LO SCONTRO NEL PRC SULLA POLITICA INTERNAZIONALE

Leonardo Mazzei

 

Con due interventi su Liberazione del 17 e 19 di maggio si è palesata una profonda divergenza interna a Rifondazione Comunista sulle questioni internazionali.

Il primo articolo, intitolato “Le nuove contraddizioni della politica internazionale”, porta la firma del coordinatore del dipartimento esteri Fausto Sorini. Il secondo, con il titolo “Opposizione globale contro il neoliberismo”, rappresenta la linea ufficiale del partito ed è firmato dal responsabile del dipartimento esteri Ramon Mantovani.

Con questi interventi, totalmente divaricanti nell’analisi e nelle indicazioni politiche, si è dunque aperto uno scontro politico assai rilevante che potrebbe portare all’ennesima resa dei conti interna, questa volta nei confronti dell’area che fa riferimento alla rivista L’Ernesto di cui Sorini fa parte.

Non è però questo l’aspetto più interessante. Che vi siano ricadute politiche da un dibattito come questo è lapalissiano; che si intreccino logiche di ceto politico sganciate dai contenuti è fisiologico; che nel Prc queste logiche raggiungano regolarmente la soglia del patologico è cosa arcinota.

Mettiamo perciò da parte queste questioni assai poco interessanti per occuparci unicamente del merito delle posizioni espresse. Posizioni che, portando allo scoperto lo scontro politico, sono state costrette a definirsi.

Intendiamoci, i due interventi in oggetto nulla aggiungono sul piano dell’analisi, ma la piena esplicitazione delle tesi di fondo è comunque utile all’apertura di un dibattito.

 

Le due posizioni emergono già dai titoli. Per Sorini il problema è l’analisi delle contraddizioni attuali, per Mantovani questa analisi è secondaria e fuorviante, ciò che conta è la proclamazione dell’ ”opposizione globale al neoliberismo”.

Vediamo subito le divergenze sui nodi fondamentali dello Stato e dell’imperialismo.

Per Sorini “la globalizzazione imperialista si afferma come privatizzazione e appropriazione delle risorse mondiali, dei processi produttivi, dei flussi finanziari, ad opera di alcune centinaia di grandi imprese multinazionali che si spartiscono il mondo, con il supporto strategico e imprescindibile dei rispettivi Stati nazionali”.

A questa impostazione Mantovani risponde citando il documento congressuale del Prc, laddove dice: “Si approfondisce la crisi degli Stati-nazione, fortemente ridimensionati nelle loro prerogative dallo spostamento dei poteri verso organi sovranazionali di governo della finanza e dei mercati e contemporaneamente da spinte secessioniste e di federalismo fiscale”.

E’ questo un punto di grande rilevanza sul quale è facile concordare con Sorini, sia per la correttezza dell’analisi che per le conseguenze disastrose derivanti dalla tesi opposta. Conseguenze che troviamo – nero su bianco – nello scritto di Mantovani.

Mentre Sorini ricorda come le multinazionali: “Pur espandendo la loro attività in ogni angolo del pianeta, continuano ad avere una fondamentale base territoriale e un retroterra strategico nei paesi di origine” e che: “Il primato delle multinazionali americane, giapponesi, tedesche, inglesi, francesi, anche italiane (si pensi alla Fiat) sarebbe impensabile senza il supporto dei rispettivi Stati nazionali”; Mantovani replica con la tesi cara agli ultras dell’ideologia della globalizzazione.

“La nostra tesi” – scrive infatti il responsabile esteri del Prc – “è che la dimensione finanziaria del capitale e l’enorme processo di concentrazione di tutte le attività produttive in poche centinaia di società, insieme con altri aspetti connessi alla rivoluzione tecnologica, ha dato luogo a un nuovo capitalismo”.

E ancora, venendo al vero nodo: “Gli Stati nazionali, e parliamo di quelli a capitalismo sviluppato perché è evidente che la disgregazione di quelli poveri o più deboli è sotto gli occhi di tutti, non decidono più le cose fondamentali che riguardano l’economia, il mercato e il modello sociale. Tutte cose imposte dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dall’Organizzazione Mondiale del Commercio”.

Da notare il tono perentorio tipico di chi è consapevole di collocarsi in un filone alla moda, dove alcune frasi ad effetto sostituiscono l’”onere della prova”, la fatica dell’argomentazione.

Questa fraseologia – davvero vuota e altisonante – è del resto ben tollerata dal sistema: se il potere da combattere si allontana, vita più tranquilla avranno i poteri più “vicini”. Se gli Stati – e addirittura quelli a capitalismo sviluppato – non decidono più nulla, che senso avrà mai opporsi ad un semplice governo nazionale?

Cancellati gli Stati, cancellato l’imperialismo.

Seguiamo ancora le due tesi a confronto. Per Sorini gli Stati nazionali “non solo non deperiscono, ma acquistano un peso crescente nell’epoca della globalizzazione capitalistica e di un’accentuata competizione interimperialistica per le zone di influenza, che ha ormai assunto una dimensione planetaria. Quelli che invece vengono destrutturati sono i poteri pubblici e le statualità dei paesi che sono oggetto dell’espansione imperialista (cioè la maggioranza dei paesi del mondo) al fine di indebolirne ogni possibilità di resistenza sovrana alla penetrazione delle multinazionali e di controllo sulle proprie risorse. In questo senso si è parlato correttamente di Stati disgreganti e Stati disgregati”.

Ma il tema dell’imperialismo e delle sue contraddizioni è uno di quelli banditi dal gruppo dirigente del Prc; è perciò inevitabile che esso provochi una sorta di reazione allergica in Mantovani, il quale afferma: “Francamente non si capisce dove stiano le contraddizioni interimperialistiche di cui parla Sorini, a meno di non scambiare certe contraddizioni assolutamente secondarie, interne ad un sistema tendenzialmente unificato, per contrasti strategici. In realtà il tentativo degli Stati nazionali nei quali risiede la maggior parte dei consumatori del mondo è quello di dare vita ad una sorta di governo unipolare, e non quello di farsi la guerra per spartirsi il pianeta in zone di influenza economica”.

Fermiamoci qui con le citazioni, lunghe ma necessarie, per far emergere alcuni temi nodali.

Poiché sull’analisi (a differenza che sulle conclusioni, ma questo lo vedremo più avanti) condivido per grandi linee lo schema di Sorini, mi limiterò ad alcune osservazioni sul testo di Mantovani che rappresenta del resto la linea ufficiale del Prc.

Innanzitutto la questione degli stati nazionali. Come si fa a dire che essi non decidono praticamente più niente? Forse Mantovani potrebbe provare a spiegarlo a Clinton o a Blair, ma sarebbe sufficiente che lo facesse con Amato per ottenere in risposta un eloquente sorriso.

Mentre sarebbe probabilmente ben diversa la reazione, ad esempio del popolo jugoslavo, ad una spiegazione delle ragioni delle bombe che gli sono piovute addosso, basata su una simile impostazione.

O forse Mantovani vuole sostenere che gli Stati decidono “soltanto” in materia di guerra e pace? Ma non si tratta appunto di scelte strettamente connesse con gli interessi economici dominanti? E non si dica, per favore, che quella guerra l’ha decisa soltanto la Nato, come se quest’ultima non fosse un’organizzazione di Stati.

Se Mantovani riconosce che vi sono “Stati disgregati”, come fa a  non vedere il ruolo di quelli disgreganti? Eppure per osservarlo non è necessario il mappamondo, essendo sufficiente la carta geografica dell’Europa.

Chi ha disgregato l’ex Urss e l’ex Jugoslavia? Chi ha ridotto nelle condizioni attuali la gran parte dei paesi dell’Europa orientale?

Si è trattato di una semplice implosione (e certamente anche di questo si è trattato) o vi è stato un ruolo attivo delle potenze occidentali (Usa ed Europa, e in particolare Germania, Francia e Italia)?

Anche per Mantovani dovrebbe essere difficile non vedere la continua azione disgregatrice di queste potenze sul piano politico, diplomatico, militare, economico e commerciale.

Ammessa questa verità difficilmente confutabile, arriveremmo allora alla singolare tesi per cui anche i “disgreganti” verrebbero “disgregati” da una forza ancora superiore rappresentata dalla “globalizzazione”.

Come abbiamo visto Mantovani parla di “nuovo capitalismo”. Nessuno pensa che il capitalismo attuale sia uguale a quello dell’Ottocento e certo è assai diverso anche da quello di 20 anni fa, ma qual’è   l’elemento che avrebbe prodotto questo salto qualitativo?

Per Mantovani: “Il nuovo capitalismo si distingue dal vecchio anche per l’esclusione sociale che produce sia nei paesi ricchi, sia in quelli poveri, e cioè per un definito e peculiare modello sociale di tipo neoliberista”.

Nessuno, almeno tra i comunisti, può sottrarsi ad una discussione vera sui caratteri del capitalismo contemporaneo, ma la qualifica di “nuovo” implica il passaggio ad una nuova epoca che certo non è possibile far coincidere con il neoliberismo, cioè con una politica di fase che come tutte le politiche potrà cambiare a fronte delle mutevoli esigenze del sistema.

C’è qui la classica scappatoia di chi parla di liberismo per non misurarsi con il capitalismo. E, come avviene quasi sempre, chi parla di globalizzazione in termini assolutizzanti si ferma poi all’analisi delle politiche, omettendo sistematicamente quella delle dinamiche generali del sistema.

Anche sul ruolo delle multinazionali ci sarebbe molto da dire. Basti ricordare che il loro peso economico è enorme da decenni, ma non ha subito particolari variazioni nell’ultimo ventennio.

E comunque, come ci ricorda Samir Amin, questo ruolo non sarebbe neppure immaginabile prescindendo dalla loro base nazionale, tant’è che egli afferma che: “La concorrenza è sia quella che oppone gli Stati, sia quella che oppone le imprese” e che il rapporto tra gli Stati e queste ultime “funziona nei due sensi, predominando in alcune fasi una direzione, in altre fasi un’altra”.

Altro punto fondamentale è quello che riguarda le organizzazioni sovranazionali.

Sono cresciute di peso? Solo uno sciocco potrebbe negarlo. Ma è intelligente negare che esse stesse sono attraversate da pesanti contraddizioni tra chi le compone?

Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio non sono mostri partoriti dal capitale globale. Sono piuttosto organismi esistenti da decenni che hanno sempre svolto un ruolo di indirizzo, regolazione  e controllo: chi non ricorda le “lettere di intenti” rivolte all’Italia dal Fondo Monetario Internazionale negli anni ’70?

Oggi questo ruolo è più forte, soprattutto è più visibile; il raggio di azione – scomparso il blocco del “socialismo reale” – è più ampio.

Tuttavia, quel che sfugge, è che l’attivismo più intenso di questi organismi deriva proprio dalla necessità di dare risposte, trovare mediazioni, tra gli interessi sempre più confliggenti dei poli imperialistici fondamentali.

Esemplare il caso del fallimento del vertice dell’OMC di Seattle, determinato in larga misura proprio dall'emergere di contraddizioni tutt’altro che secondarie tra europei ed americani.

Uscendo dal mondo dell’economia, lo stesso ruolo della Nato – come confermato dalle vicende balcaniche – si configura come contenitore di diversi interessi ed esigenze che non sarà facile conciliare a lungo.

Dove porta il ragionamento di Mantovani (e, possiamo dire, del Prc) è chiarito proprio dalla negazione delle contraddizioni interimperialiste  e dalla visione di un “sistema tendenzialmente unificato” che va verso “una sorta di governo unipolare”.

Questa tesi certo non nuova, basti pensare alla teoria kautskyana dell’ultraimperialismo, si pone in contraddizione con un’altra affermazione di Mantovani, quella secondo cui: “La questione della guerra torna ad essere centrale dal punto di vista politico”.

Se così è, ed è facile convenire, da cosa deriva questa rinnovata tendenza alla guerra? Mantovani naturalmente non lo spiega, se non con la spinta al ricorso alla guerra come strumento “normale” di risoluzione delle controversie internazionali da parte dei paesi ricchi.

Poiché non risulta che i paesi ricchi (guai a dire imperialisti nel Prc!) abbiano mai rinunciato a questo strumento, bisognerebbe spiegare il perché della nuova centralità della questione della guerra oggi.

Ma non chiediamo troppo a chi è già così globalmente impegnato in un’opposizione talmente globale che in Italia si stenta a trovarne le tracce, Ma il mondo, si sa, è grande….

 

Contrastare politicamente un’impostazione come quella di Mantovani è condizione essenziale per riprendere ogni serio discorso antimperialista.

Tornando invece alle posizioni espresse da Sorini, c’è da dire che ad un’analisi corretta corrispondono delle indicazioni, a mio parere, completamente sbagliate.

Sorini tratteggia assai meglio di Mantovani la realtà contemporanea per restarne poi prigioniero.

Con una “realpolitik” che di realistico ha solo l’apparenza, Sorini si lancia in proposte per la conduzione di battaglie interne agli organismi internazionali da parte di un fronte costituito essenzialmente dalle potenze non allineate (Russia, India, Cina in primo luogo) per “fare leva su contraddizioni e rivalità che oppongono Stati Uniti, Giappone e Unione Europea, utilizzandole a proprio vantaggio, per isolare volta a volta, a seconda del tema, l’avversario principale”.

Sorini vorrebbe democratizzare l’Onu, rispolverare il ruolo dell’Eni di Mattei, indicare la via del disarmo e di accordi “sovrani e integrati tra Stati che intendono resistere alle norme del nuovo ordine mondiale”. Francamente un po’ troppo….

Se Sorini ha il merito di non rifugiarsi dietro lo schema ideologico della “globalizzazione”, finisce però per dimenticarsi di non essere il ministro degli esteri di uno Stato socialista.

E questo non è l’unico “dettaglio”. Se lo sforzo di immaginare un ampio fronte antimperialista è certo condivisibile, ed a tal fine è necessaria un’analisi obiettiva delle contraddizioni reali, non si capisce però quale dovrebbe essere oggi la configurazione effettiva di un simile fronte.

Sorini ha ragione ad indicare nel tema della difesa della sovranità nazionale un aspetto essenziale per la costruzione di una strategia antimperialista, ma è credibile una prospettiva frontista senza un adeguato peso delle forze comuniste e di classe?

Adeguato peso, non direzione o egemonia, che nella fase attuale sarebbe come parlare di agricoltura in Antartide. Ma anche un peso adeguato, cioè non secondario e non subalterno, appare obiettivamente ben al di là delle possibilità concrete.

Ed è proprio su questi aspetti che Mantovani può liquidare tutto il ragionamento di Sorini, affermando che in esso “manca totalmente la dimensione anticapitalistica e di classe”.

In effetti, se Mantovani fugge nel mondo virtuale della “globalizzazione” (dove virtuale non è la globalizzazione, ma la rappresentazione che ne viene data), Sorini sembra pensare ad un mondo che non c’è più, proponendo uno schema che sarebbe stato discutibile già nell’epoca di Yalta, ma che oggi risulta privo anche degli elementi strutturali che lo legittimavano in quel periodo storico.

 

Le conseguenze di queste due impostazioni, pur così diverse tra loro, sono abbastanza chiare.

Per Sorini non c’è altro da fare che accettare la condizione attuale dei comunisti nel mondo. Per Mantovani il problema non si pone neppure. Il responsabile esteri del Prc descrive infatti un capitalismo pacificato, un mostro invincibile al quale opporsi, ma senza alcuna possibilità di rovesciarlo.

E che il tema della rivoluzione sia di fatto cancellato da ogni orizzonte è confermato anche da Sorini che inizia il suo articolo ponendo la questione della costruzione di “alcuni elementi di un ordine mondiale alternativo”. Come ciò sia possibile in assenza di processi rivoluzionari è davvero difficile da comprendere.

Naturalmente queste due posizioni sulla politica estera hanno dei risvolti nazionali tutt’altro che irrilevanti.

Non c’è dubbio che la realpolitik delle proposte di Sorini porti ad una altrettanto realistica collocazione nel centrosinistra italiano. Così come il massimalismo di Mantovani, che è poi da sempre l’altra faccia del politicismo, porta anch’esso agli stessi approdi.

Pur parlando l’uno come un ministro degli esteri e l’altro come un portavoce di un centro sociale, finiscono entrambi nell’imbuto stretto delle compatibilità.

E’ chiaro che i comunisti devono scegliere un’altra strada.

Intanto nel metodo: cogliere le novità della fase attuale è necessario e sarebbe un guaio serio rimanere impigliati in vecchi schemi. E’ possibile farlo senza cadere nella trappola di costruzioni teoriche campate in aria, che tutto dicono senza spiegare niente, come quella in auge della “globalizzazione”? Ritengo di si e, per dirlo con una formula, credo che sarebbe sufficiente attenersi all’analisi concreta della situazione concreta.

D’altra parte, analizzare a fondo le contraddizioni – una questione che ci trova molto interessati – non può oggi portare alla proposta di improbabili fronti, pur senza escluderli a priori nelle situazioni concrete. Più chiaramente: un ampio e articolato fronte antimperialista sarebbe estremamente auspicabile dal punto di vista dei comunisti, e sbaglia dunque chi lo rigetta aprioristicamente in nome di una generica lotta al liberismo; il problema è però quello della sua effettiva realizzabilità nelle attuali condizioni.

L’analisi delle contraddizioni ci dice infatti che il capitalismo non è un mostro invincibile, ma guai a sfuggire al tema della ricostruzione del soggetto antagonista e del progetto rivoluzionario.

Soggetto e progetto sono oggi pagine bianche che nessuno può pensare di riempire soggettivisticamente, ma che non bisogna mai perdere di vista pena lo scivolamento su posizioni opportuniste.

Personalmente penso che un dibattito serio sulle questioni internazionali debba partire dall’analisi dei Poli imperialistici fondamentali (Stati Uniti, Unione Europea, Giappone) e dalle loro relazioni reciproche e con il resto del mondo.

In questo contesto va studiata la ridefinizione del ruolo degli Stati e dei nuovi poteri sovranazionali (che esistono, ma non sono assoluti).

A questi temi abbiamo dedicato il convegno del 20-21 maggio e vorremmo andare avanti.

Poiché siamo in Europa, ed è bene analizzare a fondo la realtà in cui si opera non fosse altro che per evidenti ragioni politiche, una particolare attenzione dovrebbe essere posta al tema del Polo europeo, un tema non a caso rimosso dal Prc.

Essendo non solo europei, ma anche italiani, ed essendo finiti i tempi dell’”Italietta” subalterna e pasticciona, i comunisti dovrebbero esaminare anche le dinamiche dell’imperialismo italiano; un imperialismo di seconda fascia ma non per questo non esistente.

Nel nostro piccolo, e insieme alle altre realtà che hanno dato vita al coordinamento nazionale, abbiamo da tempo iniziato a misurarci su questi terreni.

Certo non abbiamo la pretesa di suggerirli ad altri, ma altrettanto certamente li riteniamo imprescindibili per chi voglia mantenersi sul terreno comunista.

Concludo con una domanda retorica.

Per Sorini l’Europa è una potenza imperialista, per Mantovani è “solo” dominata da politiche liberiste. Ora si da il caso che l’Europa sia governata dalle forze dell’Internazionale Socialista, cioè dalla sinistra europea storicamente determinata.

Siano imperialiste (come pensiamo) o anche solo neoliberiste, che ci stanno a fare con loro i comunisti?

E’ una domanda questa che non guarda soltanto alle vicende italiane degli ultimi anni, ma anche, ad esempio, alla politica del Partito Comunista Francese, pronto a rimanere al governo un anno fa anche di fronte ad un’eventuale offensiva terrestre contro la Jugoslavia.

La domanda è retorica e soprattutto non potrà avere risposta, ma è forse un modo efficace per dire che il doppio binario fa bene alla sicurezza delle ferrovie ma non al futuro dei comunisti.