L’Università ad una svolta: la riforma Zecchino

Elena Rappazzo

 

Anche quella del duemila è stata un’estate fruttuosa per il governo di centrosinistra: ha dato alla luce la versione ufficiale e definitiva della Riforma Universitaria, corollario alla ormai attuale riforma dei cicli che è già realtà nella nostra scuola.

Una cosa va riconosciuta ai Governi di centro-sinistra che si sono susseguiti in questa legislatura: sono riusciti a lasciare segni indelebili del loro passaggio, dalle politiche sociali (tagli e controtagli alle pensioni e alle garanzie sindacali), alla politica estera (guerre umanitarie sostenute con l’entusiasmo di uno scolaro al suo primo giorno), alle politiche culturali (riforma della scuola secondaria e dell’Università).

Unico è l’imperativo: omologarsi all’Europa che nasce e che cresce.

Ogni provvedimento preso di comune accordo con gli altri governi europei, viene spacciato come condizione necessaria per la nostra permanenza nella comunità, ed ogni provvedimento è peggiorativo della situazione esistente. Non è pensabile che la cultura e la formazione potessero essere risparmiate. E così è stato.

Da qualche anno a questa parte, anche i neolaureati italiani hanno cominciato ad uscire dall’Italia e ad andarsene in Europa sia nell’Università che nell’industria e da queste sono stati accolti molto bene, anzi, sono quasi sempre preferiti ai loro colleghi europei anche se questi ultimi sono mediamente più giovani( 23 anni contro i 26/28 italiani). Questo perché gli studenti italiani  hanno un livello culturale e un’elasticità maggiori, dal momento che la loro formazione non è troppo specialistica, ma organica e, per quanto possibile, completa.

Gli studenti europei, rispetto agli italiani, entrano all’Università con un anno di anticipo e, soprattutto, ne escono nei tempi stabiliti: se sulla carta è scritto che un corso di studi dura tre anni più due di specializzazione, quella è la sua durata effettiva.

In Italia questo non succede mai tranne rarissimi casi (anche gli studenti della Scuola Normale Superiore e del S. Anna hanno almeno un anno di proroga per potersi laureare…). E ciò è dovuto ad un certo numero di fattori, tra cui la quasi totale assenza di coordinazione da parte dei docenti nella stesura dei programmi di esame (ripetizione di moltissime nozioni da un esame all’altro ed omissione di altre), l’esito spesso incerto dello stesso esame (non esistono parametri oggettivi per la valutazione: la variabile è spesso l’umore di chi esamina!)…

Tutti sono concordi nel dire che la situazione descritta non sia più sostenibile, ma il modello che è stato proposto e che, già dal nuovo anno accademico sarà effettivo, non sarà un miglioramento, anzi, sarà un livellamento verso gli standard europei, ben più bassi di quelli italiani!

 

Le origini di  questa riforma le possiamo far risalire al 1990 con la famosa (e famigerata!) Legge Ruberti. Essa ha sancito di fatto l’autonomia degli atenei: la risposta quasi immediata è stata la diminuzione progressiva e sempre più massiccia dei finanziamenti statali, con il conseguente aumento delle tasse universitarie, ogni ateneo a proprio modo (Pisa e Firenze, ad esempio, hanno rette differenti), creando, di fatto, la prima grande selezione di classe: non tutti possono permettersi il lusso di studiare pagando tasse, testi e, magari, affitto. Tranne qualche caso i privati non hanno finanziato l’università statale, ma ne hanno condizionato le politiche culturali: sono infatti stati creati negli anni corsi di studio ad hoc (Scuole a fini speciali, diplomi universitari, corsi di laurea), che si sono dimostrati veri e propri corsi di formazione/lavoro, a spese universitarie, in nome di una promessa-ricatto dello sbocco lavorativo.

 

La riforma lascia completo mandato ad ogni università di fare ciò che vuole: ciascun ateneo stabilisce in piena autonomia regolamenti che disciplinano gli ordinamenti dei propri corsi, i parametri per l’ammissione, i filtri di entrata e di uscita.

 

Come per la riforma della scuola secondaria superiore (di cui quella universitaria è emanazione diretta) si è assistito alla nascita dei cosiddetti “crediti formativi”: infatti “ tutto il lavoro di apprendimento svolto dallo studente, incluso lo studio individuale, sarà tradotto in crediti formativi. Saranno necessarie 25 ore di lavoro per ottenere un credito e la quantità media di lavoro svolto in un anno, con impegno a tempo pieno, è stata convenzionalmente fissata in 60 crediti. Attenzione, però: i crediti non si ottengono automaticamente. L’attribuzione degli stessi passa attraverso il superamento dell’esame, quello tradizionale, sempre espresso in trentesimi. Gli atenei potranno riconoscere come crediti formativi universitari anche le attività svolte all’esterno.” (Mariano Berriola dal Corriere della Sera).

 Sono gli atenei che stabiliscono, ovviamente, quanti crediti saranno attribuiti ad un esame o ad un altro. Non cambierà, di fatto, niente dal precedente sistema: resteranno gli sbarramenti.

 

Vengono create 41 classi per la laurea di tre anni: alcune di esse saranno semplicemente la rinominazione dei corsi tradizionali, mentre in altri casi andranno a sostituirsi ad essi, dando più spazio agli elementi tecnici e professionalizzanti a discapito della formazione culturale e scientifica.

Le lauree conseguite al termine dei corsi non avranno tutte lo stesso valore legale: quest’ultimo dipenderà dalla classe di appartenenza.

 

Viene eliminata la laurea unica di quattro e cinque anni (sei per Medicina) e sostituita con una laurea di tre anni e 180 crediti, più snella, più giovane, più europea; l’obiettivo del corso di laurea è quello “di assicurare allo studente un’adeguata padronanza di metodi e contenuti scientifici generali, nonché l’acquisizione di specifiche conoscenze professionali” (articolo 3, comma 4).

Ad esso può seguire la laurea di specializzazione di due anni e 300 crediti che “ha l’obiettivo di fornire allo studente una formazione di livello avanzato per l’esercizio di attività di elevata qualificazione in ambiti specifici” (articolo 3, comma 5).

Ad entrambe le lauree può seguire un master di un anno. 

Tutti allora possono iscriversi all’Università ed entrare, da laureati e più giovani nel mondo del lavoro, giusto? Sbagliato!

L’articolo 6, comma 1 recita infatti:”Per essere ammessi ad un corso di laurea occorre essere in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore o di altro titolo di studio conseguito all’estero, riconosciuto idoneo. I regolamenti didattici di ateneo, ferme restando le attività di orientamento (…), richiedono altresì il possesso o l’acquisizione di un’adeguata preparazione iniziale. A tal fine gli stessi regolamenti didattici definiscono le conoscenze richieste per l’accesso e ne determinano, ove necessario, le modalità di verifica, anche a conclusione di attività formative propedeutiche, svolte eventualmente in collaborazione con istituti di istruzione secondaria superiore.Se la verifica non è positiva vengono indicati specifici obblighi formativi aggiuntivi da soddisfare nel primo anno di corso. Tali obblighi formativi aggiuntivi sono assegnati anche agli studenti dei corsi di laurea ad accesso programmato che siano stati ammessi ai corsi con una votazione inferiore ad una prefissata votazione minima”.

Questo è l’articolo che ha suscitato il maggior numero di proteste da parte degli studenti ma non solo:lo stesso Luciano Modica, Presidente della Consulta dei Rettori, che tanto ha contribuito alla filosofia della riforma, ha avuto da ridire sul filtro in entrata anche per quei corsi che non sono istituzionalmente a numero chiuso. E’ per questo che si è vista la nascita dei debiti formativi, accanto a quella dei crediti.

Ogni ateneo può disegnare la carta di identità dei propri studenti, scegliere in base alla scuola e alla città di provenienza: è impensabile che le attività formative propedeutiche possano essere svolte in collaborazione con un istituto di istruzione secondaria qualsiasi di Messina e, per esempio, l’ateneo milanese; gli studenti messinesi, quindi,difficilmente potranno iscriversi all’Università di Milano.

Vale la pena di citare parte di un’intervista al ministro Ortensio Zecchino al Corriere della Sera:”…Non vogliamo sbarrare la strada a nessuno. Tant’è che non accadrà. Semplicemente, chi si iscriverà lo farà già sapendo qual è la sua vocazione, già nelle scuole superiori avrà coltivato le sue attitudini. Sarà una scelta più ponderata, dunque più sicura.(…)Dunque il filtro non è discriminazione, al contrario rende un servizio ai giovani. Vogliamo orientare, non respingere”.

 

Anziché cercare di innalzare il livello culturale europeo ci si adegua supinamente alle normative comunitarie: anche in questo caso la firma a questo scempio è di un Governo di centro-sinistra.

Che altro rimane da dire?

Nonostante le contraddizioni presenti, il processo di costruzione del polo imperialistico europeo prosegue e, come uno schiacciasassi, travolge tutto ciò che non si omologa ai parametri del mercato e della concorrenza con USA e Giappone. Neanche la tanto decantata formazione culturale italiana, che affondava le sue radici nella tradizione classica, si è salvata. Coltivare ancora illusioni sul fatto che questo gigantesco processo permetta la sopravvivenza di nicchie in qualche settore della società che possono evitare una decisiva ristrutturazione, significa oggi qualcosa di più di un semplice errore di valutazione politica: significa essere succubi, e quindi complici, degli scopi del capitale.