INFLUSSI SANSIMONIANI NELLA TOSCANA DI PRIMO OTTOCENTO (seconda parte)
Maurizio Brotini
Il Dottor Giuseppe
Rossi e “l’illimitata libertà di commercio”
A partire dai primi mesi del 1839 il direttore dell’”Indicatore Pisano” pubblica a puntate un articolo in cui espone compiutamente le proprie posizioni in materia economica. Del Rossi abbiamo già segnalato i contatti “politici”; aggiungiamo la considerazione con la quale era tenuto in ambito agronomico[1]: nella Bibliografia agronomica[2] i suoi lavori in materia sono più volte citati. Tra le opere che abbiamo rintracciato la maggior parte trattano argomenti enologici, ma non mancano scritti sul sesamo, sulla barbabietola da zucchero, sulla seta e un’opera di Istituzioni di aritmetica. Ritornando all’articolo, nei primi due capitoli il Rossi esprime le proprie opinioni “sulle Casse di Risparmio, casse di sconto, Istruzione della classe infima, e sul progetto della strada ferrata da Livorno a Firenze, dell’influenza che tutte queste belle istituzioni possono avere sul progresso della agricoltura, e sull’industria nazionale”.[3] Ma quali erano queste opinioni? Nel primo capitolo il Rossi confronta la situazione toscana con quella francese, mettendo in evidenza il ruolo svolto dallo stato nel sostenere e rilanciare l’agricoltura e l’industria. La superiorità della Francia rispetto alla Toscana deriva per il Rossi proprio dal diverso ruolo assunto da questo elemento: “Ogni popolo è preoccupato vivamente dell’insegnamento in Agraria. Noi lo vediamo dai rapporti fatti ai respettivi Monarchi dai loro incaricati alle pubbliche istruzioni. Questa divorante attività di spirito dovrebbe essere di eccitamento e di esempio a noi Toscani, e dovrebbe veramente fissare l’attenzione dei nostri Economisti non solo, ma quella di ogni uomo amico della pubblica prosperità. Il sig. N. Martin (del Nord) dice nel Debats 24 decembre 1838, che l’industria francese ha fatto ai nostri giorni e sotto il regno di Luigi Filippo, incontrastabili progressi. Dice, che essa è chiamata a più alti destini, e finalmente propone di riorganizzare il Conservatorio di arti e mestieri residente in Parigi. Questo progetto è stato approvato dal Re il 15 Decembre 1838. [...] Or dunque associamoci ai Francesi in fatto d’industria. Sieno a noi di esempio le loro istituzioni ”[4]. Si tratta evidentemente di una posizione assai diversa dalla politica di non intervento tipica del “liberismo” toscano. Ed è proprio a partire dalla critica del “lasciar fare“ che il Rossi affronta gli elementi costitutivi dell’asse bancario-mezzadrile: “A cosa servono le banche di sconto, quando mancano le speculazioni commerciali e quando il trafficante non ha ove stabilire la sua intrapresa? A cosa servono le casse di risparmio quando l’artigiano non ha avanzi da fare sulla sua giornata, poiché un terzo dell’annata gli conviene vivere inoperoso? A cosa serve l’istruzione della classe infima della società, quando poi agli educati mancano i mezzi di porre a profitto quanto hanno imparato? E tutte le istituzioni di pubblica potranno aver vita, quando le nazioni estere coi loro insegnamenti rendendosi a noi superiori nelle arti e mestieri, quando coll’applicazione delle loro macchine a vapore sono in grado di venderci i loro tessuti a quattro e cinque soldi il braccio, e che a questi vili prezzi portanci via milioni di lire? Quando colle loro legislazioni accordano alle industrie nazionali il dieci per cento sull’esportazioni dei respettivi articoli, e quando pongano una tassa del 60 per cento sull’importazione di manifatture toscane, domanderò io come si potranno alimentare i detti stabilimenti e porre in armonia il progresso tanto raccomandato da coloro che amano il ben’essere della Toscana? Qual’incoraggimento per i poveri nostri produttori? A me non spetta sciogliere la soluzione di questo terribile problema. Sta ai dottrinari - ai partitanti della libertà di commercio”.[5] E’ evidente la posizione “protezionistica” di questo scritto, posizione tanto più significativa in quanto minoritaria nel panorama toscano. Anche la questione delle strade ferrate, altro argomento del dibattito coevo, viene affrontata dal Rossi nella medesima ottica: se i vantaggi di tipo speculativo possono attirare risorse su questa iniziativa, vista come possibile redditizia fonte di investimento, le ripercussioni della aumentata capacità di penetrazione delle merci straniere rispetto al mercato interno devono destare preoccupazioni. Da questo punto di vista i vantaggi che la strada ferrata può arrecare sono subordinati alla concorrenzialità delle merci nazionali rispetto alle merci “straniere: “Io soltanto dirò che questo problema potrà essere sciolto favorevolmente alla strada ferrata, quando però i possidenti cercassero quei mezzi necessari onde aumentare i prodotti del proprio suolo, quali servissero a diverse manifattura a misura delle domande che le venissero fatte dai loro corrispondenti, prevedendo sempre però la concorrenza estera”.[6] Ed ancora: “Alla Toscana tornerà bene la strada ferrata quando però i sistemi agricoli subiranno una tale riforma capace di aumentare nei libri di Amministrazione dei possidenti e fabbricanti le cifre numeriche, ma quando al possidente Toscano, i suoi fondi non li rende più che il 3 per cento, e quando le nostre manifatture restano eclissate sotto il fasto di una prosperità menzognera, a cosa servono i mezzi più solleciti di trasporto?”.[7] Non vogliamo proporre le posizioni del Rossi come una alternativa praticabile a quanti sostenevano una linea di sviluppo bancario-mezzadrile (oltretutto la richiesta di politiche protezionistiche si lega nel Rossi ad una polemica nazionalistica contro i prodotti stranieri e non viene posto il problema di una dimensione “nazionale” dello sviluppo, rimanendo il ragionamento tutto interno in una ottica “toscana”); tuttavia tali posizioni sono a nostro avviso la spia, in ambito toscano, di una critica più diffusa di quanto comunemente si pensi al liberismo. Una spiegazione delle posizioni del Rossi va quasi con certezza ricondotta alla materialità del suo essere sociale, e cioè al suo ruolo di produttore di vini: il terzo capitolo della suo lunga disanima economica è infatti largamente dedicato ad una analisi comparata della situazione francese e toscana nell’ambito enologico. La stessa diffidenza verso la ferrovia e verso la libertà di commercio affonda probabilmente qui le sue radici: “La facilità di giungere i vini esteri a Livorno, ed il poco dazio impostoli, considero tali cose come fatali ai proprietari di vigneti, e come impedimento al progresso dell’arte enologica”.[8] Dopo aver svolto gran parte delle proprie argomentazione, il Rossi sente il bisogno di difendersi dall’accusa di protezionismo: “Non si creda che io sia partigiano del sistema esclusivo e che volesse per mezzo di proibizioni o di gravose imposte escludere i vini forestieri = No = Vorrei reciprocità di dazj”.[9] Dopo questa autodifesa preventiva il Rossi esplicita la propria proposta, che vede nel ruolo dello stato nella politica economica un elemento determinante.[10] Segue l’enunciazione dei suoi obiettivi: “Vorrei che lo scopo delle nazioni estere fosse anche il nostro, cioè quello d’incoraggire la manifattura o la produzione delle materie prime nel proprio paese: di dare il mezzo di lavorare a molti individui, di non avere bisogno di alcuni prodotti esteri siano in istato greggi, siano manifatturati; di costringere i forestieri a ricevere un eccesso di mercanzie indigene, saldando la differenza con metalli preziosi. Questo è ciò che io chiamerei vera bilancia del commercio Toscano”.[11] L’ultima puntata dell’articolo è la più esplicita nella polemica antiliberista. Dopo aver paragonato la fase gloriosa di Firenze con la situazione attuale, riprendendo spunti della propaganda mazziniana, il Rossi termina: “Ora, quella medesima Toscana, nel secolo del progresso, nel secolo dei lumi, nel secolo dello incivilimento, paga all’estero quell’enorme tributo che trovasi scritto nei libri doganali di molte nazioni industriose! quelle cifre notano l’inerzia e lo scoraggimento dei possidenti e fabbricanti Toscani. [...]. Si conosca una volta per tutte che nulla si oppone ad ogni sorta d’industria, meno che la Libertà Illimitata di Commercio”.[12]
Il dibattito sull’istruzione
Il primo elemento che emerge dagli interventi sulla
questione dell’istruzione apparsi sull’”Indicatore Pisano” è che la
problematica in questione non è limitata al problema dei “contadini”. Si veda
l’articolo Sulla necessità di
istruire la classe manifatturiera.[13]
L’estensore si rivolge specificamente agli “artigiani”, “cappellai, tintori,
falegnami, fabbri, muratori” e pone
la necessità dell’istruzione tecnico-scientifica per questo ceto sociale.
All’interno di questa argomentazione vengono indicati come esempi da imitare Franklin e Watt, “un
accomodatore che seppe applicare la scienza alle arti”. Ecco un passo dell’articolo: “Se vi è per altro una classe della società
cui più d’ogni altra sia mestieri una cognizione elementare delle scienze
fisiche, è certo quella che si dedica alle arti. Sono noti ad ognuno gl’immensi
progressi che in questi ultimi tempi hanno fatto le arti industriose; sa ognuno
a quanta ricchezza sono giunti quei popoli ove fra i manifatturieri sono estese
le cognizioni scientifiche. Scorransi infatti i paesi manifatturieri, là si
vedranno gli artisti i più vili correre ai pubblici corsi di Fisica, assistere
alle lezioni di Geometria e di Meccanica: ed è così che essi giungono a
ragionare dei loro travagli, e che si fanno artisti inventori. Sarebbe cosa ben
lunga se si volessero citare i nomi di tutti quelli che usciti dal rango degli
artisti poterono col soccorso delle cognizioni scientifiche farsi degni di un
nome più che europeo”. Per ottenere
lo scopo citato l’articolista avanza una serie di proposte che vanno
dall’istituzione di pubblici corsi, di cui fra l’altro sono evidenziati i
limiti, alla diffusione di opuscoli e all’utilizzazione dell’”Indicatore
Pisano” come tramite per la diffusione di un sapere tecnico-scientifico,
secondo l’esempio degli inglesi Library
of usoful Knowledge e Iornal of arts, del francese Les conneissances utiles e del tedesco Cognizioni politecniche. L’attenzione
per l’istruzione degli artigiani non porta a disconoscere ed a trascurare i
temi dell’istruzione dei contadini. All’interno di questa tematica il tempo
diviene una categoria economico-sociale con forti tratti moralistici: “Ti sovvenga che il tempo è denaro. Colui
il quale passa la giornata nell’ozio o all’osteria, perde ciò che avrebbe
potuto ricavare dall’opera sua. [...] E
ciò che più è grave ancora perde il credito e decade dalla stima degli uomini”.[14]
L’estensore dell’articoletto, da cui abbiamo tratto e trarremo altre citazioni,
dal significativo titolo Morale. Consigli
ad un giovane operaio[15]
gioca continuamente sulla doppia accezione di credito come credibilità morale e
credito come capacità di risparmio legata al sottoconsumo. E’ evidente come i
due aspetti coincidano profondamente, dato che le classi dominanti sono
disposte paternalisticamente ad accogliere nella stessa comunità le classi
contadine solo se queste non pongono in discussione il loro potere e se
contribuiscono attraverso la loro capacità di risparmio a far funzionare
un sistema basato su banche e finanza.
Il contadino, o l’operaio, è virtuoso se contribuisce attivamente al
funzionamento del sistema, di cui deve addirittura condividere le scelte e a
cui deve uniformare le stesse forme della sua esistenza. Ed infatti
l’appello finale insiste su questo aspetto: ”Ti sovvenga che il credito è denaro. [...] Ti sovvenga che il denaro è prolifico: che il denaro genera denaro,
che 5 lire impiegate ne valgon sei ... Ma colui che sotterra uno scudo,
distrugge tutto ciò che questo scudo poteva produrre, e rinuncia a tutto il
profitto che ne poteva ripagare”. A dimostrazione della necessità di dover
plasmare stili di vita che rendano possibile il modello di sviluppo economico
intrapreso dalle classi dirigenti toscane, ovvero
sottoconsumo-risparmio-depositi bancari-speculazioni finanziarie, l’articolo si
chiude con queste parole: “Sovvengati per
ultimo che nella via di far fortuna il tutto dipende dal lavoro, dalla
economia, cioè dal miglior uso possibile del tempo e del denaro. Senza lavoro e
senza economia non farai cosa alcuna; con essi farai tutto. Colui che guadagna
tutto ciò che può guadagnare onestamente, e che impiega in nuove produzioni
tutto ciò che guadagna, salvo le spese necessarie, non può mancare di non
diventar ricco”. Come è evidente dalle citazioni riportate non è nostra
intenzione dimostrare l’esistenza, all’interno dell’”Indicatore Pisano”, di una
lineare posizione di attenzione ad una classe sociale solitamente ai margini
dell’iniziativa pedagogica di quelli che saranno chiamati i “moderati toscani”;
tuttavia, a fronte della canonica attenzione per l’istruzione dei contadini,
sarebbe errato sottovalutare una articolazione sociale più ampia quale può
rinvenirsi nelle pagine della rivista pisana. La compresenza, anche all’interno
dello stesso articolo, di attenzione per gli artigiani e per la diffusione di
un sapere tecnico-scientifico con gli elementi tradizionali dell’istruzione
delle masse contadine è quasi una caratteristica peculiare dell’”Indicatore Pisano”. Si veda l’articolo Istruzione popolare. Lunari per il 1837:
“i lunari de’ nostri giorni [...] si assumono un più grande incarico -
Istruire il popolo- Inculcare la verità- Nobile scopo. Ma difficile ad esser
raggiunto”.[16] In
realtà più che al popolo ci si rivolge ai contadini, all’idealtipo di contadino
sognato dai moderati: “Un buon contadino [che] se ne ritorna al suo rustico tetto. [...]. Colà comprende [nel Nipote del Sesto
Caio Baccelli] cos’è una cassa di
risparmio- diviene economo- sente la indispensabile necessità dell’istruzione e
manda i figli alle scuole- Impara utili precetti per il suo mestiere e pe’ suoi
doveri- l’uomo si umanizza- si vergogna de’ suoi errori- si corregge- diviene
uomo virtuoso per opera d’un lunario”. L’articolista individua tre lunari
che meritano a suo avviso il titolo ed il nome di “istruttivi e popolari”. Si tratta del “Nipote di Sesto Cajo
Baccelli”, del “Ser Gottardo” e dell’”Almanacco Aretino”. Si dichiara in attesa
del quarto anno del “Calendario Lucchese” e dell’”Almanacco che ci promette il
benemerito Vieusseux”. Sembrerebbe che niente esca dal quadro delle nostre
attese: lunari, contadini, Casse di risparmio. Non è così: un primo segnale della presenza di altre istanze
è costituito dall’attenzione rivolta all’”Almanacco Aretino” definito “ lavoro un po’ diverso dagli
altri”, di cui, “essendo [...] di men
facile acquisto per il popolo” viene riportato un articolo, che non si rivolge
ai contadini, bensì agli artigiani, dal titolo Sulla utilità di una scuola per gli artigiani. Pensieri.[17]
L’incipit rimanda ad elementi che erano
stati propri della propaganda mazziniana: “L’Italia
che, non ha molto, era la maestra delle altre nazioni in fatto d’Industria e di
Commercio, è di presente addivenuta la discepola, la tributaria di quelle”.[18]
L’articolista si rivolge all’Italia, non al Granducato, e in un passo
successivo l’appello sarà rivolto alla “Penisola nostra”: nell’utilizzazione di
tali termini è evidente l’elemento politico-patriottico e d’altronde sovente la
geografia si colorava di questi accenti. Il primo aspetto da segnalare è dunque
la presenza di una dimensione politica all’interno dell’articolo. Il secondo
aspetto è ancora una volta l’attenzione per gli artigiani: “qui vuolsi tener discorso degli Artigiani [...] io affermo esser di mestieri che questi, a
cominciar da’ più teneri anni, si applichino allo studio di quelle discipline,
la cui cognizione possa tornar loro vantaggiosa nell’esercizio di quella tra le
arti, a cui hanno in animo di consacrarsi. Questo è il sentiero che eglino
percorrer dovrebbero. Ma, ne sia permesso il dirlo, nelle nostre scuole non
vengono generalmente insegnate le discipline di cui è fatta menzione. Ché il
metodo attuale d’istruzione sembra esser sovra tutto destinato a diffondere la
cognizione della latina favella. Né io son d’avviso che debba trasandarsi lo
studio di questa. Dico solo che dovrebbero apprenderla coloro che le Lettere,
non coloro che le Arti coltivano. Dalle premesse cose sembrami risultar
chiaramente la utilità di una scuola per gli Artigiani. Perché, finché mancherà
questa, gli artigiani non potranno esser convenientemente istruiti. Perché,
finché eglino nol saranno, non è da sperare alcun miglioramento nelle nostre manifatture.
Perché, finché le nostre manifatture saranno inferiori a quelle delle altre
Nazioni, il nostro Commercio sarà necessariamente passivo. E ciascuno vede di
leggieri che là ove il Commercio è passivo, ivi esser non può aumento ma sì
diminuzione di ricchezza. Passerò ora ad indicare quali rami d’istruzione
dovrebbero esser coltivati nella proposta scuola. Dovrebbero ivi pertanto
insegnarsi la Meccanica e il Disegno lineare, in pari modo che gli elementi di
Fisica, di Chimica e di Geometria. Perché queste sono le discipline, la cui
cognizione rendesi necessaria a chiunque pervenir voglia ad una certa qual
perfezione nell’esercizio della più parte delle Arti. Né omettersi dovrebbe lo
studio della Lingua Italiana”. La presenza dell’elemento patriottico non
copre la constatazione che anche per gli artigiani, così come per i contadini,
la prospettiva che viene indicata sia quella di una integrazione subalterna,
con la conseguente necessità di una istruzione differenziata rispetto a quella
da impartirsi alla futura classe dirigente:
“Ora, chi è che non comprenda che un solo metodo d’istruzione non può esser
sufficiente a tutte le classi che l’umana famiglia compongono? E’ chiaro
difatti che ciò che può riuscir utile all’una, esser può all’altra o superfluo
o anche dannoso. Ché dannoso è tutto ciò che, cagionando perdita di tempo, non
reca alcun risultato”. Maggiore apertura sociale è rintracciabile
nell’articolo Istruzione: “Il Liceo, edificato sulle piacevoli ruine e
fra gli ombrosi boschi dell’Ilisso, dove Aristotile dava lezioni di filosofia,
era per pochi giovani studiosi, non segnato dalle pedate di alcun artigiano o
mercatante ateniese, e molto meno di fruttaiolo o contadino de’ campi
dell’Attica. Il nobil disegno di tramandare la santa scienza al basso popolo fù
riservato alla nostra età. Né tempi andati, si accumulava ne’ pochi ricchezze,
scienze, cognizioni religiose, speranze pubbliche. Gli scienziati, i letterati,
si allontanarono dalla battuta via della vita comune. Stimarono aver poco o
nulla a fare col mondo in generale, pochi assai furono gli interessi che vi
sentirono. Non s’accorsero che per sublimarsi nella scienza conveniva scevrarla
dell’egoismo; che essa è nulla quando non serve giornalmente di scorta a tutti
gli uomini. Da questa verità (ed è gran ventura), mostrano esser tocchi gli
scienziati e letterati del nostro secolo, portando ogni acquisizione umana ad
una ragion pratica e facendo discendere la scienza dalle sue superbe ed
inaccessibili alture, per essere la compagna della più bassa gente negli umili
focolai”.[19] Il brano è di un certo interesse: la
scienza ed il sapere non devono essere esclusivo appannaggio delle classi
dominanti, ma patrimonio di tutti, non solo in quanto elemento di
valorizzazione della forza lavoro, (“la
scienza non è d’impedimento all’uomo, bensì d’aiuto. Ché invece di ritardarlo
gli produce un aumento di lavoro e una
maggior perfezione nell’opera, la quale perciò accresce di prezzo”[20]), bensì come istanza di libertà.
Libertà dall’ignoranza attraverso la ragione, in ciò è sensibile una tensione
illuministica, affrancamento dalla natura attraverso la scienza applicata in
una dimensione sansimoniana, libertà dalla rigidità delle classi sociali
attraverso una mobilità sociale legata ad una modernizzazione capitalistica
della nazione. La tensione illuministica, mediata da aspetti sansimoniani, che
si riscontra nel ruolo assegnato alla scienza, non è un tratto isolato nelle
pagine dell’”Indicatore Pisano”: “Noi
siamo nati in tempi nei quali nessuna verità resta sterile, e noi vediamo le
numerose rivelazioni delle fisiche Scienze e della Chimica avere una pronta ed
utilissima applicazione agli usi della vita civile o domestica. Il mistero
delle forze fisiche si è un poco rivelato sotto la costante pressione delle
forze dello umano intelletto, e forze puramente meccaniche si sono sostituite
alle forze dei bruti, sostituite un dì a quelle degli uomini. Nei paesi dove
col vapore si crea un azione impellente ed una luce emula di quella del sole,
sorge un nuovo “fiat”. E gli spiriti animatori della materia non dormono più in
essa come avvisava Schelling”.[21]
La fortissima tensione di libertà e affrancamento dell’uomo, che doveva
percorrere una parte significativa della realtà pisana, arrivava a mettere in
discussione quella che veniva considerata la naturale divisione in classi
dell’umanità con una forza tale da manifestarsi non solo nella propaganda
clandestina, ma addirittura sulle pagine di una pubblicazione ufficiale: “Dobbiamo confessare che i manuali di
scienze e arti pubblicati fin’ora, sono fatti per gente letterata, piuttostochè
per artigiani ignoranti: che nelle librerie economiche uscite in Italia avvi
poche opere elementari che possano ajutare e immediatamente corrispondere alle
prime ricerche di un osservatore. [...]. Alcuno
scettico osservatore freddo risponde <tutto questo non è altro che un
modello da utopista, una delle forme della moderna stravaganza; un tentativo
per trasportare il popolo fuori della sua condizione, fare di bifolchi filosofi
e leggitori di lavoratori che erano>. [...]. L’impresa di disseminare le cognizioni scientifiche fra il popolo,
corre notata di chimerica, visionaria, solo perché è nuova. Una parte dell’uman
genere non fu fatta certamente per essere ignorante e lavorare, e l’altra per
comandare e godere“.[22] Il tema del superamento della divisione in
classi dell’umanità, elemento che potrebbe derivare dall’egualitarismo
comunistico, viene affidato alle capacità di dominio dell’uomo sulla natura ed
allo sviluppo delle forze produttive: ”Ciò
che è utile non può dirsi visionario! Quello che costituisce l’utilità d’ogni
misura o d’ogni acquisto non può essere una quistione! La cognizione dei poteri
meccanici e delle disposizioni della natura aumenta gli agi e i requisiti alla
vita! La Scienza è l’impero dell’uomo sopra la natura! E’ quella che distingue
il barbaro soggetto agli elementi, dall’uomo incivilito che li comanda! Quella
che rende di giorno in giorno la natura maggiormente soccorrevole agli usi
dell’uomo, in ciò che riguarda il cibo, la medicina, il vestire, l’abitazione,
le convenienze, gli agi! Perché mai uno stromento così poderoso nelle mani di
uno studioso, e tanto inutile in quelle di un ignorante?”. L’esortazione
finale prende le mosse dallo stesso humus culturale e dalla stessa
articolazione retorica nella quale affondano le radici della Ginestra
leopardiana, sulla quale si innesta una fiducia sansimoniana nel progresso
affidato alla “santa scienza”: ”Vediamo esseri umani, in guerra continuamente colla natura,
contendenti a loro svantaggio, fluttuanti e sbattuti dagli elementi, mal
condotti dalle apparenze, turbati dagli errori, vinti dagli accidenti,
travagliati spesso per mancanza di cura, e dolenti per mancanza di oggetti,
sebbene il mondo ne sia pieno. A tutto questo è rimedio la scienza”.
[1] Il Rossi, come è stato rilevato, fu “uno dei più competenti enologi” toscani della restaurazione. C. Pazzagli, L’agricoltura toscana nella prima metà dell’800, Firenze, Olschki, 1973, p. 243.
[2] Bibliografia agronomica, saggio di un catalogo ragionato de’ libri d’agricoltura e veterinaria scritti in italiano o all’ Italia spettanti, Milano, Vedova di A. F. Stella e Giacomo Figlio, 1844.
[3] G. R., Economia, cap. III, “Indicatore Pisano”, n. 3, 30 gennaio 1839, p. 11.
[4] G. R., Economia, cap. I, “Indicatore Pisano”, n. 1, 10 gennaio 1839, p. 1.
[5] ibid.
[6] G. R., Economia, cap. II, “Indicatore Pisano”, n. 2, 20 gennaio 1839, p.7.
[7] ibid.
[8] G. R., Economia, cap. III, “Indicatore Pisano”,n. 3, 20 gennaio 1839, p. 11.
[9] ibid.
[10] Due richiami per inciso: le critiche al liberismo erano state strumento della polemica mazziniana sviluppatasi in Toscana negli anni trenta, il ruolo dello stato nell’economia era stata una posizione sostenuta da alcuni economisti toscani come Aldobrando Paolini. Cfr Renato Mori, La stampa socialisteggiante (radicale) nel 1848-1849, in “Rassegna storica del Risorgimento”, 1951, pp. 523-535: “Si può dire senz’altro che l’opera del Paolini contiene i germi di tendenze socialistiche, anche se per lungo tempo si ritenne espressione di indirizzi liberistici. Le discussioni all’Accademia dei Georgofili del 1824 fecero comprendere quanto il Paolini fosse lontano dal sostenere un pieno liberismo, ma si fraintese dai più il movente ideologico che spingeva l’economista pistoiese a ripudiare la condanna di ogni forma di intervento statale nell’economia e si disse che era ritornato ai preconcetti mercantilistici. Coloro, però, che andavano a rileggere l’opera del Paolini e vi trovavano scritto che compito dello stato è quello di <dividere le fortune> per renderle più equamente distribuite, comprendevano che l’intervento statale nell’economia non era richiesto per fini utilitaristici volontaristici, ma per fini sociali umanitari, ed appariva loro chiaro che anche il Paolini aveva fatto parte di quel gruppo di giovani che nell’Università di Pisa erano stati indirizzati all’insegnamento del Lampredi e del Sarti allo studio dei problemi politici con larga comprensione dei diritti dell’uomo e sicura fede nel progresso umano. Del gruppo rimanevano solo il Buonarroti e il Paolini, e mentre il primo trascinava per l’Europa la sua inquietudine e le sue audaci utopie, nella paciosa Toscana di Leopoldo II, al Paolini, piegato dai malanni ed in sospetto della polizia dopo le dure esperienze del carcere del 1799, non restava altro che tener desta la corrente umanitaria ed il ripudio del trionfante liberismo era già atto di coerenza e di fermezza morale”.
[11] G. R., Economia, cap. III, “Indicatore Pisano”, n. 3, 30 gennaio 1839, p. 11.
[12] G. R., Economia, cap. IV, “Indicatore Pisano”, n. 5, 20 febbraio 1839, p. 19: “La parola d’ordine nei possidenti toscani è il lasciar fare - Essi riguardano le innovazioni come atti illeciti, e non vogliono che rispettare i sistemi lasciati dai loro antenati - sapete a cosa porta questo lasciar fare, e questo rispetto? -alla miseria”.
[13] “Indicatore Pisano”, n. 17, 20 giugno 1835, p. 66-67.
[14] “Indicatore Pisano”, n. 36, 30 dicembre 1835, p. 144.
[15] ibid.
[16] “Indicatore Pisano”, n. 32, 20 novembre 1836, p. 125.
[17] G. Mancini, Sulla utilità di una scuola per gli Artigiani, “Indicatore Pisano”, n. 32, 20 novembre 1836, pp. 126-127.
[18] ibid., p. 127.
[19] “Indicatore Pisano”, 10 aprile 1839, pp. 37-38.
[20] “Indicatore Pisano”, n. 11, 20 aprile 1839, p. 42.
[21] D. Turchetti, Sulla necessità della centralizzazione delle forze intellettuali d’Italia, “Indicatore Pisano”, 20 febbraio 1839, p. 7.
[22] Cfr l’articolo Istruzione, “Indicatore Pisano”, 20 aprile 1839, p. 42.