LA PENA DI MORTE: ANCORA UN PROBLEMA DI DIRITTI CIVILI E BATTAGLIE UMANITARIE?

 

Paolo Gentile

 

Una recente esecuzione: l’iniezione letale a Barnabei rimette in gioco la battaglia che da decenni, ormai, le più svariate organizzazioni umanitarie - Amnesty International, Nessuno tocchi Caino, Non uccidere - mettono in campo per ribadire l’iniquità e l’abominio di tale pratica. Per quanto concerne una delle esecuzioni precedenti (un tale che sarà poi seppellito in Italia) ricordo come televisione e tg misero a punto una serie di dirette indubbiamente utili ma - come sempre - perfettamente inserite all’interno di una prassi giornalistica che, di fatto, spettacolarizza i problemi.

A questo proposito viene da pensare che se negli Stati Uniti d’America o, meglio, negli stati in cui si applica questo tipo di pena la convinzione di mantenerla è ancora alta, la spettacolarizzazione è assicurata, con il suo conseguente imprimatur nella coscienza collettiva, da una prassi che così è e così deve rimanere e non certo per questioni di economia criminale quanto per altri motivi, senza dubbio maggiormente legati al funzionamento dello stato.

Uno degli argomenti più abusati nelle polemiche inerenti questo problema è quello per cui in alcuni stati americani la pena di morte è, comunque, ineliminabile perché voluta da una vasta opinione pubblica, la quale in questo modo sentirebbe su di sé la protezione dello stato:  pensano, infatti, molti americani  «se si togliesse la pena di morte cosa accadrebbe»? 

Tant’è vero che anche in paesi dove il senso di solidarietà è maggiormente sperimentato, come in Italia, ci si appella di volta in volta alla pena di morte come l’unica possibilità valida a funzionare da deterrente contro la criminalità.

E’ tutto completamente assurdo nel senso che sembra difficile immaginare come negli Stati Uniti, dove la potenza mediatica dei mezzi di comunicazione di massa è spropositata rispetto a paesi come il nostro, si faccia tanta difficoltà e si pongano tanti veti e problemi a una possibilità di convincimento, neanche per tutta l’opinione, che la pena capitale è perfettamente inutile ai fini di un risarcimento e assolutamente inadeguata come deterrente di una criminalità che si nutre di condizioni complesse e, comunque, proprie e interne alla stessa società.

Tanto più che andrebbe fatta una prima distinzione tra crimini consumati per la «strada», legati cioè a questioni di sopravvivenza quotidiana, e crimini commessi dentro ambiti sociali più ristretti: gruppi di quartiere, gruppi familiari, gruppi di altro tipo ancora con proprie specifiche dinamiche interne, con specifiche motivazioni di fondo rispetto all’atto criminoso assolutamente diverse dalle altre, e questa è soltanto un’approssimata separazione, molto più complesso e articolato dovrebbe essere il lavoro di acquisizione di conoscenza. Già fra il Settecento e l’Ottocento i giudici cominciano a percepire chiaramente la necessità di presenze estranee al processo ma assolutamente determinanti nella stesura delle sentenze: medici, psichiatri, tecnici di vario tipo ecc.

Un fatto è certo e cercheremo di spiegarlo meglio più avanti. La pena di morte contraddice pesantemente quella massima che concepisce l’uomo come l’animale sociale per eccellenza, nel senso che proprio il suo fautore, Aristotele, non esitava a pensare che in talune circostanze valesse la pena di sacrificare una parte per il tutto, in circostanze limite, ma senza mai rinnegare l’assunto di partenza e che cioè l’individuo è animale sociale, vive di socialità e di rapporti sociali, concepirlo nelle sua unicità comporta l’espressione di una ingenuità.

Sistematicamente, le battaglie radicali e non, pur nella loro dignità, tendono più ad individualizzare il problema  nel senso di un moralistico e, comunque, importante diritto alla vita  che non nel senso di una società (e di uno stato che ne è espressione) che nell’uso di uno strumento così abominevole smentisce se stessa come stato e come democrazia dando adito ad altre considerazioni.

Non è certo arrivato il momento di abbandonare battaglie di taglio umanitario ponendo nella coscienza collettiva il dubbio sulla legittimità di uccidere a sangue freddo un essere umano che, ormai, non è più in grado di nuocere e il cui corpo reso cadavere non risarcisce nessuno degli affetti precedentemente lacerati.

Non può non esserci un rapporto perverso fra l’esecuzione della pena e lo stridio dei familiari che, dall’altra parte del vetro, esultano a morte avvenuta pensando il loro congiunto come finalmente vendicato.

Tutto fa pensare per un verso ad una perfetta osmosi fra lo stato che uccide e i parenti delle vittime che esultano, per altro verso ad una rinuncia collettiva alla vita, una sorta di passiva accettazione, vissuta nella sfera astratta e separata dello stato - l’unico che può veramente uccidere - della propria vita-corpo come fenomeno staccato dalla propria volontà.

Potrà sembrare una impressione poco scientifica ma il dominio che lo stato ha appena esercitato sulla vita del reo, recidendola, non sembra cosa diversa da un altro dominio, quello esercitato su un gruppo di individui che, perfettamente fuori dalla materialità della propria vita, esulta dentro una gabbia di vetro.

Da sempre uccidere il reo è atto di esorcismo. Quando il mondo era governato dagli dei del sangue e della terra il crimine non era mai un crimine contro qualcuno in particolare; chiunque poteva essere ucciso ma di fatto il vero reato era commesso contro un dio, contro colui che solo poteva dare la vita e la morte, e quando il corpo del reo viene dato in sacrificio si compie il riscatto, restituendo così al dio - unico possessore della vita - il suo reale potere.

La vendetta è un esorcismo inutile e improduttivo.

Per fortuna gli stati moderni in un percorso che è durato secoli hanno saputo porre il problema su un piano decisamente più orizzontale che verticale e cioè: a) esiste una società più o meno complessa costituita da gruppi, ceti che deve costruirsi regole valide per la propria convivenza; b) in questa società abbiamo bisogno di assumerci delle responsabilità gli uni nei confronti degli altri e capire come la propria libertà finisce dove comincia quella dell’altro; c) la pena in quanto sofferenza inutile può essere concepita solo come fatto riabilitativo e non suppliziante il corpo del condannato, ecc.

Moltissimi sono stati i secoli che hanno lentamente trasformato il modo di concepire la convivenza tra gli individui, non è certo questo il luogo per svilupparne gli aspetti salienti. Di fatto, però, il contratto sociale è un modo di concepire l’amministrazione della giustizia in cui lo spirituale non prevale rispetto al terreno[1].

E’ frutto di elaborazioni complesse ciò che arrivando al contratto sociale modifica nell’immaginario collettivo un ordine delle cose che da gerarchie presupposte di valori e di fini, estese all’intero universo,  si fa ordine più immediato, forse più ristretto, ma più civile e terreno.

Questo lungo processo che vede scontrarsi lo spirituale, da un lato, e il politico/terreno, dall’altro, si svolge in un arco di tempo che attraversa il Quattrocento, il Cinquecento fino a tutto il Settecento. Da una società per ceti ( precedentemente erano signorie) si passa lentamente ad una società costituita da «liberi» individui consapevoli di un proprio diritto alla vita-corpo.

E’ inevitabile che in questo processo la nascita del mercato capitalistico, e quindi la nascita di gruppi sociali con le più svariate esigenze, contempli il problema del terreno/territorio come ineliminabile e dell’amministrazione come uno dei momenti più importanti.

Il contratto sociale è un momento alto e importante[2] il quale segna simbolicamente il passaggio da uno stato di natura allo stato civile, quindi una presa di coscienza da parte dell’uomo sia dei condizionamenti materiali cui è soggetta la sua vita in società sia della capacità di cui egli dispone per controllare, gestire, utilizzare questi condizionamenti.

In questo contesto il «sovrano» (principe,  istituzione, parlamento) riceve una delega dal cittadino nella quale saranno contemplati i doveri ai quali dovrà  attendere: amministrativi, politici, tecnici, con una differenza rispetto al grande passato; il sovrano in un contesto che ormai è da considerare fuori dallo stato di natura non riceve più una delega sulla vita-corpo del cittadino; la vita rimane un bene inalienabile.

Qualora uno stato ponesse al suo interno in quanto legge l’applicazione della pena di morte inevitabilmente porrebbe in forse la sua stessa costituzionalità in quanto stato in rappresentanza di diritti universali e non particolari e particolaristici. Lo stato moderno non può uccidere nessuno singolarmente tranne che per legittima difesa, può e deve invece garantire il libero svolgersi delle attività attraverso un meccanismo che mediante la detenzione preservi la comunità dal ripetersi del reato.

Nessun atto del sovrano può mantenere in pugno una forma di dominio rispetto alla vita del singolo.

Questo è uno straordinario punto di arrivo del contratto sociale che vede, soprattutto nella sua precedente evoluzione, il rivelarsi  di un diritto alla vita che all’oggi riesce a scoprire la pena di morte togliendola da un tradizionale  umanitarismo e dandogli invece il valore simbolico che gli spetta in quanto strumento di uno stato che regredisce dal ruolo di sovrano a quello di despota e che pone a sintesi i due aspetti del reato: a) il reato e il reo vanno a costituirsi in quanto fenomeno avulso dal gruppo sociale e dalle implicazioni ivi connesse; b) il reo non possiede diritti sulla sua vita; la vita e la morte sono nelle mani del sovrano despota.

 

Come scrive Foucault[3] c’è una complessa economia del crimine e della giustizia che lo amministra strettamente legata all’evolversi della figura del sovrano e all’evolversi del modo di produrre la ricchezza: «il corpo diventa forza utile soltanto quando è contemporaneamente corpo produttivo e corpo assoggettato». Soprattutto fra il Seicento e il Settecento, tale condizione si intreccia con un lento e graduale spegnersi dello spettacolo che racconta gli avvenimenti intorno e sul patibolo per una questione di spostamento dal corpo, in quanto centro del supplizio, all’anima, in quanto possibile trasformazione.

 

Ai tempi di Leopoldo II nel Granducato di Toscana ci fu la prima seria abolizione della pena di morte. I delitti durante il primo anno di assenza della pena di morte diminuirono e durante il secondo anno subirono una seconda rarefazione a dimostrazione del fatto tutt’altro che recente che la pena di morte non ha mai costituito motivo di deterrenza rispetto al crimine ma anzi, come ha saputo scrivere Beccaria, lo stato che fa violenza produce ancora violenza.

 

Per quanto concerne comunque il nostro discorso nel tentare di attualizzare la pena di morte attraverso una conoscenza accorta del passato, si evince dall’analisi di Foucault come, ad esempio (fine Seicento), in una delle peggiori forme di pena, lo squartamento ( se ne narra all’inizio del capitolo sul corpo del condannato) la distruzione fisica del reo corrispondesse  comunque ad un vero e proprio scontro tra il condannato e il sovrano despota.

Il peggiore dei delitti, il parricidio - per il quale si narrano nel libro le più  abominevoli torture - comportava appunto lo squartamento del reo. Ma non solo, anche il successivo disperderne i resti nel fuoco.

Del reo non doveva rimanere nulla. Perché?

Se non per la forma, è molto diverso il presente dato che anche qui il corpo del condannato è anch’esso il luogo specifico dell’espiazione e tale corpo deve essere eliminato?

Nelle elaborazioni foucaultiane si pone uno scontro diretto fra il condannato e il sovrano despota. Il reo di parricidio non va eliminato per compensare o risarcire una colpa grave - avere ucciso il padre - la sua vera colpa è avere ucciso e basta; avrebbe potuto uccidere chiunque, ma non ha importanza[4]. L’atto grave è l’avere ucciso e quindi l’essersi sostituito con questo al sovrano despota, l’unico soggetto atto ad esprimere questa prassi che non spetta ai comuni mortali ma soltanto a chi, governando per volontà di Dio e per la nazione, può permettersi un quanto meno discutibile rapporto con il Divino. E da qui può, volendo, soltanto lui uccidere attuando una prassi di «individualizzazione» sia del reo che del reato.

«Ancora nel tardo XVIII (1772) troviamo sentenze come queste: una serva di Cambrai che ha ucciso la sua padrona viene condannata ad essere condotta nel luogo del supplizio dentro una carretta, servente a togliere le immondizie ad ogni crocicchio. Ci sarà là un patibolo ai piedi del quale sarà posta la medesima poltrona in cui era assisa la detta de Laleu sua padrona, quando essa l’aveva assassinata; ed essendovisi seduta l’esecutore di giustizia le taglierà la mano destra e la getterà in sua presenza nel fuoco e le darà immediatamente dopo quattro colpi della mannaia di cui essa si è servita per assassinare la detta de Laleu,…ciò fatto ad essere appesa e strangolata al detto patibolo finché morte non segua»[5].

Si tratta evidentemente di più rapporti che vanno cercati nell’ambito dell’esecuzione. E’ chiara l’anatomia di una pena che in quanto tale viene esposta su un piano esemplare (spettacolo) esorcizzando il reato in un rapporto diretto tra crimine, luogo del crimine, modalità del crimine medesimo. E’ palese il tentativo di circoscrivere il crimine dentro un ambito che contenga qualcosa di più oltre che al  crimine e al condannato.

Nello stesso periodo è in uso che parte della verità concernente la confessione del reato venisse estorta con la tortura; il potenziale reo veniva sottoposto a torture indicibili prima di arrivare ad esprimere esso stesso la confessione.

In molti si chiesero[6] in qual modo una pena può essere impiegata come mezzo? Come si può far valere a titolo di castigo quello che dovrebbe essere un processo di dimostrazione? La spiegazione che lascia intendere Foucault sta nel voler marchiare il reo con il suo stesso delitto.

«Un supplizio ben riuscito giustifica la giustizia nella misura in cui rende pubblica la verità del crimine nel corpo stesso del condannato o suppliziato»[7].

Questa ridicola sequela di tautologie si giustifica in realtà in un ciclo che va dalla tortura alla morte e che comporta un processo molto più complesso e intrecciato all’economia stessa del sociale:

«il ciclo è chiuso: dalla quaestio (interrogazione sotto tortura), il corpo ha prodotto e riproduce la verità del crimine (sottolineatura mia). O piuttosto costituisce l’elemento che attraverso tutto un gioco di rituali e di prove confessa che il crimine ha avuto luogo, afferma che lo ha commesso lui stesso, mostra che egli lo porta, iscritto in sé e su di sé, sopporta l’azione del castigo e manifesta, nella maniera più clamorosa, i suoi effetti. Il corpo molte volte suppliziato ha assicurato la sintesi della realtà dei fatti e della verità dell’informazione, degli atti di procedura e  del discorso del criminale, del delitto e della punizione.»[8].

Straordinaria questa chiarificazione ai fini di una più accorta analisi della pena di morte. Nell’atto dell’uccidere il condannato inevitabilmente si presta a un ruolo di partner di un conflitto che non è fra lui e la vittima ma è palesemente e volgarmente ostentato in quanto conflitto fra lui e un tipo di statualità che intende mantenere nelle sue mani due importanti prerogative:

- la prima, la più importante, è contenere nel proprio ambito di stato cioè di coscienza astratta e separata la leadership sulla vita e la morte dei suoi sudditi all’insaputa dei sudditi stessi;

- la seconda promuovere una prassi, attraverso la pena di morte, che riesca a porre a sintesi il reo e il delitto individualizzando il fenomeno criminale a un atto circoscritto che non riguarda certamente le complesse dinamiche di una società drammaticamente divisa in classi e altrettanto drammaticamente solcata da conflitti ineliminabili.

Ci vorrà ben altro che una semplice battaglia umanitaria per svincolare il diritto alla propria vita-corpo dalle mani di questo attuale sovrano despota.



[1] Bobbio, Matteucci, Dizionario di politica, Utet, Torino, 1976.

[2] Ibidem.

[3] M. Foucault, Sorvegliare e punire, cap. I e II, Einaudi, Torino, 1975.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem, pag. 49.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem, pag. 48.

[8] Ibidem, pag. 51.