La funzione odierna delle istituzioni finanziarie internazionali del capitalismo:

il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.

Raffaele Picarelli

 

Il sistema di Bretton Woods

Nel luglio del 1944 a Bretton Woods, nome di una borgata del New Hampshire negli USA, nell’ambito della Conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite, cui parteciparono 44 stati, furono create le due istituzioni, dette appunto di Bretton Woods, vale a dire il FMI e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, nome originario di quello che è poi diventato il gruppo della Banca Mondiale.

Nella conferenza di Bretton Woods si scontrarono due vedute opposte. La delegazione inglese, guidata da Keynes, sosteneva la necessità e l’opportunità di creare una moneta internazionale (per la quale era stato ipotizzato il nome di “bancor”) avente natura puramente creditizia ed emessa da una Banca mondiale di nuova istituzione. I paesi con bilancia dei pagamenti in avanzo sarebbero risultati titolari di depositi presso questa banca mondiale; i paesi in disavanzo verso il resto del mondo sarebbero risultati debitori. Poiché si presumeva che, a parte squilibri transitori, ogni paese dovesse tenere la propria bilancia dei pagamenti in equilibrio, a lungo andare nessun paese sarebbe risultato né debitore né creditore della Banca mondiale. I vantaggi di questo sistema erano evidenti:

a)      in caso di disavanzo il paese interessato avrebbe ottenuto un credito dalla Banca mondiale;

b)      nessun paese era quindi obbligato a tenere costose riserve in valuta estera per far fronte ai disavanzi;

c)      vi era il vantaggio politico che il credito al paese in disavanzo sarebbe stato concesso dall’insieme dei paesi in avanzo, cioè dalla Banca mondiale, e non da un paese specifico.

 

Questa ipotesi fu osteggiata dagli USA, la cui delegazione era capeggiata dal governatore White, con il motivo che una ipotetica banca mondiale abilitata a concedere crediti avrebbe potuto protrarre per tempi indefiniti i finanziamenti ai paesi in disavanzo. Ne sarebbero conseguiti un aumento della liquidità internazionale e un pericolo di inflazione. La linea americana prevalse.

Gli accordi di Bretton Woods – ai quali l’Italia aderì nel 1947 – stabilirono che i pagamenti internazionali nel mondo occidentale sarebbero stati regolati mediante utilizzazione di una qualsiasi valuta internazionale, liberamente scelta dai contraenti. Data la situazione storica del momento era fatale che il dollaro divenisse la moneta comunemente usata nei pagamenti internazionali: il dollaro era l’unica valuta convertibile in oro (vigeva ancora il rapporto, fissato nel 1934, di 35 dollari per oncia d’oro) e gli Stati Uniti erano l’unico paese uscito praticamente indenne dalla guerra e quindi il solo mercato in grado si soddisfare le esigenze della ricostruzione.

Gli accordi di Bretton Woods avevano previsto un sistema di cambi fissi o stabili (sistema di parità fisse fra le valute).

Ogni paese aderente, una volta dichiarata la parità iniziale della propria valuta ( e cioè il rapporto di cambio con il dollaro e quindi con l’oro) si impegnava a difendere tale parità nonchè si obbligava ad assicurare la convertibilità della propria valuta.

Il FMI venne creato per rendere possibile il funzionamento di questo sistema, consentendo in casi estremi di portare la parità a livelli più realistici allorché un paese si trovasse in “squilibrio fondamentale” (perdita di un mercato, ridotta capacità di esportazione, ecc.).

La seconda funzione dell’FMI consisteva nel concedere finanziamenti a breve termine agli stati membri con deficit temporanei nelle loro bilance dei pagamenti (prestiti in valuta estera).

In sostanza gli accordi di Bretton Woods tendevano a:

1)      consentire agli Stati Uniti di aprire alle loro merci il maggior numero di mercati prevenendo ogni velleità protezionista dell’Europa devastata dalla guerra;

2)      stabilire – attraverso la convertibilità delle valute – “il signoreggio” del dollaro;

3)      consentire ai singoli paesi aderenti di controllare il movimento di capitali, imponendo divieti o limitazioni alle esportazioni di capitali finanziari, al fine di impedire ondate speculative che avrebbero messo a repentaglio la stabilità dei cambi.

 

Il sistema di Bretton Woods non poneva tra le sue finalità la creazione di un mercato finanziario strettamente integrato. Conseguenza di questa impostazione era che ogni paese, non potendo compensare eventuali squilibri nei movimenti di merci attraverso movimenti di capitali, era costretto a tenere in equilibrio separatamente i movimenti di merci e di capitali.

Poichè questo sistema non dava luogo alla formazione di un mercato finanziario unico, esso consentiva a ogni paese di tenere dei tassi di interesse interni al livello giudicato più adatto alle esigenze della propria situazione senza necessità di adeguare i propri tassi a quelli del mercato internazionale. Ogni paese poteva quindi manovrare i tassi di interesse in modo da portare la domanda interna a un livello tale da assicurare una elevata occupazione.

All’origine i fondi del FMI furono quasi esclusivamente utilizzati da paesi europei.

La situazione emersa da Bretton Woods sostanzialmente apriva una fase in cui il capitale produttivo era impiegato nella ricostruzione. Tutto quanto avanti detto (limitazioni ai movimenti di capitale, convertibilità delle valute, sistema di cambi stabili) significava una crescita dell’accumulazione reale che durò, per la ricostruzione, per diversi anni (capitalismo dal volto umano, keynesismo, riformismo). [1]

Per lunghi anni, e precisamente fino al 1971, gli Stati Uniti difesero il dollaro nel tentativo di evitare che una minore domanda di dollari imponesse una svalutazione (per effetto della crescita dello yen e del marco). Venne stabilito che le riserve in dollari delle banche centrali potessero essere convertite in titoli fruttiferi della riserva federale USA; le banche centrali dei paesi europei autorizzarono le aziende di credito a ricevere depositi in dollari, creando così una circolazione in dollari nell’ambito dei paesi europei, che costituì il mercato dell’eurodollaro. Con tutto ciò il dollaro tendeva a svalutarsi e diventava sempre più difficile impedire che il prezzo dell’oro salisse oltre il livello di 35 dollari l’oncia. Il processo di logoramento della valuta statunitense culminò, nell’agosto 1971, nella sospensione, decisa da Nixon, della convertibilità del dollaro in oro.

Una conferenza internazionale tenuta a Washington nel dicembre ’71 stabilì una svalutazione del dollaro di circa l’8%. Con la sospensione della convertibilità del dollaro in oro e con la sua successiva svalutazione, il sistema dei pagamenti concordato a Bretton Woods quasi trent’anni prima poteva dirsi abbandonato.[2]

 

La crisi del sistema di Bretton Woods ed il nuovo ruolo del FMI

Si passò quindi da un sistema di cambi fissi ad un sistema di cambi fluttuanti. Esso fu la prima esplicita manifestazione di un’eccedenza di capitale monetario. La concomitanza dell’eccesso di disponibilità di dollari (minore domanda) e della crisi degli investimenti produttivi (ricostruzione avvenuta) ha prodotto una massa di capitali fluttuanti che non sapevano più dove indirizzarsi.

La scelta dei cambi fluttuanti, a partire dal ’72 - ’73, era dunque perfettamente razionale. Essa permise a quella gigantesca massa di capitali fluttuanti di trovare uno sbocco nella speculazione finanziaria.[3]

Si entra quindi nella lunga fase di stagnazione, tuttora perdurante (e da alcuni definita la seconda crisi generale per sovrapproduzione di capitale) in cui il FMI, privato del suo obiettivo principale, si è concentrato sul finanziamento dei deficit della bilancia dei pagamenti dei paesi del Terzo mondo e dell’Est, e soprattutto sulla gestione del loro debito – provocato alla fine anni ’70 e inizio anni ’80 – con l’obiettivo di assicurare, attraverso i programmi di aggiustamento strutturale, la remunerazione del capitale prestato, la relativa sicurezza del suo rimborso, la ristrutturazione dell’economia dei paesi indebitati per favorire oltre il perseguimento degli scopi anzidetti, il completo suo controllo da parte dei paesi prestatori.

Attualmente al FMI aderiscono 182 paesi. La struttura dell’istituzione riflette l’egemonia dei paesi capitalisticamente sviluppati e, al loro interno, degli USA (il direttore della Banca Mondiale  è tradizionalmente un americano). Se è vero che il FMI riunisce 182 stati, i cui rappresentanti costituiscono il consiglio dei governatori, è pur vero  che le decisioni vengono prese da quegli 8 stati che detengono il seggio permanente (su 24 seggi complessivi) all’interno del consiglio di amministrazione e del comitato monetario e finanziario.

Il potere di voto è fissato in proporzione alle partecipazioni finanziarie, sorta di contributi versati dagli stati, il che si traduce, per gli USA, in un 17,87% dei voti. Potrebbe sembrare poco ma bisogna tenere presente che le decisioni importanti in seno al FMI richiedono una maggioranza qualificata dell’85%, il che dà agli USA un potere discrezionale che non è mai stato contestato dagli europei.

Gli stati europei della zona “euro” dispongono del 22,66% dei voti, molto più della minoranza di blocco degli Stati Uniti, ma non se ne sono mai serviti per promuovere politiche diverse da quelle del “consenso di Washington”.

 

FMI e capitale finanziario

Il FMI è uno strumento. Ieri era stato messo al servizio di una pur sperequata crescita economica. Ed oggi? Si può dire, in termini complessivi, che esso opera in un contesto di stagnazione relativa che si traduce in una gigantesca eccedenza di capitali disponibili che non hanno sbocco profittevole nell’investimento produttivo.

La risposta del capitale dominante (che è il capitale finanziario) a questa situazione è di dare la priorità alla gestione di questa massa di capitale fluttuante.

La copertura ideologica di questa situazione è il neoliberismo ed il monetarismo.

La gestione consiste nell’impiego remunerativo del capitale eccedente quale capitale da prestito e nell’uso dell’intervento del FMI, attraverso le politiche di aggiustamento imposte unilateralmente ai partners più deboli, per “acquisire in pegno” le economie dei paesi deboli.

 

I programmi di aggiustamento strutturale

Cominciamo coll’esaminare i capisaldi dei programmi di aggiustamento strutturale. Fondamentale è l’assunzione di politiche economiche e monetarie anti-inflazionistiche nei paesi subalterni che comportano devastanti ricadute sociali.

L’esigenza basilare è quella di preservare la stabilità delle monete dei paesi subalterni per preservare – nel rapporto di cambio – il rimborso dei prestiti erogati dal FMI e per preservare gli investimenti finanziari in valute locali del capitale esterno ed interno.

Tendenze inflazionistiche (aumenti dei prezzi interni) possono provocare per salvaguardare la competitività delle imprese del paese inflazionato – delle svalutazioni delle valute locali. La svalutazione mette in pericolo gli investimenti di portafoglio  e rende molto più costoso e problematico il rimborso del debito.

A parte la considerazione che una inflazione, se non eccessiva, è spesso collegata ad una fase di sviluppo, nell’ottica del FMI bisogna porre in condizione di non nuocere quelli che dal FMI vengono considerati i principali fattori inflattivi e cioè:

1)      il deficit di bilancio e l’indebitamento interno. Eliminare immediatamente il finanziamento del deficit di bilancio con il credito della banca centrale (in Italia in vigore fino ai primi anni ottanta). Eliminare o ridurre fortemente la spesa pubblica e sociale, in particolare la spesa previdenziale, sanitaria e scolastica con relativa privatizzazione dei servizi (previdenze integrative, polizze sanitarie, ecc.). Quindi imporre per questo versante, una forte contrazione della “domanda globale” con disoccupazione di massa e impoverimento delle masse popolari. La riduzione delle importazioni per queste e per altre iniziative favorisce il miglioramento della bilancia commerciale e diminuisce l’indebitamento estero. (Se il prestito era stato erogato dal FMI per un disavanzo di bilancio ciò è propagandato per una misura di necessario risanamento). Il fenomeno è contraddittorio perché la contrazione del mercato interno del paese sotto cura FMI induce molti capitali esteri a disinvestire nel timore di una recessione. L’aspetto comunque prevalente è quello di medio periodo della ricerca della stabilità monetaria. Il costo di questa politica è pressoché interamente riversato sulle masse popolari del paese interessato;

2)      i salari e gli stipendi per i quali viene chiesta l’immediata eliminazione di ogni indicizzazione e di ogni forma di contrattazione collettiva. D’altronde l’esistenza costante di una elevata massa di disoccupati e sottoccupati funge da calmiere di per se stessa;

3)      il deficit della bilancia dei pagamenti dei paesi deboli. E’ noto che una bilancia dei pagamenti deficitaria produce una diminuzione delle riserve ed un deprezzamento della valuta. Una compressione della domanda produce invece una tendenziale riduzione dell’import e, per questa strada, un riequilibrio della bilancia dei pagamenti ed un rafforzamento della valuta nazionale.

Uno dei ruoli fondamentali del FMI, secondo le su stesse dichiarazioni è infatti di “evitare gli aggiustamenti disfunzionali”, quando la bilancia dei pagamenti di un paese è deficitaria, cioè quando non dispone di riserve in valuta sufficienti per commerciare con il resto del mondo al tasso di cambio in vigore. Questi tipi di aggiustamenti vengono ritenuti potenzialmente dannosi per il resto del mondo, poiché spesso consistono in svalutazioni, restrizioni al commercio o nell’imposizione di un controllo dei cambi (la Malaysia del dopo-crisi, sola a rifiutare i consigli del FMI ne è un esempio). Arriviamo così ad una situazione sbalorditiva: i paesi deboli, sottoposti alle condizioni del FMI sono invitati a “internalizzare” gli aggiustamenti attraverso misure di austerità invece di prendere misure che colpirebbero “il resto del mondo”, cioè i paesi capitalisticamente dominanti. Altro caposaldo dei programmi di aggiustamento strutturale è la contrazione della domanda interna e la riduzione dell’import che si ottengono con una politica monetaria restrittiva. L’applicazione di alti tassi di interesse operata, su consiglio del FMI, con l’obiettivo dichiarato di contenere l’inflazione, è in realtà uno strumento di buona remunerazione dei capitali negli investimenti di portafoglio e di valorizzazione della massa di capitali fluttuanti. Il capitale finanziario è quindi il diretto beneficiario di questa politica che tiene l’economia del paese indebitato in situazione di tendenziale deflazione con disoccupazione ed impoverimento dilaganti. Una politica di alti tassi favorisce i capitali transnazionali (ma non solo) in cerca di impieghi finanziari, liquida la gran parte di imprese locali indebitate, rende pressoché impossibile il rimborso dei debiti dei privati non imprenditori e più difficile il rimborso del debito interno se non a prezzo di ulteriori giri di vite (misure di austerità, aumento della pressione fiscale soprattutto indiretta, ulteriore contrazione della spesa pubblica e sociale). Ulteriore fondamento delle politiche del FMI è la ricerca della stabilità dei rapporti di cambio delle valute dei paesi deboli attraverso il sostegno dell’export, con lo scopo di produrre eccedenze nella bilancia dei pagamenti e valuta pregiata necessaria all’estinzione dei debiti contratti in valuta estera.

L’esigenza di stabilità delle valute locali, come detto, caposaldo dei programmi di aggiustamento strutturale miranti ad attirare investimenti al prezzo della liquidazione dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente, porta sovente questi paesi ad “agganciarsi” con sistemi di parità al dollaro o addirittura ad adottarlo come moneta nazionale (Ecuador, Argentina ed altri).In questo caso la politica economica e l’offerta di moneta sono completamente rinunciate dal paese subalterno e delegate agli USA.

La competitività dell’export, escludendo in linea di massima e salvo eccezioni una superiorità tecnologica di questi paesi, è fondante sul fattore prezzo. Quindi, salvo svalutazioni, poggia su una minore entità dei costi, in particolare del costo della forza-lavoro.

 

FMI, movimenti di capitale e costituzione in pegno delle economie deboli

La completa liberalizzazione dei movimenti di capitale è uno dei capisaldi della politica del FMI e rientra in tutti i piani di aggiustamento strutturale.

Le politiche di offerta, che mirano ad attirare capitali dall’esterno, devono garantire il disinvestimento dei capitali senza particolari controlli, in caso di necessità, anche se detto disinvestimento può essere causa di ulteriori gravi squilibri nel paese indebitato. Il capitale in tal modo garantito è quello da prestito e quello investito in attività finanziarie.

Abbiamo visto la genesi della recente crisi asiatica. Essa è partita da una crisi di sovrapproduzione di merci favorita da una crisi di assorbimento delle merci leader (ad. es. microprocessori) sui mercati di sbocco e dell’eccessivo apprezzamento delle valute locali legate al dollaro che rendeva le merci stesse scarsamente competitive. Il fallimento a catena di alcune imprese private che ne è conseguito ha determinato da un lato la fuga dei capitali esteri con crollo delle quotazioni di borsa e, dall’altro, l’inaridimento delle fonti di finanziamento interne (blocco del credito) che ha esteso la crisi a tutto il sistema industriale.

L’intervento del FMI non avviene di norma in questa fase nella quale c’è “fame di liquidità” ma quando gli effetti della crisi si sono vieppiù sviluppati.

Le condizioni poste in questa fase sono di solito le seguenti:

1)      liberalizzazione dei movimenti di capitale all’interno del paese in crisi in tutte le sfere dell’economia;

2)      accesso del capitale transnazionale al sistema bancario e assicurativo locale;

3)      privatizzazione nei settori non sottoposti a concorrenza;

4)      soppressione di ogni sovvenzione e liberalizzazione dei prezzi di tutti i prodotti ivi inclusi quelli di prima necessità (basta ricordare la liberalizzazione del prezzo del riso in Indonesia);

5)      eliminazione o riduzione dei dazi doganali anche se posti a tutela di settori economici particolarmente deboli (ad es. agricoltura; cfr. quello che sta succedendo in Cina, che pure ha condotto una politica economica più indipendente dal FMI, per la sua ammissione al WTO);

6)      riforme fiscali che privilegiano “l’estensione dell’imponibile” ai settori più poveri dei paesi in crisi, e non viene intaccata da questo versante, la libertà di movimento dei capitali con tasse sulle transazioni finanziarie del tipo della Tobin Tax;

7)      produzione normativa che consenta il dispiegarsi dell’attività economica e fondi le condizioni esterne per la valorizzazione del capitale (cosiddetta certezza dei contratti).

 

A questo punto, considerato anche lo sfacelo sociale dei ceti subalterni, la strada è aperta sia agli investimenti esteri diretti a prezzi di rottamazione (attraverso acquisizioni e fusioni) sia agli investimenti di portafoglio alle medesime condizioni.

Possiamo senz’altro dire che le crisi finanziarie degli anni ’90 (Messico, Thailandia, Indonesia, Corea, Russia, Brasile) hanno ufficializzato questo ruolo del FMI di “scialuppa di salvataggio” e mezzo di penetrazione del capitale transnazionale, poiché i suoi piani puntano a preservare gli investimenti del capitale finanziario, facendo pagare il conto alle masse popolari dei paesi deboli.

Sono tante le questioni che rimangono aperte e da discutere. Si può per il momento concludere che le politiche del FMI:

1)      accentuano la polarizzazione tra paesi capitalisticamente dominanti e paesi ad economia sottosviluppata (il rapporto tra il reddito del 20% più povero e quello più ricco è passato da 1/30 nel 1960 a 1/74 nel 1997);

2)      accentuano la sperequazione di classe all’interno dei paesi deboli creando sterminati e miserabili eserciti industriali di riserva, sfruttamento minorile e quant’altro;

3)      escludono ogni possibilità di sviluppo dei paesi deboli facendone terreno di saccheggio del capitale transnazionale spesso legato ad oligarchie locali corrotte e criminali;

4)      compromettono seriamente l’ambiente dei paesi deboli.

 

Quale risposta è possibile dare per un cambiamento della situazione?

Il FMI è, per i motivi sopra evidenziati, irriformabile. Tuttavia nella situazione attuale si manifestano nuove contraddizioni. Alcuni paesi (Malaysia, Colombia) nelle crisi recenti hanno intrapreso una strada indirizzata verso l’autocentrismo economico, che consiste nel:

1)      rilancio del mercato interno (attraverso soprattutto la ripresa degli investimenti pubblici);

2)      controllo nel movimento dei capitali soprattutto speculativi mediante l’imposizione di bassi tassi d’interesse ovvero attraverso una maggiore tassazione degli investimenti a breve;

3)      rientro dei capitali nazionali trasmigrati nei paradisi “off shore”;

4)      politiche volte a ridare slancio all’accumulazione capitalistica indigena e ricreare nel medio periodo condizioni per attirare capitali esteri per investimenti a lungo termine.

Tale processo per ora permane nel quadro dei rapporti di produzione dati anche se è volto a limitare lo strapotere del capitale finanziario. Esso potrebbe comunque assurgere a contraddizione intercapitalistica.

 

La Banca Mondiale

Il gruppo della Banca Mondiale comprende oltre la BIRD (Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo) anche l’associazione Internazionale per lo sviluppo (AIS), istituita nel 1960, la Società Finanziaria Internazionale (SFI), istituita nel 1956, e l’Agenzia Multilaterale di Garanzia degli Investimenti (AMGI), creata nel 1988. Essa è la seconda istituzione nata dagli accordi di Bretton Woods e riunisce 182 membri. Il potere di voto è fissato in proporzione della percentuale di capitale sottoscritto e valgono per questa istituzione le stesse considerazioni sulla “pesatura dei voti” e sul “consenso di Washington” espresse per il FMI. Anche questa istituzione è quindi posta sotto la stretta tutela del Dipartimento del Tesoro USA (il suo presidente è tradizionalmente statunitense). In base agli accordi di Bretton Woods la BM aveva una missione complementare a quella del FMI, cioè quella di promuovere la ristrutturazione delle economie del dopo-guerra attraverso prestiti destinati al finanziamento di progetti di sviluppo. All’origine anche i fondi della BM furono quasi esclusivamente utilizzati dai paesi europei. Questa situazione fu stravolta dalla decisione americana, nel 1948, di istituire il “Piano Marshall” che si sostituì per l’Europa alla BM, lasciando a quest’ultima come campo d’azione essenzialmente il terzo mondo.

La storia della BM era inizialmente legata all’ideologia dello sviluppo ed al recupero delle periferie attraverso l’industrializzazione nazionale ed autonoma ma nell’interdipendenza.

Passato il tempo delle rivoluzioni nazionali in molti paesi del terzo mondo, siamo ora nel periodo della “ricompradorizzazione” delle periferie a causa dei programmi di aggiustamento strutturale.

La crescita dell’intervento della BM si è avuta diversi anni dopo la sua nascita. Ciò è avvenuta sotto la direzione di Robert Mc Namara ( già segretario della difesa USA) presidente della BM dal 1968 al 1981. In questo periodo il volume dei prestiti è passato da 1 a 13 miliardi di dollari. Con il vessillo ideologico della “riduzione della povertà” la Bm ha sempre agito come soggetto incaricato di favorire e sostenere la penetrazione delle multinazionali nel terzo mondo con operazioni di finanziamento di progetti normalmente più dispendiosi di quelli derivanti da analoghe operazioni condotte da autorità nazionali o da agenzie bilaterali o multilaterali. Basti ricordare la diga di Assuan in Egitto, realizzata con l’aiuto sovietico ad un costo largamente inferiore alle “previsioni” della BM.

Se l’apertura di ampi mercati ai fornitori occidentali di attrezzature, impianti e macchinari ha rappresentato una costante dell’intervento della BM, i suoi campi d’azione privilegiati sono stati:

a)      il settore delle miniere. La BM ha funzionato come “assicuratore“ contro il rischio della nazionalizzazione e ha sovvenzionato indirettamente le società minerarie per l’esecuzione delle infrastrutture;

b)      il settore agricolo, dove ha spezzato l’economia di sussistenza favorendo la penetrazione delle multinazionali del settore (c.d. rivoluzione verde);

c)      il settore automobilistico con il finanziamento di strade, anziché di ferrovie, contribuendo in tal modo alla dipendenza petrolifera di numerosi paesi;

d)      lo sfruttamento delle foreste, finanziamento di progetti all’export che sono andati a detrimento dell’ambiente dei paesi sovvenzionati;

e)      la distruzione sistematica delle “terre comuni”, soprattutto in Africa.

Di contro, la Banca ha contribuito assai poco all’industrializzazione anche di quei paesi di cui essa vanta oggi le realizzazioni (per es. la Corea del Sud). L’industrializzazione, dove è potuta avvenire, è stata compiuta contro i suoi precetti che sono i consueti: aprire l’industria ai capitali stranieri, non sovvenzionare, ecc…

La strategia globale della Banca, apertamente associata a quella del capitale dominante mondiale, non si è mai realmente occupata, per usare la sua terminologia, dei “poveri” e dello sviluppo.

Essa invece dedica un terzo circa dei suoi mezzi ai programmi, detti settoriali, di aggiustamento che sono il necessario complemento delle strategie messe in atto dal FMI e, in ultima analisi, dal G7 e dagli USA.

La BM si autorappresenta come la “faccia buona” delle due, ma necessarie, politiche dei programmi di aggiustamento strutturale.

E’ utile ricordare il grottesco minuetto posto in essere da BM e FMI in occasione della crisi del Far East. La prima auspicava interventi del secondo che tenessero conto delle esigenze dei “poveri” e dei presenti problemi della “miseria”. In nome dell’ideologia della lotta alla povertà, la BM si avvale sovente di numerose ONG, soprattutto occidentali, e anche loro tramite tenta di costruire il consenso intorno all’attuazione dei progetti finanziati.

Le ONG (non tutte) esercitano in tal modo il ruolo di mediazione tra BM e popolazione locale.

Le modalità più diffuse di finanziamento della BM sono simili a quelle realizzate nei rapporti bilaterali tra banca finanziatrice e soggetto sovvenuto e cioè:

a)      finanziamento diretto al paese attraverso la sua banca centrale od altra indicata, con la garanzia dello stato del paese finanziato (debito sovrano). Le condizioni normali sono quelle di appaltare i lavori a imprese occidentali, spesso consorziate, e/o di acquisire da esse le forniture fondamentali;

b)      finanziamento diretto alle imprese occidentali, spesso associate a quelle locali (joint-venture) per l’esecuzione di progetti con rischio creditizio a carico del paese finanziato. E’ questo uno dei canali fondamentali di foraggiamento della borghesia compradora locale;

c)      assicurazione dei crediti delle imprese intervenute sul tipo di quella prevista con la c. d. legge Ossola (SACE).

 

In conclusione, la finalità fondamentale della BM rimane quella del supporto al FMI. I programmi settoriali di aggiustamento consistono in finanziamenti ai settori da incentivare nell’ambito delle politiche del FMI (per es. finanziamento dei settori export oriented nella misura in cui dette politiche fanno parte, come visto, dei piani di aggiustamento strutturale).

La BM rappresenta per l’aspetto principale uno strumento delle politiche del FMI e, quindi, del G7, dall’altro uno strumento per creare nelle periferie – attraverso il finanziamento di opere inutili e dispendiose – un blocco sociale di alleanza al capitale finanziario, blocco costituito dai gruppi dominanti locali (ma subalterni al capitale finanziario), dagli strati popolari che i primi riescono ad influenzare e dalle ONG laiche e religiose (escludendo da queste ultime quelle – poche – che si pongono in contraddizione con la politica delle istituzioni del capitale finanziario).

 

 

 

 

 



[1] Il trittico di Samir Amin delle socialdemocrazie nazionali in occidente, il progetto nazionale borghese di Bandung nel Terzo mondo e il sovietismo dell’Est.

[2] Cfr. A. Graziani, lo sviluppo dell’economia italiana dalla ricostruzione alla moneta europea, pagg. 115 e seg., Bollati Boringhieri, 1998.

Cfr. S. Amin, la gestione capitalistica della crisi, ed. Punto Rosso, 1995.

[3] Oggi, a fronte di un commercio mondiale di 3.000 – 3.500 miliardi di dollari, i movimenti di capitali internazionali sono stimati nell’ordine di 30 – 35 volte in più.