza lavoro, per altro verso e, quindi, suscettibili di riconoscersi in quanto classi - l’una contro l’altra - ma come semplici venditori e compratori di merci; ed oggi, pur in presenza di una società  fortemente complessificata, tale condizione permane come passaggio principale di lettura del reale, in altra epoca molto più nitido, ora molto meno visibile. Si tratta di una differenza che genera conflittualità, perenne e ineliminabile pur se collocata in una evoluzione storica.

D’altro canto, l’atomizzazione imposta dal Mercato dissolve ogni legame relazionale costringendo ogni individuo in uno spazio preciso e invalicabile, ostacolato nella relazione con l’altro dalla presenza della merce o del danaro: si tratta, tuttavia, di una microatomizzazione che si sviluppa lungo la storia e l’evoluzione del mercato capitalistico il quale modifica lentamente le antiche forme comunitarie.

Quando i residui ancora forti di  cultura contadina si incontrano nello spazio della città industriale di fine ottocento e inizio novecento sia il riconoscersi come classe dentro il nuovo modo di produrre (I rivoluzione industriale) sia il conseguente comporsi nella lotta di un forte sentimento antagonista faranno scaturire battaglie sociali di straordinaria importanza ma, contemporaneamente, anche una repressione di inaudita violenza da parte dello stato liberale ottocentesco. Nel 1898 a Milano scoppia la rivolta  per il rincaro del pane (Del Carria) che coinvolge gran parte del proletariato cittadino. Il generale Bava Beccaris spara con i cannoni sulla folla causando un centinaio di morti.

Lo scontro tra lo stato liberale e il proletariato nascente nelle città industriali in formazione è di una violenza inenarrabile - e purtroppo non adeguatamente documentata negli attuali libri di storia.

E’ sicuramente paradossale il fatto che quel tipo di stato, dove la mediazione del conflitto sociale è pressoché inesistente, venga a costituirsi oggi come l’esempio più valido per comprendere il tipo di regressione in atto dal cosiddetto stato democratico parlamentare moderno a quello ottocentesco in quanto semplice garante delle leggi del mercato. Il che è vero: c’è in atto una regressione a una forma stato in quanto semplice garante delle leggi del mercato se non altro perché lo stato liberale ottocentesco mancante del suffragio universale non era certo lo stato di tutti i cittadini ma con la differenza che se quello stato non era in grado di assorbire attraverso la mediazione il conflitto sociale questo tipo di stato sembra invece in grado di produrla nonostante un evidente svuotamento di quei principi universali inerenti i diritti della collettività propri dello stato in generale.

Nell’arco dell’evoluzione storica delle forme statuali, dalla fine dell’ ’800 ad oggi,  sembra di poter leggere una tendenza dello stato che, oltre ad essere strumento di legiferazione e di ordine sociale in funzione di determinati interessi dovuti alla necessità di un buon funzionamento del mercato, deve sussumere al suo interno una società solcata da conflitti (conflitti che continuano a permanere nella realtà concreta dei rapporti sociali), cioè una società astratta non reale, quindi un’idea di società,  una “società ideale” opposta a quella reale, storicamente determinata e permeata al suo interno da conflitti irriducibili.

E’ la società dei cittadini che ritroviamo contenuta nel cielo astratto della Politica e dello stato;  quella di cittadino è una categoria astratta che atomizza gli individui e li contrappone in una falsa conflittualità, quella tra semplici compratori e venditori di merci estraniati dallo loro concreta realtà di proprietari dei mezzi di produzione e proprietari della loro forza lavoro.

Tale condizione, però, non si limita a una semplice atomizzazione ma produce in realtà altro, cioè produce una vera realtà alienata, l’individuo si vive come cittadino attuando una prassi conseguente di comportamenti, di costumi, di relazioni, ecc.

Durante tutto il ‘900 la necessità da parte dello stato di mediare la conflittualità di massa assume forme e contenuti diversi secondo i tempi di maturazione della conflittualità sociale ma anche secondo le esigenze del capitale in riferimento, soprattutto, alle forme di massificazione che le classi diseredate assumono dentro la produzione capitalistica.

Tornando al nostro discorso su fascismi e nazismi, ad esempio in Italia si registra prima dell’avvento del fascismo una notevole crescita del movimento operaio organizzato. Lo sviluppo della grande industria ha ormai partorito in forma massificata, quella che abbiamo sempre definito la classe operaia, la cui condizione prioritaria di coesione è dovuta proprio al suo strutturarsi dentro l’industria in forma, come sappiamo da Marx, di cooperazione interna alla singola fabbrica.

Il fascismo non è stato soltanto - come ben sappiamo - violenza sulla classe, olio di ricino, manganello, ecc. ma anche, sul piano politico, un nuovo stato dei padroni (agrari e industriali del nord). Un tipo di stato forte, neocorporato e organicista in grado di contenere al suo interno la modesta complessità delle corporazioni in una struttura organica, quindi coesa. Tutto ciò è politica, politica nel senso pieno del concetto e, quindi, cultura e ideologia. Lo stato fascista è uno stato all’interno del quale la borghesia riesce a contenere per lungo tempo il conflitto sociale in un blocco monolitico e unidimensionale, indispensabile in quella fase storica di grande cambiamento nella base tecnica della produzione. Con il fascismo si inaugura nel nostro paese la fase fordista-taylorista già in atto negli Stati Uniti, coadiuvata dal protezionismo economico tipico degli stati totalitari. L’aspetto prevalente però è, a nostro avviso, il contenimento dentro una condizione politico-statuale di quella classe operaia fordista la quale avrà bisogno di circa vent’anni per ritrovare nel concreto, e cioè  al di qua di una falsa coscienza fascista, una sua identità.

Il fascismo è un grande apparato ideologico culturale che funziona per molto tempo anche bene dando senso e cittadinanza, quindi identità, all’individuo isolato; le grandi adunate di grandi masse serializzate e unificate dall’esterno (dall’ideologia e dal duce) e non dal concreto-quotidiano sono formidabili momenti di coesione “forzata” e di  alienazione di ogni singolo “sé” in una forma astratta; infatti, il fascismo produce cultura del quotidiano, comportamenti, linguaggi,  c’è un essere ma anche un pensare fascista e un vivere da fascista che danno identità e senso all’esistenza del cittadino-lavoratore il quale, altrimenti, si troverebbe, fuori da una falsa identità, a dover riconoscere il suo stato di diseredato e sfruttato.

La camicia nera non è importante solo se indossata nelle grandi adunate ma anche, e forse soprattutto, quando è riposta nell’armadio in attesa di essere usata; quella camicia nera è una piccola porzione di stato fascista che interviene nel quotidiano dando senso di appartenenza all’esistenza individuale.

Anche oggi quando la televisione entra nelle case, con le trasmissioni che pongono i telespettatori in diretta con l’istituzione oppure con la struttura pubblica, si instaura un meccanismo finalizzato a conferire  senso di appartenenza.

Nel secondo dopoguerra l’avvenuto sviluppo delle forze produttive, quindi la necessità di produrre maggiori quantità di merci per una società di massa  molto più complessa della società fascista, pone alla grande e ormai imponente fabbrica fordista la necessità di mediazioni istituzionali più complesse della semplice organicità corporativa; i gruppi sociali si amplificano e si diversificano per censo e per collocazione lavorativa dando luogo a una società molto più articolata e molto più difficile da controllare all’interno di un blocco statuale unidimensionale. Il destino del fascismo è già segnato dai possibili sviluppi del fordismo.

Le esigenze di mediazione e di contenimento del sociale si complessificano; è interessante ricordare come alla stesura della Costituzione la democrazia cristiana si presentò con un suo progetto di assetto istituzionale estremamente attento all’evolversi della società. I punti di aggregazione, diceva il progetto, devono essere le società naturali, anzitutto la famiglia, quindi  le aggregazioni territoriali minori come il Comune. E’ importante aggiungere che si proponeva una rappresentanza territoriale costituita dai capifamiglia, e cioè una necessità di articolazione dello stato e, quindi, di rappresentanza e mediazione all’interno di una sfera decisamente privata; ovviamente, in questa nuova situazione  la camicia nera nell’armadio non bastava più, era necessario un sistema più complesso che, mantenendo al suo interno una buona organicità, risultasse più rispondente al nuovo configurarsi della società e della produzione. Nascerà, infatti, quello che si è voluto definire molto sinteticamente il sistema dei partiti, durato fino a pochi anni fa.

Attraverso quel tipo di sistema un partito come la democrazia cristiana (già al suo interno strutturato in correnti)  riuscirà a governare per 40 anni il nostro paese  dando comunque senso e  consistenza ad una certa idea di stato e di politica e ponendosi quindi come ceto politico; un tipo di ceto politico estremamente solido, capace di rappresentare le varie facce dell’industria grande, media, di stato, multinazionale, capace dei più azzardati trasformismi di fronte all’evolversi dei poteri nell’industria medesima. E’ indubitabile che un ruolo di questo tipo, configuratosi nell’arco di circa quarant’anni di governo, non si estingue per colpa di tangentopoli, ma per il consumarsi di un ciclo storico del capitale nel nostro paese e del modo di essere dello stato rispetto alla produzione.

Nel 1980, quando si tocca con mano la definitiva sconfitta operaia davanti ai cancelli della Fiat,  è ormai chiaro che a decidere la politica economica non è più lo stato keynesiano e interventista ma  i consigli di amministrazione delle grandi aziende.

Attraverso il sistema dei partiti quel tipo di stato keynesiano e interventista si era configurato come stato rappresentativo di tutta la società, delle fasce deboli come di quelle forti, e l’emarginazione politica così come l’astensionismo elettorale si erano ridotti al limite. 

E’ uno stato  che produce anche cultura politica - nel bene come, soprattutto, nel male -, cultura di governo, cultura del progetto, cultura di élites politiche. Per un verso, esso diviene elemento di regolazione interna al processo di accumulazione capitalistica attenuando la concorrenza interna di mercato al fine di prevenire le crisi economiche, pianificare la massa dei lavoratori di fronte alla casualità del mercato, razionalizzando occupazione e disoccupazione con una tendenza verso la piena occupazione; per altro verso, favorisce la sussunzione/rappresentanza dei gruppi sociali all’interno di un sistema di partiti caratterizzato nel senso del pluralismo e della concorrenza, dove in realtà pluralismo democratico e concorrenza non sono  prassi reale, cioè il senso proprio dello stato dei partiti, ma mezzi attraverso i quali, con l’aiuto della nascente televisione pubblica, un sistema più complesso dello stato fascista media e sussume al suo interno la variegata conflittualità sociale dando, ovviamente, la preferenza a quel tipo di conflittualità di stampo più “radicale” che strutturale, e cioè legata ai rapporti di produzione. E’ questo un momento particolare della storia del ‘900. La politica è all’ordine del giorno, informa e forma di sé l’intero arco della vita, si fa politica ogni giorno e a tutti i livelli nei luoghi di lavoro, nei quartieri, nelle scuole. La politica è la cultura dominante in generale, si esprime in linguaggi, in comportamenti, realizza identità le quali in parte sono ancora una volta forme di alienazione. Anche qui ritroviamo il cittadino; questa volta, però, il cittadino democratico che, presente nel comitato di quartiere, propende all’osservanza delle leggi  e alla convivenza civile, ma non c’è dubbio che si vede anche il conflitto reale, quello di classe: operai, impiegati, occupanti di case che ritrovano nella lotta politica quella cultura necessaria a prendere coscienza di sé e di un destino migliorabile.

Il consumo lento e graduale della consistenza teorica e culturale di un fare e pensare politico che si esprime nello stato dei partiti è indubbiamente legato non tanto alla fine delle grandi narrazioni quanto all’esautorarsi nel campo dell’ideologia del concetto stesso di politica e di statualità in quanto “culture” necessarie non solo alla regolamentazione dei rapporti tra gli individui ma anche, e soprattutto, in quanto strumenti necessari al cambiamento.

Il riaffermarsi perentorio di un nuovo capitalismo pone il capitalismo stesso nelle condizioni dell’essere concepito in quanto valore universale e non più strutturazione della società che i valori universali deve governare e modificare.

In un certo senso è il capitale medesimo che sembra non avere più sostegno dall’ideologia dopo averne abusato funzionalizzando comparti dell’ideologia a un’idea di stato di cui aveva bisogno per la sua crescita ma anche, e soprattutto, funzionalizzando quei comparti nel loro aspetto di concrezione di culture a momenti di attribuzione di senso al suo nascere e crescere; oggi se ne disfa non potendone più controllare lo sviluppo e l’evoluzione. E’ ovvio che della cultura e della scienza ci si può appropriare ma dei mezzi di produzione no.

Quindi è il capitale stesso che istituisce e si istituisce in quanto soggetto in quel delicato rapporto tra poteri e saperi che aveva informato la nascita degli stati nazionali.

E’ il capitale stesso che si istituisce a momento di sintesi di scienza e produzione e ciò gli è reso possibile dall’immane quantità di denaro di cui dispone. Tale capitale non deve più scendere a patti con l’ideologia e con  la cultura informandole di sé e funzionalizzandole a sé.

L’enorme sconvolgimento che ha prodotto la rivoluzione informatica è specificatamente questo: la possibilità per il capitale di possedere macchine complicatissime e costosissime con le quali pianificare la sua produzione ma attraverso le quali produrre nell’immaginario collettivo una nuova variante dei valori universali senza fare più ricorso alla politica e agli stati.

Grandiosi centri di calcolo disseminati nelle zone più sviluppate del pianeta producono una nuova cultura della produzione ma è l’aspetto gestione/informatizzazione dei processi produttivi che prevale di fronte alla vecchia cultura del lavoro organizzativa e militarista (la fabbrica fordista funziona  sull’esempio della caserma). Pertanto, ciò che fa nascere una nuova cultura del vivere è questa ormai avvenuta congiunzione - nelle punte alte della produzione - tra capitale fisso e scienza.  L’alienazione delle coscienze non si esprime più in categorie come quella del cittadino - momento cruciale di una cittadinanza ormai in crisi - ma in un concepimento delle tecnologie operanti come status vitae, condizione dell’esistere immodificabile e irrinunciabile. In questo nuovo contesto l’impresa non ha più bisogno della struttura istituzionale – come ne ha avuto bisogno in epoche precedenti -  per nullificare il conflitto che ancora permane al suo interno e per dare attribuzione di senso alla sua esistenza di impresa.

Il nuovo paradigma è quello di un’impresa che  utilizza gli ultimi residui di stato come garanzia della sua esistenza e contemporaneamente produce essa stessa la sua politica culturale. La regressione alla precedente fase di stato liberale è evidente; ma  altrettanto evidente è l’assunzione di spessore etico e culturale  da parte del mercato e dell’impresa stessa.

Le trasformazioni recenti dell’economia hanno ormai articolato la catena produttiva flessibilizzandola e distruggendo ogni forma di massificazione del lavoro. Ne viene fuori un lavoro molto più individualizzato che ripropone i meccanismi dell’impresa capitalistica a tutti i livelli.

Ritornando all’inizio del nostro discorso, incominciato con l’ascesa di Haider al governo dell’Austria, è evidente come il problema non sembrerebbe porsi come necessità di revisione della storia dei fascismi e nazismi, tutt’altro, ma in ragione di quella storia drammatica forse è meglio rivedere lo spessore di presenze analoghe nelle attuali forme di governo, in quanto tali movimenti di destra, nel momento in cui arrivano a consistere in forme politiche e organizzative sufficienti ad avvicinarli a momenti di gestione del reale (vedi la Lega in Italia), non sono esenti anch’essi dall’attuale degrado delle forme di rappresentanza e dalle attuali modalità di una “politica” ridotta a pratica impotente e sradicata da ogni forma di socialità.

Una crescente marginalizzazione di quella “forma stato”  che aveva assunto una preponderante centralità significa marginalizzazione di ogni forma dell’agire pubblico e della dimensione collettiva; ridimensionamento dello spazio pubblico che, anche se in forma alienata, costituiva momento fondante dell’ideologia e della prassi fasciste.

Anche per questo il discorso politico delle attuali maggioranze non si pone più in termini di contenuti ma di momentanei spostamenti di interessi.

Se non si tratta di una sinistra che mette in discussione i reali rapporti di produzione esistenti, sia le cosiddette socialdemocrazie sia le eventuali destre alla Haider o alla Bossi devono comunque fare i conti con istituzioni che hanno perso qualsiasi carattere politico gestionale di tipo legiferativo. Le attuali istituzioni che governano il pianeta si configurano di volta in volta come banche centrali nazionali, banca centrale europea, banca mondiale, Fmi, i quali producono, in quanto loro stessi soggetti politici, scelte economiche che costringono gli stati nazionali a contenersi, formalizzando la loro presenza a mo’ di ufficio inferiore che deve sottostare alle decisioni prese dal G7 o dalla Banca mondiale o dai centri decisionali dei grandi club economici come il settore militare industriale americano.

E’ chiaro come destre e false sinistre devono comunque ubbidire ad indicazioni che gli provengono non di certo dai loro gruppi dirigenti; altro sarà il compito di una possibile sinistra antagonista capace di ricostruire con pazienza le condizioni per la ricomposizione di un soggetto antagonista e di un conseguente e inevitabile discorso politico.