L’estate
tedesca della Seconda Repubblica
Francesco
Giuntoli
Estate 2000:
la Seconda Repubblica si appresta a varare una nuova legge elettorale, dopo gli
esiti del referendum del 21 maggio.
Sullo
sfondo il modello tedesco ed il sistema elettorale con cui vengono eletti i
rappresentanti al Bundestag: per metà attraverso i collegi uninominali
(Direkmandate), l’altra metà con il sistema proporzionale su liste di partito.
Questo congegno elettorale è ulteriormente corredato da due strumenti che ne
garantiscono il funzionamento sul piano della governabilità:
1)
lo
sbarramento elettorale al 5%, tale da escludere dal Bundestag le liste minori,
a meno che non conquistino un minimo di 3 collegi uninominali
2)
la norma
della “sfiducia costruttiva”, secondo la quale ogni mozione di sfiducia parlamentare
contro il governo del Cancelliere in carica deve presentare una maggioranza già
concordata per la successione.
Inoltre
è previsto un meccanismo di parziale riequilibrio in virtù del quale ogni lista
non può vedersi assegnato un numero di parlamentari superiore alla quota
proporzionale conseguita. L’elettore tedesco riceve così due schede: una per il
collegio uninominale (o mandato diretto), l’altra per le liste politiche
regionali su base proporzionale. Quindi può avvalersi della facoltà di votare
in modo difforme sulle due schede.
Vale
la pena riassumere nei dettagli questo meccanismo elettorale, complesso ed
articolato, che fu concepito e finalizzato, nella Germania della guerra fredda,
ad escludere le piccole formazioni politiche dal parlamento. Grazie a queste
restrizioni, e ad altre introdotte successivamente[1],
il sistema tedesco si è garantito per 50 anni grazie a un funzionamento che
manteneva tutte le apparenze democratiche formali ma, contemporaneamente,
metteva fuori combattimento ogni tipo di opposizione fondamentale, utilizzando
la stessa legalità democratica. Il bipolarismo fra Democrazia Cristiana e
Partito Socialdemocratico, comprensivo della rispettiva alternanza ai vertici
del potere esecutivo, veniva così a rafforzare l’involucro della dittatura di
classe della borghesia (e dell’egemonia USA sull’Europa occidentale) escludendo
dalla rappresentanza parlamentare le istanze politiche e sociali oppresse e
schiacciate dal sistema stesso.
Questo
modello, profondamente antidemocratico e antiproletario, viene tuttavia
considerato dall’estrema sinistra parlamentare italiana (vedi Rifondazione
Comunista, prima con la segreteria Garavini poi con quella Bertinotti) come il
più avanzato possibile o come il “male minore”, da offrire al dibattito
politico e parlamentare sul nuovo assetto della democrazia italiana. L’accettazione
del sistema elettorale tedesco da parte del PRC (nelle sue diverse stagioni in
questo decennio) poggia su un’unica considerazione: che il partito riesca a
superare il fatidico 5% e quindi possa
accedere alla rappresentanza parlamentare. Contemporaneamente ci si garantisce
da un’eventuale concorrenza “a sinistra” sul piano elettorale. Questa
considerazione è tuttavia confortata solo da un modesto 5,1% ottenuto dal PRC
alle ultime regionali (nel 1992 Rifondazione con segretario Garavini raccolse
alla prima uscita elettorale, il 5,6%).
Non
si spiega allora tanta “incoscienza” e non si giustifica alcun azzardo se non
con l’accettazione definitiva e supina da parte del PRC del sistema bipolare
(in questo senso si è espresso ben più chiaramente l’ineffabile Cossutta)
mentre lo stesso risultato referendario del 21 maggio incoraggerebbe la ripresa
di una battaglia vigorosa per il ripristino del sistema proporzionale tout-court.
L’ambito istituzionale in cui si muove il PRC risulta così lo stesso dettato
dall’avversario di classe che in questo modo riceve, anche dagli oppositori
dell’estrema sinistra parlamentare con l’accettazione dello sbarramento del 5%,
un riconoscimento democratico sul piano della rappresentanza che così non è nelle
cose né tantomeno trova riscontro nella storia delle battaglie democratiche
condotte dai comunisti e dalle sinistre in un passato ancora recente. Eppure la
“sberla” rimediata dai fautori del maggioritario, rafforzato all’inglese o all’americana,
nelle recenti consultazioni referendarie non è stata di poco conto: due terzi
degli elettori italiani hanno disertato le urne. Di quelli che hanno votato una
parte non trascurabile si è espressa contro le proposte liberticide dei vari
Pannella-Veltroni-Segni-Occhetto ecc..
Ce
n’è da rimanere storditi (e infatti lo sono). Certo, l’astensione elettorale
non coincide con una richiesta palese di rinnovamento democratico in senso
proporzionalista. C’è di tutto in questo rifiuto della scheda elettorale, ma c’è
soprattutto la bocciatura di un sistema maggioritario che, dopo la sua
introduzione nel 1993 (“…ricorderete quel 18 aprile …”) ha prodotto un
allontanamento successivo dalla partecipazione al voto sempre più consistente,
fino ad avvicinare la metà dell’elettorato nelle ultime tornate europea e
regionali. Nel grande e composito serbatoio dell’astensione elettorale ci sono
risorse almeno sufficienti per la riapertura di un dibattito serio sulla
democrazia rappresentativa, tale da preparare il terreno per nuovi spazi di
agibilità e di cittadinanza per chi, sul piano sociale e politico oggi viene
escluso da questo sistema. Questo è uno dei luoghi e dei temi, possibili e
necessari per la ricomposizione sociale di settori di proletariato e di
lavoratori, così come di ricomposizione politica dei comunisti su un terreno
democratico e di classe. Qui ed ora è necessario produrre orientamento e
cultura, battaglia politica e scontro sociale per gettare le basi solide e le
fondamenta durature su cui possa poggiare in futuro l’opposizione di classe nel
nostro Paese.
A
questo compito sono chiamati i comunisti sparsi che hanno rifiutato di
omologarsi alla Seconda Repubblica, separando le loro responsabilità dalle
scelte dei partiti comunisti oggi presenti nel parlamento italiano. I quali si
comportano, né più né meno come quei cercatori d’oro dell’Alaska di Jack London
che, inseguiti con la loro slitta da una muta di lupi affamati, gettavano loro
in pasto, di tanto in tanto, dei buoni pezzi di carne in modo da rallentarne la
corsa e ritardarne l’inseguimento, con la speranza di arrivare, così
alleggeriti ma vivi, alla meta. Altrettanto i dirigenti comunisti del PRC e del
PdCI (pur con accezioni e modulazioni diverse da quando si sono separati nel
1998) abbandonano pezzi consistenti e polposi della cultura politica di cui si
sono nutriti, alla muta inferocita dei lupi capitalisti, con la sola speranza di
conservare i seggi parlamentari per cui vivono.
Infatti
gli ingegneri istituzionali della Seconda Repubblica incassano i cedimenti dei
vari PC ma poi continuano, famelici più che mai, la corsa per papparsi l’intera
democrazia che ci era stata consegnata dalla Lotta di Liberazione e dalla
Costituzione repubblicana.
Traducendo
in termini politici espliciti la metafora londoniana che mi sono concesso
abbiamo che: il sistema elettorale tedesco si applicherà al caso italiano
(stando alle ultime proposte sul tappeto) con l’aggiunta di un premio di
maggioranza, tale da favorire gli apparentamenti fra gruppi e partiti, e di una
legge “antiribaltone”. Naturalmente ciò fa inorridire i più rigorosi fra gli
stessi intellettuali organici della borghesia esperti in questioni elettorali
dato che:
1)
incoraggiare
l’apparentamento vuol dire incoraggiare il diritto di veto delle formazioni
minori che si moltiplicherebbero a dismisura anziché sparire
2)
in nessun Paese
al mondo esiste (o può esistere) una legge che vincola la fedeltà del deputato
allo schieramento iniziale che lo ha eletto, pena la violazione stessa delle
regole liberal-borghesi.
Ma
dal ceto politico della Seconda Repubblica possiamo aspettarci questa ed altre
sorprese mostruose. Soprattutto quando la discussione politica si riduce negli
spazi angusti e oscuri del palazzo, cui accedono solo gli addetti ai lavori,
accuratamente e preventivamente selezionati da un sistema che sul piano
elettorale impedisce la rappresentanza di chi si trova all’opposizione
risultando danneggiato ed escluso rispetto alle scelte economiche e politiche
generali. E soprattutto quando l’opposizione parlamentare di sinistra
cinguetta, balbetta e non esce dalla gabbia del bipolarismo di cui abbiamo
avuto ampia esperienza con l’alternanza Polo-Centrosinistra negli ultimi sette
anni.
Al
momento attuale sembra scontato che debba essere proprio Silvio Berlusconi a
mettere all’incasso nell’immediato il risultato del referendum del 21 maggio
(cui fra l’altro ha sensibilmente contribuito). La pochezza dei suoi avversari
del centro-sinistra è tale e tanta che questo non deve stupirci. Del resto l’opzione
referendaria dei fautori del maggioritario andava comunque battuta costituendo
il pericolo più grave e consistente per la residua democrazia italiana.
Vorremmo
poter dire, come gli indipendentisti africani delle colonie tedesche nel 1914,
che prima si elimina un padrone (appunto i colonialisti tedeschi) poi,
rafforzati si elimina il padrone successivo (i colonialisti inglesi, francesi,
belgi). Purtroppo non è così e dopo la sonora lezione impartita a Pannella
Veltroni e soci, possiamo contare solo su un po’ di respiro per raccogliere le
forze e le idee. E il tempo a disposizione e le stesse forze di cui ancora
disponiamo vanno usate con cura ed
efficacia. A partire da questa rivista che, con pochi mezzi riusciamo a
far vivere e dei gruppi e dei circoli che ancora si raccolgono attorno ad una
ipotesi di progettazione e di riaggregrazione comunista. La consistenza e la
credibilità di questa ipotesi non può dipendere, tuttavia, solamente dallo
sforzo volontario (necessario ma insufficiente) di quei comunisti che in questi
mesi tentano di darsi una qualche forma di coordinamento magari preparandosi,
fra le altre cose, all’appuntamento elettorale del 2001, sulle cui modalità
elettorali ci siamo ampiamente soffermati.
E’
alle porte una ulteriore crisi di Rifondazione Comunista che difficilmente
riuscirà a protrarre ancora a lungo l’equivoco della sua “alternatività” al
sistema. Sempre che la pochezza del ceto politico che dirige il centro-sinistra
non costringa il PRC di nuovo fuori dalle alleanze elettorali. Ma a tutto c’è
un limite.
Questo
passaggio non può essere eluso e quell’appuntamento con la scadenza elettorale
non può essere sottovalutato, pena un ritardo rispetto ai tempi umani della
politica che finirebbe per limitare la stessa prospettiva generale di
riorganizzazione dei comunisti. E’ necessario allora porsi il problema di un’azione
concorrenziale rispetto al PRC anche sul terreno delle elezioni politiche.
Questo non significa che riteniamo utilizzabile la presenza istituzionale per
rappresentare sul terreno politico gli oppressi e gli sfruttati. Nel quadro
reazionario della Seconda Repubblica ciò non è dato. Si tratta invece di
rendere visibile ad un numero più alto possibile di lavoratori e di cittadini l’opzione
comunista di cui siamo portatori e che oggi è costretta nel limbo dei circuiti alternativi e della
propaganda diretta.
[1] Nelle elezioni politiche del 1949 in
Germania, le prime dopo la guerra e le uniche che vi si sono tenute con il
sistema proporzionale, il Partito Comunista Tedesco ottenne 12 deputati. Questo
risultato consentiva ai comunisti di partecipare a tutte le commissioni
parlamentari, compresa quella di vigilanza sui servizi segreti. Il numero
minimo dei deputati che dava il diritto di partecipare alle commissioni fu
allora elevato da 12 a 15, proprio per escluderne la presenza dei comunisti.
Successivamente viene introdotto lo sbarramento elettorale del 5%. Nel 1956,
sotto il cancellierato democristiano di Adenauer il partito comunista tedesco
viene proibito per legge. Nel 1970, sotto il cancellierato socialdemocratico di
Willy Brandt, viene promulgato l’ “Editto sui radicali”, in virtù del quale
vengono esclusi dai pubblici uffici (scuole, enti statali ecc.) tutti i membri
dichiarati dei gruppi e partiti “radicali”, comunisti compresi.