[1]I nuovi scenari delle trasformazioni politico-economiche del capitalismo

e il conflitto tra poli imperialisti

L. Vasapollo

 

(Relazione tenuta il 2 dicembre 2000 al convegno su “Nuova fase economica e conflitto sociale e politico in Italia” organizzato dal Coordinamento Comunista)

 

1. Una convincente e definitiva lettura dell'attuale fase del capitalismo a tutt'oggi non è ancora ben delineata, ma il contenuto della trasformazione economica in atto evidenzia che è cambiata forse l'essenza del lavoro, sicuramente l'organizzazione del lavoro. Le stesse  configurazioni del settore terziario, le modalità dello sviluppo capitalistico, le sue funzioni,  le figure economiche e sociali, sono ancora tutte oggetto di studio, ma sicuramente nulla hanno a che fare con le fasi politico-economico-sociali immediatamente precedenti, anche se identificano sempre una centralità del lavoro salariato, evidenziando i tipici vincoli di subordinazione caratterizzanti il rapporto capitale-lavoro nel classico modo di produzione capitalistico.

Diventa, così, determinante l'analisi dell'organizzazione del ciclo produttivo, delle caratteristiche del tessuto produttivo e sociale, del ruolo dello Stato, dei rapporti tra le aree internazionali e della loro struttura economica, per identificare le nuove determinazioni dei processi di accumulazione del capitale, in una nuova fase dello sviluppo capitalistico individuabile intorno alla centralità del dominio internazionale; dominio determinato attraverso i ruoli esercitati dai nuovi soggetti economici del capitale, soggetti economici multinazionali e soggetti-paese o meglio soggetti-polo con aree di influenza ben delineate, cioè blocchi imperialistici in conflitto (area del dollaro per il polo USA, area dell'euro per il polo UE, area yen, asiatica, ecc.).

Per meglio interpretare l’attuale fase dello sviluppo del capitalismo bisogna analizzare le modalità di gestione della crisi del modello fordista finalizzate ad evitare una intensa svalutazione del capitale.

Già dalla metà degli anni '60 si manifestano forti problemi di accumulazione all'interno dei processi cosiddetti fordisti; con la fine del boom economico post-bellico e di ricostruzione in Europa e in Giappone unita ai processi di ristrutturazione e razionalizzazione fordista, si cominciano ad evidenziare linee di deindustrializzazione.  Nonostante il sostenimento della domanda attraverso politiche keynesiane  e la guerra in Vietnam, gli Stati Uniti vedono, già a partire dal 1966-67, un crollo della produttività e della redditività accompagnato da una crisi monetaria-creditizia che, a causa del crescere dell'inflazione, colpisce il ruolo del dollaro come valuta internazionale di  riferimento. L'intenso processo di industrializzazione fordista si  sposta verso nuovi mercati, specialmente del sud-est asiatico, aumentando così la competizione internazionale e mettendo in discussione la leadership statunitense. Si passa così ai tassi di cambio fluttuanti, a forti instabilità attraverso la fine degli accordi di Bretton Woods e la conseguente svalutazione del dollaro.

E' così che, a partire dall'inizio degli anni '70, comincia a venir meno quel connubio fra sistema produttivo fordista e modelli keynesiani attraverso i quali lo Stato realizzava un sistema  di mediazione, regolazione e compressione del conflitto sociale. Si parla a tal proposito di rigidità dei processi di accumulazione proprio perché tale crisi fordista è identificata dalla rigidità degli investimenti e dell'innovazione tecnologica, da una rigidità dei mercati di incetta e dei mercati di consumo; a ciò si aggiunge la rigidità del mercato del lavoro, grazie anche alla forza espressa dal movimento operaio tra la seconda metà degli anni '60 e l'inizio degli anni '70.

Tali "rigidità" del sistema produttivo facevano sì che non fosse più possibile il sostenimento della domanda attraverso la spesa pubblica a causa  di un restringimento della base fiscale e l'unica risposta fu allora quella della politica monetaria caratterizzata da linee inflattive. Si interrompevano, così, i processi di crescita del dopoguerra in un contesto di sviluppo economico che vedeva nuovi processi di concorrenza internazionale e il venir meno del ruolo dello Stato keynesiano. Nel 1973 l'innalzamento dei prezzi del petrolio, il primo shock petrolifero e le politiche di controllo dell'inflazione evidenziano difficoltà finanziarie e un'eccedenza di capacità produttiva nei paesi a capitalismo avanzato; tutto ciò metteva fortemente in crisi i processi di accumulazione capitalistica dell'era fordista.

Si delineano così strategie di sopravvivenza aziendale e capitalistica  in una situazione di forte deflazione (1973-75); l'uscita dalla stagflazione identifica processi  che mettono fortemente in discussione il compromesso fordista-keynesiano. Da allora iniziano le innovazioni nell'organizzazione industriale, l'intensificazione dell'innovazione tecnologica e dei modelli di automazione, i processi di delocalizzazione produttiva, i grandi piani di acquisizioni e fusioni, la nuova progettualità complessiva per l'accelerazione dei tempi di rotazione del capitale. Insomma una forte innovazione di processo e di prodotto che si accompagna ad un diverso sistema statuale-istituzionale di mediazione politico-sociale che ha come obiettivo il controllo estremo della conflittualità dei lavoratori e dell'antagonismo sociale in genere. Tali processi hanno bisogno di un diverso modo di realizzare il ciclo produttivo, di un diverso modo di rapportarsi alla forza-lavoro, di un diverso modo di interpretare le dinamiche spaziali della produzione, e tutto ciò è possibile attraverso un ruolo diverso dello Stato nel veicolare complessivamente la nuova ideologia per l'accumulazione. E' così che le rigidità dell'ultima fase fordista  debbono trasformarsi in flessibilità di processi produttivi, flessibilità di mercati del lavoro, flessibilità della domanda in modo che le minacce all'ordine sociale capitalista dovute a processi di sovraccumulazione possano essere assorbiti o perlomeno contenuti e gestiti. In tal modo si sviluppano forti processi di terziarizzazione, di finanziarizzazione, di accorciamento delle entità spazio-temporali nel mondo capitalistico attraverso l'assunzione specificatamente produttiva delle risorse del capitale intangibile imperniate sull'informazione e comunicazione, di deregolamentazione, di privatizzazione, di dismissione da parte dello Stato del ruolo di regolatore  del conflitto sociale attraverso le politiche keynesiane.

E’ solo ed esclusivamente in considerazione di tutte le suddette ristrutturazioni e trasformazioni in essere del capitalismo che identifichiamo il termine generale, e non meglio attualmente specificabile,  di accumulazione flessibile come paradigma da contrapporre alle rigidità tipicamente fordiste.

Sostenere l'idea di una "flessibilità del sistema produttivo" non significa in alcun modo fiaccare e minacciare i movimenti di classe. Non si può nascondere che il capitale ormai da oltre venticinque anni ricerca  una maggiore flessibilità legata a vantaggi localizzativi, e ci sono le prove di  alcuni cambiamenti nel procedere del capitalismo. Ci sono le  molte dimostrazioni concrete della flessibilità, quali ad esempio gli infiniti casi di lavoro atipico , precario  e autonomo che caratterizzano tutte le economie dei paesi a capitalismo avanzato degli ultimi decenni. I processi di deindustrializzazione, gli spostamenti geografici  e la flessibilità del lavoro non possono essere ignorate; è pur vero che non si deve cadere nell'eccesso di considerare la flessibilità come nuovo sistema dominante in tutto il mondo; si tratta di comprenderne appieno la portata e di non sottovalutarne l'importanza.

Ciò non significa che non sussistano ancora elementi tipici dei processi fordisti, anzi  il cosiddetto modello post-fordista  (brutto termine!) tipico dell'area centrale dell'impero del capitale convive  con un tipico modello ancora fordista della periferia e addirittura con modelli schiavistici dei paesi dell'estrema periferia (dove per estrema periferia si intendono anche alcune aree marginali del centro). Tutto ciò perché oggi convivono le diverse facce di uno stesso modo di produzione capitalistico. 

Siamo in una situazione in cui si è in presenza da un lato alla produzione fordista e dall'altro a sistemi di produzione più legati a rapporti di lavoro "tradizionali" caratterizzati dal cosiddetto capitalismo "familiare"; la composizione di "classe" è cambiata, gli operai non sono più i soli "attori" della produzione in quanto vi è ormai una diversificazione tra i salariati dovuta soprattutto alla nascita di nuove figure di lavoratori (legate ad esempio al settore ormai predominante dei servizi) che pongono il problema a livelli diversi. Ci troviamo in una fase in cui il fiorire di figure lavorative nuove (vedi ad esempio i nuovi tecnici, i lavoratori nei settori delle telecomunicazioni, dell'informatica, i lavoratori della conoscenza, ecc.) ha fatto nascere una nuova fascia di lavoratori "privilegiati", cioè una sorta di aristocrazia operaia che si contrappone ai "lavoratori atipici della nuova fabbrica sociale generalizzata" che restano sottopagati e non garantiti. Tutto ciò porta ad accrescere sempre più le disuguaglianze dovute ad un modo di produzione capitalistico che è sempre e comunque lo stesso, basato  su forme sempre più intensive di sfruttamento della forza lavoro e di estorsione di plusvalore-pluslavoro con intensificazione del controllo dei lavoratori  nel mercato del lavoro e nel processo produttivo; sempre e solo attraverso la crescita quantitativa è possibile garantire profitto e accumulazione del capitale e ciò grazie alle dinamiche tecnologiche, organizzative, di innovazione incentrate su concorrenza e competizione sempre più spietate. Il tutto come sempre determinato dai rapporti di forza fra capitale e lavoro e dalle dinamiche della lotta di classe. E' per questo che accumulazione flessibile significa disoccupazione strutturale, precarizzazione del lavoro, flessibilità del lavoro e dei salari, nuove povertà, in una continua dinamica di distruzione e ricostruzione delle capacità lavorative; tutto ciò, appunto, scadenzato dai tempi e dalle dinamiche della lotta di classe, dai rapporti di forza capitale-lavoro che in questa fase significano ridimensionamento del potere dei lavoratori, conseguenti incrementi di produttività e  mancanza di redistribuzione del reddito e della ricchezza.

 

2. E’ per questo che la cosiddetta era dell’accumulazione flessibile significa competizione globale, conflitto aperto fra poli imperialisti a partire da alcune caratterizzazioni che hanno assunto le modalità delle dinamiche dello sviluppo collegate nell'ambito di un rapporto capitale-lavoro sempre finalizzato al controllo sociale interno ad ogni paese capitalista e allo scontro esterno per la determinazione del dominio globale attraverso l'allargamento delle aree di influenza geoeconomica dei tre grandi blocchi imperialisti.

La redistribuzione territoriale del dominio non è determinata da un semplice decentramento del capitale, o prodotta esclusivamente dalla valorizzazione di risorse locali, ma è dovuta soprattutto ad intensi processi di ristrutturazione del capitalismo che, alla ricerca della competitività sul piano internazionale, determina efficienza a partire soprattutto dall'imposizione di forte mobilità spaziale e settoriale della forza-lavoro e dalla diversificazione dei progetti di flessibilità del lavoro e del salario.

E' in questo quadro  che si inserisce l'altra linea portante della cosiddetta fase dell'accumulazione flessibile, cioè la completa riorganizzazione e deregolamentazione del sistema finanziario mondiale con innovazioni di strumenti, di mercati, di intermediari e con un decentramento dei flussi; tutto ciò ha evidenziato la necessità della strutturazione di un unico mercato mondiale  finanziario e creditizio, anche se telematico e virtuale, facendo emergere i grandi conglomerati finanziari con un ruolo centrale degli investitori istituzionali, definendo, così, le nuove linee  del potere capitalistico che affiancano e rafforzano il ruolo delle multinazionali e diventano determinanti nella competizione globale per ridefinire il potere di dominio per aree geoeconomiche nel conflitto tra diversi poli imperialisti.

E’ questo il ruolo svolto dallo sviluppo sempre più  straordinario del mercato finanziario avutosi negli ultimi 30 anni ; il sorprendente potere che  questo mercato ha raggiunto ci porta a  sostenere che si può arrivare ad una nuova e diversa crisi del capitalismo; la ricerca di soluzioni finanziarie a questa crisi ci riporta però sempre a soluzioni capitalistiche con al centro la flessibilità del lavoro, della produzione e del consumo.

Il contenuto effettivo della competizione globale è dato,pertanto, non dalla mondializzazione degli scambi, ma da quella delle operazioni del capitale, tanto sotto la forma industriale che finanziaria.

A fronte dei processi di internazionalizzazione economica e ai processi di delocalizzazione produttiva, si assiste nei più importanti poli imperialisti a continue fusioni, acquisizioni e concentrazioni finanziarie ed industriali che spesso assumono la forma di processi a carattere nazional-capitalistico alla ricerca di spazi concorrenziali. Nella quasi totalità dei casi di concentrazione della proprietà si invoca l'efficienza e la competitività che si traduce in drastiche riduzioni del personale, in esternalizzazioni di fasi del ciclo, e ciò accresce il lavoro nero, precario e flessibile, in condizioni ed in genere in forme di redistribuzione tutte favorevoli al profitto e derivanti dai forti incrementi di produttività.

Il processo che ha caratterizzato lo sviluppo industriale degli ultimi venti anni nei paesi a capitalismo maturo è stato, infatti, contraddistinto da un forte aumento della produttività del lavoro a cui è corrisposto un risparmio di lavoro che eccede decisamente la creazione di nuove opportunità occupazionali. In effetti gli incrementi massicci di produttività, dovuta ad intensi processi di innovazione tecnologica e ad una conseguente ridefinizione del mercato del lavoro, hanno fatto sì  che tali incrementi si traducessero esclusivamente in aumenti vertiginosi dei profitti e delle varie forme di remunerazione del fattore produttivo capitale. Il fattore lavoro non ha avuto alcun tipo di beneficio in termini di redistribuzione reale di tali incrementi di produttività, in quanto, non si è realizzato incremento occupazionale, nè corrispondenti incrementi nell'andamento dei salari reali, nè tanto meno relativi andamenti decrescenti nell'orario di lavoro ed, infine, neppure il mantenimento dei precedenti livelli di salario indiretto quantificabili attraverso la spesa sociale complessiva. Questi sono gli aspetti realmente innovativi dell'attuale fase dell'accumulazione flessibile; questo è il vero volto di quella che a ragione può chiamarsi la "New Economy" della crescita distruttiva senza alcuna forma di sviluppo sociale e di civiltà.

 

3. Questi elementi devono essere interpretati come l'avvisaglia della maturità di un grande regime di accumulazione mondiale nuovo, una accumulazione flessibile, il funzionamento della quale è sottomesso alle priorità del capitale privato e finanziario altamente concentrato, in cui l'UE sta cercando di giocare un ruolo di primo piano e in aperta competizione con gli USA.

Pertanto l'UE sta vivendo contemporaneamente il passaggio fra consolidamento ed affermazione definitiva di un proprio autonomo blocco imperialista e la contraddizione interna di uno sviluppo diseguale, e comunque basato su modalità diverse .

Ma la sorte dell'euro è fortemente condizionata dal contesto esterno, che siano i mercati finanziari nel mondo o la politica monetaria degli Stati Uniti. L'ipotesi euro continua a prendere consistenza e profilarsi come strumento di guerra commerciale, pertanto gli USA stanno facendo il possibile per soffocarla. Per gli americani la migliore Europa possibile deve essere sufficientemente unita ma sotto il dominio USA e, quindi, agiscono per renderla sufficientemente divisa per impedirne l'affermazione come superpotenza imperialista concorrente, anche perché gli USA temono oggi più di ieri una moneta destinata a favorire nel tempo le esportazioni europee e, sempre nel tempo, a minacciare il rango del biglietto verde come valuta di riserva mondiale.

La situazione attuale è certo dovuta ad una particolare forza dei mercati finanziari statunitensi che attirano capitali europei con grosse prospettive di guadagno per gli investitori che trovano negli USA rendimenti finanziari sicuramente superiori a quelli dell'Europa.

E’ proprio la disponibilità di capitali esteri, attratti con alti tassi di interesse e la deregolamentazione di quasi tutti i settori produttivi, che continua a creare le aspettative di maggior profitto e a determinare i forti investimenti in tecnologia avanzata che si sono avuti nella seconda metà degli anni '90 negli USA. Ma, come un cane che si morde la coda, i maggiori profitti attesi hanno incrementato la domanda di credito facendo aumentare i tassi di interesse e le emissioni obbligazionarie. Si consideri inoltre che i tassi di interesse di mercato sarebbero potuti aumentare maggiormente se il settore pubblico non avesse realizzato un surplus di bilancio che è stato destinato a rimborsare il debito del settore privato, favorendo così la formazione di capitale e il processo di accumulazione di capitale, con accelerazione dei processi di investimento, con spostamenti di capitali dai settori a vecchie tecnologie a quelli a tecnologie avanzate. Ciò è stato facilitato dagli intensi processi di finanziarizzazione dell'economia con lo sviluppo della finanza innovativa, favorendo così il differenziale fra profitti attesi delle multinazionali tecnologiche rispetto a quelli delle imprese a tecnologie tradizionali.

L'uso massiccio delle nuove tecnologie informatiche ha ovviamente incrementato i guadagni di produttività dell'economia statunitense. Ma anche da questo punto di vista ci sono degli effetti previsti contrastanti, poichè non tutte le nuove tecnologie sono in grado di aumentare la produttività riducendo i costi di produzione. E’ chiaro, inoltre, che la forte innovazione tecnologica e gli aumenti di produttività determinano forte insicurezza tra i lavoratori in quanto aumentano la velocità di obsolescenza delle competenze professionali dei lavoratori stessi.

Ma ci sono alcune domande. Fino a che punto la manodopera ancora disponibile e un modello USA basato fortemente sulle importazioni può assorbire la forte domanda interna? Fino a che punto la pressione militare degli USA per il controllo delle risorse mondiali (materie prime e manodopera) può far sì che si possa sostenere un deficit così  alto dei conti con l'estero definendo, senza contrasti con i poli UE e giapponese, quali sono le risorse fondamentali strategicamente e che debbono continuare ad essere sotto l'esclusivo dominio degli USA? Fino a che punto la politica monetaria e del cambio, la crescita dei valori finanziari e l'indebitamento interno ed estero USA continueranno ad essere variabili decisive nello scontro con il polo imperialista europeo? E da ultimo fino a che punto l'euro è credibile per il capitalismo finanziario? C'è quindi da aspettarsi per il prossimo futuro ancora un modello basato sulla "pax americana"?

Attualmente il modello di capitalismo americano, il blocco economico statunitense offre ai detentori di ricchezza finanziaria maggiori prospettive di arricchimento rispetto a quello europeo e più larghe possibilità di una veloce globalizzazione dei mercati mantenendo intatto, anzi rafforzando, l'apparato politico-militare statunitense. Ma per poter mantenere tale situazione gli Stati Uniti debbono saper mantenere non soltanto l'attuale rosea situazione economica, che prima o poi mostrerà il fianco, ma nel contempo devono saper combinare la dimensione geopolitica e militare con quella geoeconomica.

E’ proprio attraverso la guerra del dollaro contro l'euro, la crisi petrolifera a guida americana e la gestione della New Economy nel contesto generale della finanziarizzazione dell'economia, che gli Stati Uniti giocano le loro carte per soffocare le mire di affermazione ed espansionistiche del nuovo polo imperialista dell'Unione Europea.

Il gioco del caro dollaro e del caro petrolio si accompagna alla "bolla finanziaria" sui titoli della "Net Economy"; questo è uno specifico aspetto del modello complessivo neoliberista di New Economy, una speculazione finanziaria che fa sì che società con scarso fatturato, o appena quotate, nel giro di un mese triplicano, quadruplicano il loro valore. Un NASDAQ, il mercato azionario dei titoli tecnologici, continuamente sbalzato fra eccessi rialzisti ed eccessi ribassisti; un mercato questo fortemente colpito dalla "bolla finanziaria" attraverso quotazioni gonfiate che autoalimentano le pilotate rincorse alle aspettative rialziste. Una globalizzazione finanziaria che da una parte crea forti condizioni e aspettative di guadagno facile e dall'altra determina in continuazione paure di disastrosi crolli. E questi terremoti del NASDAQ trovano i loro mandanti negli Stati Uniti, capaci di attirare attraverso i titoli della Net Economy enormi capitali europei sottoposti poi al rischio di continui ed improvvisi crolli.

E’ l'effetto congiunto del caro petrolio addossato ai produttori ma gestito dalle multinazionali americane, del caro dollaro determinato da una apparentemente forte economia americana che però è "drogata" attraverso i flussi di capitali europei, della volatilità in borsa dei titoli tecnologici, che sta determinando la debolezza dell'euro, debolezza non dovuta ai "fondamentali" dell'economia, ma subita da un polo europeo che ancora non ha le condizioni politiche ed economiche per contrapporsi adeguatamente allo strapotere del blocco americano.

 

4. Probabilmente l'Italia e gli altri paesi europei si preparano a politiche non più di carattere restrittivo forte, politiche di crescita ma non sul modello keynesiano classico. Si tratterà cioè, di politiche restrittive temperate, moderate, che sappiano far convivere la ripresa economica con il risanamento del bilancio pubblico, con la riduzione del debito pubblico, per lanciare definitivamente l'euro con la stabilità dovuta alle cosiddette riforme strutturali forti. Un euro che deve avere la funzione di catalizzatore per riforme sempre più in chiave "privatizzatrice", in modo da rendere la concorrenza sempre più sfrenata, e permettere all'UE di giocare pesantemente nella competizione globale. Ma per far questo servono ancora politiche di taglio allo Stato sociale, al sistema previdenziale e assistenziale, con scarse possibilità di crescita della massa salariale e degli incrementi retributivi in genere, senza quindi importanti forme redistributive del reddito e in particolare della ricchezza prodotta. La crisi valutaria dell'euro, e non la crisi economica dell'Europa, serve ai vari governi nazionali per continuare il ricatto con le politiche di stabilizzazione, imponendo riforme strutturali del Welfare e delle politiche dei redditi, attaccando ancora il salario sociale per favorire i profitti, le ristrutturazioni e riconversioni industriali con politiche tutte favorevoli alle imprese; il tutto in attesa di rilanciare un'Europa più forte sul piano non solo economico, ma soprattutto politico.

E’  altrettanto vero, quindi, che la debolezza dell'euro può  essere anche voluta dagli stessi organismi economico-finanziari dell'UE per favorire l'export attraverso l'effetto svalutativo e per imporre ai diversi paesi europei riforme strutturali dell'economia che puntano sempre di più a contrarre il costo del lavoro e lo Stato sociale (vedi pensioni, sanità, privatizzazioni varie), continuando a colpire, come si è fatto negli anni passati per la costituzione dell'Unione Economica e Monetaria, le tasche dei lavoratori per rafforzare quell' "Europa Finanziaria", cuore del nuovo polo geoeconomico europeo.

Lo scenario prevedibile è, quindi, quello di un ribilanciamento nei cambi tra quotazione del dollaro e quotazione dell'euro, un ribilanciamento che in sostanza ridefinisca ed evidenzi una sostanziale stabilità e potenzialità di crescita economica di un'Europa sempre più vicina al modello di neoliberismo selvaggio ed evidenzi nel contempo le debolezze e gli squilibri interni ed esterni degli Stati Uniti.

In Europa e in particolare in Italia il nuovo scenario, probabilmente per almeno i prossimi tre o quattro anni, sarà quello di una crescita che non si accompagna ad uno sviluppo economico- sociale generale, cioè ad aumenti occupazionali, ad incrementi dei consumi e a forme redistributive della ricchezza verso il fattore lavoro. La previsione è, quindi, quella di una crescita senza forme redistributive, una crescita senza politiche espansive complessive, una crescita che significherà ancora rafforzamento del fattore capitale a danno del fattore lavoro, incremento dei profitti a danno del salario sociale complessivo. Una crescita distruttiva voluta da una concorrenza sempre più feroce attuata in un contesto in cui si costringono tutti i paesi , e non solo le grandi potenze economiche, a competere globalmente misurandosi esclusivamente in incrementi quantitativi dei ritmi di crescita. E non serve a nulla disquisire sulla "crescita diversa" e su nuovi modelli di sviluppo sostenibile, o di crescita di risorse diverse, se ciò non risponde alla compatibilità dei nuovi processi internazionali di accumulazione di capitale. Nel modo di produzione capitalistico c'è spazio solo per la massima crescita quantitativa indifferente alla qualità del valore d'uso convertito in merce, in particolare oggi in un regime di concorrenza feroce globalizzata e tradotta in scontro per poli imperialisti.

Trionfa, almeno momentaneamente, il sistema capitalista americano che ora è maggiormente in grado di unificare e influenzare il mondo, ma ciò non significa certo rottura della politica di conflitto imperialista realizzata con atti continui di guerra economica che assumeranno sempre più la forma di guerra guerreggiata per l'affermazione delle gerarchie.

La sfida geoeconomica internazionale fra l'area del dollaro e l'area dell'euro si gioca proprio intorno a scenari di guerra economico-commerciale e di guerra guerreggiata, e la resa dei conti fra i due poli imperialisti (vedi Jugoslavia) sono fattore di forte presenza e attualità.

E’ con tale ipotesi, con tali scenari di mutamento di fase, di conflittualità accesa fra area del dollaro e area dell'euro, con attenzione sempre alla variabile asiatica con forti mire espansionistiche sull'Eurasia, che nell'immediato futuro saremo chiamati a fare i conti, in un contesto in cui la competizione globale assumerà sempre più forti connotati politico-strategici di conflitto interimperialistico.

Gli scenari prevedibili per gli immediati anni futuri sono quelli  di una accelerazione nella trasformazione politico-economica del capitalismo internazionale tentando di ricombinare al massimo le modalità incentrate sul plusvalore assoluto e sul plusvalore relativo. Nel primo caso i processi di accumulazione flessibile continueranno a basarsi sull’allargamento della giornata di lavoro  in funzione  del salario  necessario per la riproduzione della forza-lavoro con un determinato livello di vita, cioè allungamento degli orari di lavoro complessivi con diminuzione del tenore di vita (più lavoro straordinario, più lavoro atipico, vivere sociale come momento della produzione) e ciò a causa del decremento del salario sociale complessivo causato anche dai processi delocalizzativi aziendali verso aree periferiche a basso salario. Per quanto attiene, invece, le modalità inerenti al plusvalore relativo, si adotteranno sempre più ristrutturazioni organizzative e innovazioni  tecnologiche che faranno conseguire profitti momentanei alle imprese cosiddette più innovative e profitti più generalizzati derivanti dall’abbassamento dei costi di solo quel minimo paniere di beni che definisce il tenore di vita “medio” della forza-lavoro.

In ogni caso tutto ciò vedrà il proliferare di forme di investimento produttivo in grado di tagliare pesantemente l’occupazione e i costi del lavoro e dall’assorbimento completo nei modelli produttivi, e secondo ovviamente il modo di produzione capitalistico del lavoro intellettuale  e di ogni momento del vivere sociale collettivo. E’ prevedibile che nei diversi poli imperialisti saranno in parte differenti le modalità applicative  delle strategie di acquisizione del plusvalore in forma assoluta e in forma relativa. E’ dalla modalità di vicendevole alimentazione delle forme di acquisizione del plusvalore previste nella scienza marxiana, che dipenderanno i modi di presentarsi  delle trasformazioni politico-economiche del capitalismo. Da un’attenta rilettura del Capitale di Marx possiamo ben individuare tutti gli elementi critici di questo passaggio di fase (convivenza e interconnessione fra sistemi di produzione di tipo domestico, a domicilio, di lavoro informale con quello tipico di fabbrica, uso dell’esercito industriale di riserva per il controllo della forza-lavoro e la compressione dei salari, uso produttivo del lavoro intellettuale e delle innovazioni tecnologiche per intaccare il potere del movimento operaio, competizione fra lavoratori e cosiddette “guerre tra poveri”, richieste di massima disponibilità alle forme di flessibilità aziendale). Sono queste le modalità della cosiddetta accumulazione flessibile nella competizione globale che sfocerà in forme sempre più dirette di conflitto interimperialista.

Il processo in atto non può dirsi globalizzazione, ma si tratta di una vera e propria dura e spietata competizione globale fra i tre principali blocchi economici; una competizione globale  fra poli imperialisti e quindi a carattere politico-strategico che non lascerà solo feriti sul campo.



[1] Per un’analisi dei dati a supporto delle tesi sostenute in questo intervento e per approfondimenti sui temi trattati si veda: R. Martufi, L. Vasapollo, “Eurobang. La sfida del polo europeo nella competizione globale. Inchiesta su lavoro e capitale”, Mediaprint, Roma, 2000; per approfondimenti in tema di accumulazione flessibile e trasformazione del capitalismo si veda, tra gli altri: D Harvey, “La crisi della modernità”, EST, 1997.