Le elezioni e le questioni del lavoro
Francesco Giuntoli
Il tentativo di presentare candidati e simbolo del
Movimento per la Confederazione dei Comunisti in queste elezioni politiche ha,
tra le altre finalità, l'obiettivo di richiamare l'attenzione del dibattito
politico sulla questione della condizione dei lavoratori dipendenti.
Oggi questo tema è relegato ai margini della
cronaca: la stampa se ne occupa quando avviene un infortunio mortale sul lavoro
o quando uno sciopero dei trasporti crea un po' di disfunzione e imbarazzo nei
servizi.
La centralità dell'impresa capitalistica è assunta
indifferentemente dal centro destra e dal centro sinistra, come chiave di
lettura delle problematiche economiche e sociali.
Nel regime autoritario della Seconda Repubblica il
capitale è tutto, il lavoro salariato non è niente. Quando leggeremo i
programmi dei due schieramenti che si contendono la guida del governo e del
Paese, sarà interessante verificare le analogie, le assonanze, le convergenze.
I lavoratori potranno votare per l'uno o per l'altro
schieramento (alleati e ausiliari compresi), potranno scegliere Berlusconi,
presidente operaio, o Rutelli sindaco del Giubileo, ma l'esito sarà sempre lo
stesso: vinceranno comunque i padroni.
Signore e signori, viva la Repubblica borghese!
Il compito di contrastare lo stato di cose presenti,
cercando di spezzare una gabbia fatta di silenzio e di impotenza, di
subalternità e di sfruttamento, di rassegnazione e di disorientamento in cui
oggi sono regolati i lavoratori, spetterebbe in primo luogo ai due partiti
comunisti presenti oggi in Parlamento e diffusi sul territorio nazionale.
Purtroppo le cose non stanno così.
Non sappiamo ancora se almeno qualche
rivendicazione, fra quelle avanzate dal movimento dei lavoratori in questi anni,
sarà contenuta nei programmi elettorali dei due partiti comunisti.
Di certo la collocazione politica del Pdci e le
contorsioni tattiche del Prc non consentono ai due partiti l'assunzione diretta
e automatica di quegli stessi obiettivi che pure la coscienza collettiva
nazionale residua del mondo del lavoro, ha saputo esprimere, nelle forme di un
qualche movimento di resistenza e di lotta, in questo decennio.
Si rischia così di vedere disperso definitivamente
tutto il patrimonio di esperienze e lotte che, seppure limitate, hanno
determinato l'acquisizione di un più alto livello di consapevolezza in settori
consistenti di lavoratori dipendenti.
Di fronte ad un ulteriore cedimento, in questo caso proprio sul terreno delle rivendicazione di classe, decidiamo - come comunisti - di raccogliere il significato e i contenuti di quelle giuste lotte, assumendone gli obiettivi più significativi nel programma elettorale, a partire dalla più urgente delle questioni: la questione salariale.
La scala
mobile
Per i lavoratori al di sotto dei 30 anni, per i
giovani di più recente occupazione, il termine "scala mobile"
richiama semplicemente quel dispositivo per cui, senza dover camminare, si sale
e si scende nei meandri sotterranei delle metropolitane e su e giù per i supermercati
e i centri commerciali.
Non è così per i lavoratori più anziani, i quali
sono consapevoli di cosa ha significato per le loro buste paga la perdita del
meccanismo automatico di indicizzazione salariale conosciuto appunto con il
termine di "scala mobile", che almeno consentiva un qualche recupero
sull'inflazione costante.
Questo istituto di tutela salariale è stato demolito
da successivi e ripetuti interventi governativi, sostenuti dagli stessi
sindacati, che iniziano con Craxi (1984) e si concludono con il famigerato
accordo del 31 luglio 1992 fra Confindustria, Governo (Amato) e Cgil-Cisl-Uil.
Contro questo regalo fatto dai sindacati confederali
al padronato si sviluppò un consistente movimento di opposizione e protesta che
accompagnò gli esordi del Partito della Rifondazione Comunista. La richiesta di
reintrodurre la scala mobile fu poi avanzata dal Prc di Bertinotti in
collegamento con l'accordo di desistenza con Prodi, nel 1996. Come tutti
dovrebbero ricordare l'Ulivo di Prodi non prese nemmeno in considerazione la
richiesta del Prc, che tuttavia ne sostenne ugualmente il governo per oltre 2
anni.
Anche per questo ce ne siamo andati da Rifondazione
che oggi si guarda bene da risollevare il problema.
Riteniamo doveroso e utile - se non altro per mantenere
viva fra i lavoratori la consapevolezza di una ingiustizia subita e la memoria
di un tradimento politico e sindacale, consumato da quei partiti e sindacati
che dai lavoratori stessi avevano avuto tutto - chiedere la restituzione di
ciò che ci è stato tolto e l'immediata reintroduzione della "scala
mobile".
Il trattamento
di fine rapporto
Le nostre liquidazioni costituiscono un boccone
allettante per le brame fameliche dei capitalisti.
Confindustria, Governo e Sindacati confederali sono
già d'accordo fra loro nel pretendere che i lavoratori rinuncino a gestire
liberamente l'accantonamento di quella quota di salario che, differita, ci
verrà corrisposta al termine del rapporto lavorativo (TFR: trattamento di fine
rapporto), incentivandone l'affidamento presso i fondi per le pensioni
integrative.
I lavoratori dovrebbero così investire i propri
soldi per favorire il definitivo smantellamento del sistema pensionistico. Vale
a dire che dovremmo scavarci la fossa con le nostre stesse mani. Contro questo
ulteriore, grave, attentato al salario e alla libertà i comunisti hanno una
sola risposta: salvaguardia del Tfr.
Giù le mani
dalle nostre liquidazioni!
Le pensioni
Come comunisti ci siamo battuti per la difesa del
sistema previdenziale pubblico, contro l'assalto privatizzatore portato da
Berlusconi, Fini e Bossi nel 1994.
Caduto Berlusconi ci siamo opposti al successivo
attacco, costituito dalla "Controriforma Dini" del 1995.
Dove non erano riuscite le destre, è riuscito il
centro-sinistra, sostenuto da Cgil Cisl e Uil.
L'età pensionabile si è allontanata, il periodo di
vita lavorativa si è allungato. Le pensioni sono state sostanzialmente
tagliate, grazie all'abbandono del calcolo retributivo che le agganciava agli
stipendi degli ultimi anni della carriera lavorativa (i più alti). Per ottenere
un trattamento pensionistico adeguato oggi i lavoratori sono costretti a
ricorrere ai fondi pensione integrativi, gestiti dagli stessi sindacati.
I giovani di recente occupazione non saranno mai in
grado di costruirsi una pensione decente. Sui luoghi di lavoro è stata
introdotta una nuova divisione che rompe la solidarietà fra generazioni
diverse.
Come comunisti non intendiamo abbandonare questo
terreno di lotta che è stato condiviso da centinaia di migliaia di lavoratori.
Per il diritto di tutti ad una pensione adeguata
chiediamo:
-
Il ripristino del sistema pensionistico integralmente pubblico,
regolato sulla base del calcolo retributivo
-
La salvaguardia della pensione di anzianità con il limite dell'età
lavorativa a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne
-
Riconoscimento del diritto alla pensione anticipata di 5 anni per gli
addetti ai lavori usuranti
Sul tema della lotta per il riconoscimento del
diritto alla pensione anticipata di 5 anni per chi compie lavori usuranti è
significativa l'esperienza del movimento dei cavatori apuani, guidati dal Cobas
del marmo.
La loro rivendicazione specifica - il
riconoscimento ai cavatori dei benefici pensionistici previsti per i minatori
dalla legge n. 5 del 1960 per cui sarebbe possibile andare in pensione a 55
anni dopo averne lavorato 15 in cava o in sotterranea - è stata sostenuta da
scioperi, manifestazioni, iniziative varie e molteplici.
Pur nella difficoltà di una fase arretrata e
sfavorevole i compagni del Cobas marmo perseverano e proseguono il loro
sacrosanto obiettivo.
Sarà nostro compito evitare che questa problematica
specifica sfugga al dibattito politico elettorale
Lavoro
flessibile e precario. Lavoratori "atipici" e "interinali"
La vicenda degli scioperi alla Fiat di Torino e di
Melfi, in difesa dei posti di lavoro di ragazzi e ragazze assunti in produzione
attraverso le agenzie di lavoro interinale è emblematica delle tensioni che il
lavoro in affitto, precario, a termine, atipico, genera nella vita di chi lo
subisce così come all'interno dei luoghi di lavoro. Ma, da qui ad ammettere che
è necessario rifiutare il principio che
sta alla base della diffusione di questo tipo di lavori, il passo non è così
breve.
La Fiom di Torino si schiera con i giovani
scioperanti così come quella di Melfi, mentre Sergio Cofferati abbandona il
tavolo della trattativa con Confindustria sui contratti a tempo determinato,
per altro molto diffusi in tutto il paese: ma tutti sembrano dimenticare che il
lavoro in affitto o interinale per dirla con un termine che sembra indolore è
stato introdotto, in Italia, dal governo Prodi, il "migliore" dei
governi possibili per il centro-sinistra nostrano. E che tale legge non ha
trovato ostacoli sul suo cammino, se non quelli dello schieramento padronale
che chiedeva a gran voce quello che poi ha ottenuto con gli accordi sindacali
in deroga alla legge: l'estensione del lavoro in affitto ai livelli più bassi
dell'attività lavorativa, dall'agricoltura all'edilizia.
Val la pena di ricordare che cavallo di battaglia di
Rifondazione comunista (tra i dirigenti locali circolò una raccolta di firme
contro l'approvazione della legge) per motivare il proprio consenso alla legge
sul lavoro in affitto fu proprio aver fatto introdurre nel testo il vincolo ad
utilizzare tale meccanismo di assunzione solo per le qualifiche
professionalmente più elevate. Oggi vengono assunti con contratto interinale
soprattutto operai generici da adibire al lavoro su tre turni (notte compresa),
operai per i lavori stradali, per la raccolta in agricoltura, per la produzione
su catena di montaggio. Lavori pesanti, ripetitivi, con turni massacranti ai
quali non ci si può sottrarre pena la perdita della precedenza per le occasioni
di lavoro successive.
Ai contratti in affitto si affiancano quelli a termine,
utilizzati ormai come ripetuti periodi di "prova", oppure per coprire
picchi produttivi, esigenze di straordinario e quanto altro. Può capitare di
vedere, in un cantiere navale, un contratto a termine di 1 mese con 4 settimane
di prova!
Insomma, per assumere un lavoratore, oggi, c'è solo
l'imbarazzo della scelta e tutte le forme possibile garantiscono un principio
fondamentale: che alla libertà di licenziamento, di fatto, non ci sono più
vincoli.
Come comunisti diciamo no al lavoro precario, legalizzato
o no e chiediamo:
-
Introduzione di un minimo contrattuale unico per tutti i lavoratori
compresi i cosiddetti "atipici"
-
Abolizione della legge sul lavoro interinale
Conclusioni
Tenere aperte le questioni sollevate dal più recente movimento di opposizione che i lavoratori sono stati in grado di produrre: è questa la parola d'ordine per questa campagna elettorale.
Assumono valore emblematico alcuni obiettivi di
lotta su temi diversi come l'orario di lavoro, i diritti dei lavoratori delle
piccole aziende, le libertà sindacali:
-
Riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario (come per anni hanno chiesto
i lavoratori in mille cortei e manifestazioni)
-
Estensione del principio della "giusta causa" in caso di
licenziamento alle imprese con meno di 15 dipendenti (come chiese a suo tempo DP
con un referendum popolare che fu evitato dal governo che intervenne per
modificare la normativa a lieve vantaggio dei lavoratori)
-
Abrogazione integrale dell'art. 19 della Legge 300 che riconosce la
rappresentanza sindacale solo alle sigle firmatarie di contratti e/o
maggiormente rappresentative , come chiesero centinaia di migliaia di lavoratori
che firmarono una specifica richiesta di referendum, mettendo in discussione il
monopolio della rappresentanza di Cgil Cisl e Uil.
Concludendo, è quindi su questo terreno che
intendiamo misurarci, come comunisti indipendenti (e "belligeranti"),
raccogliendo nel nostro programma elettorale quegli obiettivi e quelle
rivendicazioni. Senza la presunzione di proporre la rappresentanza dei bisogni
delle classi subalterne all'interno del contesto istituzionale della Seconda
Repubblica, ma con lo scopo di salvaguardare quel minimo di identità di classe
che ancora sopravvive in alcuni settori del lavoro dipendente. Con l'obiettivo
di mantenere ferma l'agitazione su alcune questioni fondamentali, relative alla
condizione dei lavoratori sfruttati.
Proponendo, allora, una ripartenza del movimento
comunista anche sul piano della lotta elettorale, ci riferiamo al livello più
alto acquisito dalla consapevolezza operaia reale, cui intendiamo collegarci.
Nel contesto di una sconfitta epocale dei lavoratori
sarebbe stato assurdo ed arbitrario proporre obiettivi apparentemente più
avanzati ma dedotti, magari, dal bagaglio dottrinario del marxismo scolastico e
al di fuori della ricerca di un rapporto organico e diretto fra comunisti e la
classe sociale di riferimento.
Ci pare, in questo modo, di contribuire - pur con la
nostra parzialità - a tenere collegate questione comunista e questione sociale,
secondo la concezione materialistica della storia.