LOGICA ANALITICA E LOGICA SINTETICA

di R. Finelli

  1. Hegel, Marx e il circolo del "presupposto-posto"
  2. Il pensiero di Karl Marx – in quanto critica dell’economia politica e non in quanto filosofia della storia – è l’apertura di una scienza che ha a oggetto il mondo moderno e il cui specifico progetto scientifico è quello di stabilire, dietro i movimenti apparenti di una realtà economica mossa da individui e cose, i movimenti e le leggi di relazioni tra classi. In questo orizzonte determinato – che è quello del sistema critico del Capitale e non quello dell’umanismo generico e generalizzante del cosiddetto materialismo storico – la dialettica è l’organon di tale scienza: lo strumento conoscitivo cioè che trova le mediazioni tra essenza riposta della società moderna e sua apparenza falsificatrice. Dialettica quindi non come teoria della contraddizione bensì come teoria della dissimulazione. Capire il III libro di Das Kapital significa, in questa prospettiva, capire in quale modo Marx abbia in esso articolato e mosso dialetticamente i propri concetti e usato il nesso contabilità in valore - contabilità in prezzi di produzione essenzialmente allo scopo di spiegare un processo di produzione sociale, di cui momento fondamentale è la circolazione dei capitali e, con essa, l’occultamento che quella medesima produzione fa della sua intrinseca asimmetria.

    Pure non si può comprendere com’è usato il pensiero dialettico nel III libro se non lo si rapporta, nella continuità e nella differenza, al modo in cui la dialettica struttura i primi due libri del Capitale. Per ragioni di spazio svolgeremo qui alcune considerazioni preliminari, necessariamente schematiche e quasi in forma di tesi, limitatamente al I libro del Capitale.

    Valore d’uso e valore di scambio, nel I libro del Capitale, non sono concetti analitici: vale a dire che il valore di scambio non è derivabile per astrazione e generalizzazione logica dal mondo dei valori d’uso, così come il lavoro astratto non è derivabile dai lavori concreti, astraendo dalle loro differenze. La scambiabilità di due merci, con il mettere in campo la loro identità e omogeneità, implica una rottura ontologica rispetto al mondo della differenza e della molteplicità, in cui i beni economici sono oggetto dell’uso e del consumo degli uomini per il soddisfacimento dei loro bisogni. Il valore d’uso è un rapporto tra un singolo oggetto e un singolo soggetto. Il valore di scambio è invece il rapporto di un oggetto con l’intero mondo degli oggetti. Già solo per questa caratteristica essi appartengono a due mondi completamente diversi tra loro. Il valore d’uso appartiene a un mondo fatto di tempo e spazio determinati: Il secondo a un mondo che non ha limiti di spazio, perché appunto la scambiabilità è la capacità di una merce di eguagliarsi e scambiarsi, senza limiti di spazio, con qualsiasi altra merce.

    Per questa indipendenza dallo spazio il valore di scambio non può essere che tempo. E il tempo senza spazio costruisce un mondo di differenze solo quantitative, del tutto diverso dal mondo delle differenze qualitative proprie dei valori d’uso. La scambiabilità quindi, per Marx, non ha nulla in comune con l’utilità: e per non aver nulla in comune non può esserne derivazione o generalizzazione analitica. Ciò che produce l’identità tra i valori d’uso non può essere l’utilità, come invece voleva Bohm-Bawerk: giacchè per altro l’utilità ha senso solo in riferimento a un soggetto, e per questa sua costitutiva implicazione soggettiva, non è quantificabile e misurabile.

    Il I libro del Capitale comincia quindi con un radicale dualismo ontologico: mondo delle differenze qualitative da un lato e mondo delle differenze quantitative, o dell’identità astratta, dall’altro. Un dualismo che Marx trova come dato nella circolazione e nello scambio delle merci: e che non rimanda perciò, a suo avviso, all’ipotesi di un osservatore esterno. Ma spiegare come questo dualismo ontologico – nella cui peculiarità sta l’essenza della società moderna – nasca, si produca e si riproduca, è il compito sistematico dei tre libri dell’intera opera, che Marx svolge secondo un modello in pari tempo di concezione della realtà e di teoria della conoscenza, che egli deriva, elaborandolo ovviamente in modo personale, dalla Scienza della logica di Hegel, più che non dalla Fenomenologia dello spirito. Muovere dalla realtà più diffusa e a portata di mano, dalla realtà più immediata (la merce), trovarla strutturata secondo un radicale dualismo (valore d’uso e valore di scambio) e, spingendosi negli strati più profondi del reale, spiegare, attraverso un cammino di mediazioni, come quel dualismo trovi un luogo, sintetico e unitario, di produzione: questo è il modello fenomenologico-dialettico di verità-realtà secondo cui Marx articola la sua scienza del mondo moderno.

    Fenomenologico, perché nello svolgersi del processo conoscitivo non devono entrare ipotesi e determinazioni soggettive di un qualsivoglia ricercatore, bensì le categorie usate devono corrispondere di volta in volta a strati progressivamente evidenti e svelati della realtà: e dialettico perché lo svolgersi delle sue figure si sviluppa secondo l’opporsi, il relazionarsi e il sintetizzarsi di due mondi – quello del valor d’uso e quello del valore di scambio – del tutto eterogenei. Un’ipotesi di lettura del Capitale, questa qui avanzata, che si presenta assai lontana dalla tesi della rottura epistemologica che, secondo Althusser, il Marx maturo opererebbe nei confronti di Hegel e della sua dialettica.

    Nella sfera della circolazione, come viene concettualizzata da Marx nel I libro del Capitale, i due mondi – quello del "concreto" e quello "dell’astratto" – si connettono, ma secondo alternanza e non secondo compenetrazione. Merce come valore d’uso, e denaro, come valore di scambio, si scambiano continuamente di posto, senza che l’uno sia produttore dell’altro. Qui domina, è principio ontologico, ancora il valor d’uso: cioè il presupposto che il "libero" individuo con la sua propria bisognosità sia il soggetto della storia e della società. E il valore (di scambio) è solo il mezzo, lo strumento della realizzazione dell’infinita serie di scambi sul mercato. L’equivalenza infatti, modo generale di essere di ogni atto della circolazione, per Marx sta a significare, nello scambio di valore d’uso e di valore di scambio, che l’essenza della circolazione è l’alternanza, l’esclusione che la presenza di una determinazione comporta rispetto all’altra. Il dualismo, la differenza di concreto e astratto, nella circolazione si apre quindi al rapporto, ma ancora nella forma dell’indifferenza: cioè di una relazione che è sì connessione, ma non produzione reciproca dell’uno da parte dell’altro. Nella circolazione, tanto più è presente una determinazione, tanto più deve essere assente l’altra. Per questo l’accumulo di denaro in essa può darsi non nel modo dell’arricchimento, ma solo in quello dell’impoverimento, cedendo cioè merci in cambio di denaro: il tesoro così è accumulazione di valore di scambio solo in quanto rinuncia al valor d’uso.

    Solo nella sfera della produzione valore e valore d’uso cessano di essere eterogenei e si compenetrano: nel senso che il lavoro astratto diventa la fonte produttiva reale dei valori d’uso e non semplicemente, come accede nella circolazione, il criterio di contabilità del loro scambio. Il lavoro astratto, cioè l’uso della forza-lavoro da parte del management secondo la tipologia dell’organizzazione produttiva che Marx definisce "sussunzione reale", è così il vero principio – almeno a nostro avviso – della teoria marxiana del Capitale: quale luogo di sintesi in cui l’astratto si media realmente con il concreto e il dualismo ontologico trova la sua genesi unitaria. Definiamo lavoro astratto l’incapacità della forza-lavoro non solo di appropriarsi del prodotto da essa realizzato (espropriazione giuridica) ma, soprattutto, di mettere in moto i mezzi di produzione (espropriazione del processo di lavoro). Non a caso, lo svolgimento e la maturazione del modo capitalistico di produzione ha come filo rosso per Marx l’approfondimento costante della separatezza: dalla separazione originaria che oppone la forza lavoro ai mezzi di produzione – ma con la capacità ancora del lavoratore di mettere in moto i mezzi di produzione – alla separazione della forza-lavoro dal controllo della propria erogazione. Nell’analisi di Marx, legge costitutiva dell’innovazione tecnologica è infatti non soltanto la tendenza all’innalzamento della capacità competitiva rispetto al concorrente esterno – cioè gli altri imprenditori – bensì anche, e fondamentalmente, rispetto al concorrente interno: quale confronto cioè strutturale e permanente con la forza-lavoro. Mentre questa, infatti, tende a un uso quanto più possibilmente concreto, e a sua misura, della propria forza lavoro, il capitale tende invece a un uso, di questa, spersonalizzato, comunque riducibile a pratiche standardizzate e quantificabili: sua legge costitutiva è la disponibilità a suo piacimento dell’uso della forza-lavoro e dunque la tendenziale eliminazione di ogni carattere arbitrario, di soggettività, da parte di quest’ultima.

    L’aver fatto del passaggio dalla "sussunzione formale" alla "sussunzione reale" l’asse della sua teoria della tecnologia – sia nel suo verso diacronico di attraversamento delle grandi epoche storiche della cooperazione, manifattura e grande industria, sia nel verso sincronico per cui segmenti di quel passaggio si danno nell’oggi a ogni grande innovazione tecnologica – consente a Marx d’altro canto la chiusura del suo primo circuito scientifico e l’esplicitazione più chiara del peculiare modello epistemologico che lo sostiene, da lui mai compiutamente esplicitato. La sussunzione reale traduce infatti "l’astrazione del lavoro", da ipotesi concepita per spiegare il mercato e la circolazione, e al limite valida solo per questa sua natura ipotetica e soggettiva solo per Marx che l’ha concepita, in una tesi oggettiva, in un dato di fatto cioè reale, iscritto e precepibile nel corpo della forza-lavoro: e come tale principio di realtà che garantisce la validità conoscitiva della scienza di Marx.

    A differenza di moltissimi interpreti della tradizione marxista, che hanno sempre collocato il cuore della dialettica in una pretesa teoria della contraddizione, qui si assume che invece logica dialettica – come epistemologia peculiare del Marx del Capitale – significhi essenzialmente logica del presupposto-posto: ovvero costruzione circolare di un sistema, in cui il ritorno e la coincidenza del punto conclusivo dell’esposizione con quello iniziale ha lo scopo di presentare il processo di conoscenza e di costruzione del vero come un processo senza soggetto, privo cioè d’interventi e manipolazioni soggettivistiche dell’osservatore. E’ sempre Hegel a parlarci (cfr. anche qui Fenomenologia dello spirito e Scienza della logica), col sostenere appunto che un presupposto concettuale, indispensabile per dare avvio a qualsiasi atto conoscitivo, si dimostra vero solo quando è posto, prodotto, quale risultato più oggettivo e profondo, dall’intero sistema di relazioni che dovrebbe spiegare. Ma il limite di quel grandissimo pensatore sta nell’aver applicato questo nuovo metodo conoscitivo e di costruzione sistematica all’intera realtà, umana e non umana, senza limiti né di spazio né di tempo: di aver voluto concepire cioè una metafisica e di essere con ciò rimasto nel quadro della filosofia classica e delle sue categorie tradizionali e assolute, come lo spirito, l’essere, il nulla e così via.

    Marx invece, in quanto rinuncia a fare filosofia della storia e si prova a fare solo scienza della storia, contestualizza il metodo hegeliano all’analisi della sola società moderno-capitalistica e con questa limitazione di fondo reinterpreta magistralmente il circolo del presupposto-posto secondo la saldatura del nesso teoria-prassi. La scienza deve cominciare necessariamente (cfr. l’Introduzione del ’57 ai Grundrisse) da un’astrazione mentale: da un’ipotesi cioè che selezioni in un determinato campo d’indagine dei fattori euristici rispetto ad altri. Quel principio astratto – astratto da tutti gli altri fattori esplicativi che lascia cadere – diventa però vero, da astrazione mentale cioè diventa reale, solo quando, da generalizzazione messa in atto dall’economia mentale del singolo ricercatore, diventa prassi, forma di vita generalizzata di un determinato gruppo sociale: cioè modo e forma generalizzata del lavoro vivo in un’epoca storico-economica determinata. Tale nesso – da ipotesi mentale a tesi reale – è la struttura, torna a dirsi, che regge la costruzione del I libro del Capitale: ovvero la dimostrazione che il lavoro astratto, che è la sostanza del valore-lavoro, non sia un assunto, una mera ipotesi dell’astrarre mentale di Marx – non sia una deduzione analitica dai lavori concreti – come apparentemente sembrerebbe, all’inizio dell’esposizione del Capitale, bensì sia l’esito oggettivo e collettivo di una prassi materiale: almeno quando si legga la teoria marxiana del processo di lavoro e della sussunzione reale non secondo il paradigma umanista, tristemente celebrato, dello sviluppo delle forze produttive, ma secondo il punto di vista del dominio e del controllo da parte del management della disponibilità e dell’uso della forza-lavoro.

    In un passo assai significativo a tale riguardo Marx scrive nel III quaderno dei Grundrisse:

    L’ultimo punto su cui va richiamata l’attenzione a proposito del lavoro che si contrappone al capitale, è che esso, in quanto è il valore d’uso che sta di fronte al denaro posto come capitale, non è questo o quel lavoro, bensì lavoro puro e semplice, lavoro astratto: assolutamente indifferente alla sua particolare determinatezza, ma capace di ogni determinatezza. Questo rapporto economico – il carttere di estremi di un rapporto di produzione che contraddistingue il capitalista e l’operaio – si sviluppa quindi in forma tanto più pura e adeguata, quanto più il lavoro perde ogni carattere d’arte; la sua abilità particolare diviene sempre più qualcosa di astratto, di indifferente, ed esso diviene in misura sempre più crescente attività puramente astratta, puramente meccanica, e perciò indifferente, indifferente alla sua forma particolare; attività puramente formale o, il che è lo stesso, puramente materiale, attività in generale indifferente alla forma. Qui si rivela ancora una volta come la determinatezza particolare del rapporto di produzione, della categoria – qui capitale e lavoro – diviene vera solo con lo sviluppo di un particolare modo materiale di produzione e di un particolare livello di sviluppo delle forze produttive industriali.

    (Questo punto dovrà essere particolarmente sviluppato più tardi, trattando questo rapporto; infatti qui esso è già posto nel rapporto stesso, mentre nelle determinazioni astratte di valore di scambio, circolazione, denaro, esso rientra ancor più nella nostra riflessione soggettiva).

  3. La divisione di un soggetto monistico e originario
  4. E’ questo il Marx che ci interessa: quello che assume da Hegel l’epistemologia circolare del presupposto-posto, come esplicita chiaramente il passo appena citato, e che indaga il mondo moderno a partire dal dualismo esistente tra il mondo del concreto e il mondo dell’astratto. Perché ovviamente c’è anche un altro Marx che assume da Hegel un altro modello dialettico, il quale è il modello della contraddizione: ovvero quello fondato su un Uno che, per l’operare di una negazione dentro di sé, si scinde in Due e, per la cogenza della sua primigenia unità, obbliga l’opposizione a ripristinare, nel momento ulteriore del Tre, una sintesi unitaria. Questo è il Marx della filosofia della storia, che fa principio e soggetto del divenire dei tempi l’uomo fabbrile, l’homo faber, e tutte le sue scissioni-alienazioni-espropriazioni. E’ il Marx che pensa essenzialmente attraverso la categoria analitica della divisione: e specificamente della divisione del lavoro.

    Infatti essa è la categoria fondamentale con cui il Marx dell’Ideologia tedesca interpreta in tutta l’opera il divenire della storia. Così la divisione del lavoro, oltre a essere il fattore primario di sviluppo delle forze produttive, spiega in particolare la separazione di città e campagna, l’autonomizzazione di industria e commercio, l’articolazione interna a ciascun ramo di attività economica. Sta a fondamento delle diverse forme di proprietà: giacchè proprietà tribale, proprietà della comunità antica in quanto città, proprietà feudale (cioè le tre forme di proprietà in cui s’articola la storia precapitalistica secondo l’Ideologia tedesca) corrispondono ai modi alternativi del distribuirsi dei diversi gruppi sociali rispetto al prodotto e ai mezzi di produzione. Spiega il rapporto tra i sessi, su cui si fonda l’istituto della famiglia, da cui, a sua volta, si genera con la tribù la prima organizzazione sociale. Sta a fondamento della separazione di lavoro manuale e di lavoro mentale, ovvero della possibilità per la conoscenza di concepirsi come alcunchè di sussistente al di fuori della prassi materiale, e sta quindi a base della supposta autonomia dell’intera produzione teorica. E spiega, ancora, l’origine dello Stato, cioè la separazione tra singolo individuo e legame comune di dipendenza reciproca, che pur continuando a essere condizione della riproduzione del primo, a quest’ultimo, fattosi autonomo dalla comunità, appunto per l’estendersi della divisione dei lavori, non può che apparire come istituito in poteri a lui estranei, che limitano la sua libertà.

    Ma questo, a ben guardare, è il meccanismo che spiega nell’Ideologia tedesca anche, e soprattutto, la società moderna; quella cioè della generalizzazione a livello mondiale della divisione del lavoro e quindi della più radicale alienazione. Perché in essa ciascuno, consegnandosi alla limitazione di una prassi determinata, e rinunciando con ciò al polimorfismo di una prassi di un’attività veracemente umana, si conclude nel suo particolare, escludendo ogni coscienza e finalità universali: con la conseguenza, però che il lato dell’unità e della cooperazione reciproca, rimosso dalla coscienza, ma irremovibile dalla realtà, gli ritorna nella figura esteriore, e dunque alienata, di una società reificata, o ipostatizzata nella volontà politica dello Stato. Così l’intero sociale, nel tempo moderno, può vivere solo nella forma dell’automatismo meccanico, rigido e compulsivo. All’universale manca la mediazione della coscienza individuale e perciò è obbligato a muoversi secondo i modi di una struttura inintenzionale, animata solo dall’interagire e dal confliggere di cose o, comunque, di volontà reificata e istituzioni astratte.

    Perché in effetti la storia, secondo questo Marx, è stata nel complesso un trascorrere dalla prima alla seconda natura, nel senso che la progressiva universalizzazione delle relazioni (fino all’intero ambito mondiale) ha tolto progressivamente la valenza della natura come prima fattrice della vita umana, sostituendola con una mediazione sociale che metabolizza ogni presunta autonomia (o ogni presunta derivazione naturalistica ed extrastorica dei bisogni e della vita) nella relazionalità complessiva dell’artificiale e del culturale: ossia trasfigura e ricrea il naturale attraverso il modo d’elaborazione proprio dell’universalmente umano. Ma con la peculiarità che questo, dandosi secondo le figure dell’esteriorità, s’impone al singolo come necessità e costrizione, e quindi come "natura": seconda, perché istituita dall’uomo, ma pur materiale e oggettiva, a mò dell’esistere obbligato e irreversibile della prima.

    Ossia, una storia, quella fin qui trascorsa, intepretabile anche attraverso il topos forse più celebre di questa versione della teoria storico-materialistica di Marx: la tesi cioè del rapporto, prima coerente e poi contraddittorio, tra forze produttive e rapporti sociali di produzione (quali istituzioni attinenti la proprietà e le sue legittimazioni giuridico-culturali), secondo la quale una forma di relazioni sociali, che dapprima facilita lo sviluppo del suo contenuto (appunto le forze produttive), poi decade a limite di questo sviluppo, condannandosi alla contraddizione di confliggere con esso e di destinarsi perciò al tramonto. Dove, secondo una metafisica antropologica che assume l’attività pratico-materiale quale soggetto e le configurazioni giuridico-politiche quale predicato, Marx argomenta appunto con un modulo di scissione-contrapposizione di un soggetto a sé stesso: anche se in questa tesi, la più celebre del materialismo storico (e depositata principalmente nell’Introduzione del ’59), il farsi altro del soggetto a sé medesimo non si dà nella forma dell’universalità astratta che si contrappone all’individualità astratta – e alienatasi della sua più vera essenza – ma in quella della sovrastruttura che si autonomizza e si oppone al vero sostrato, che costituisce l’autentica continuità materiale-reale della storia, al di là di tutte le forme possibili di organizzazione sociale, e che sarebbe appunto il realizzarsi del genere umano quale sviluppo inesauribile delle proprie forze produttive.

    Rispetto a questo Marx che muove dall’antropologia, d’ascendenza feuerbachiana e romantica, dell’uomo quale "ente naturale generico", del soggetto umano che in quanto partecipe dell’umanità e soggetto originariamente e potenzialmente libero e universale, deformato poi invece nei limiti della storia e dell’alienazione, il Marx – studioso e critico della società – del Capitale, mostra di muoversi in una prospettiva assai lontana dal soggettivismo umanistico; e di situarsi invece in un orizzonte costituito da un processo il cui soggetto è l’astrazione di una ricchezza che per la sua natura solo quantitativa (ché questa è l’unica qualità dell’astratto) tende ad accumularsi in una espansione infinita: come è proprio appunto di una sostanza la cui identità è solo il quantum. Un autore intelligente come Louis Althusser, ha ben compreso criticamente l’umanismo spiritualista del primo Marx ma, estraneo a comprendere il contributo prezioso dell’hegelismo, non ha potuto afferrare affatto, chiuso nel suo strutturalismo metastorico, il processo sistematico d’organizzazione della società moderna di cui, in Das Kapital, è principio il capitale. E come questo processo, che ha un soggetto – ma non umano, quale appunto l’astratto della ricchezza solo quantitativa – costruisca e articoli la società moderna in un confronto di progressiva subordinazione e utilizzazione, da parte della sua potenza espansiva, con il mondo del concreto, fatto dei bisogni degli uomini e dei valori d’uso necessari a soddisfarli.

  5. Una tesi di logica "sintetica" sulla trasformazione dei valori in prezzi

Pure la mediazione del mondo del concreto e del mondo dell’astratto, che Marx colloca nella sfera della produzione, non basta a spiegare la società moderna. Tutto ciò che avviene nel processo di lavoro spiega infatti solo l’esistenza di due classi: ovvero una società schematica e astratta. II e III libro del Capitale sono destinati a riempire tale mancanza, in particolare i manoscritti del III libro, il cui scopo è quello di costruire una teoria, complessa e variegata, delle classi della società moderna che costituisca contemporaneamente il passaggio dal mondo delle merci misurato secondo il valore-lavoro al mondo delle merci misurato in denaro e in prezzi. Se infatti, con la circolarità categoriale intrinseca al I libro, Marx vuole mostrare la realtà della sostanza del valore-lavoro – la realtà dell’equazione lavoro astratto=valore -, con il III libro vuole mostrare, in un’ulteriore circolarità, che la molteplicità dei capitali, ossia che i prezzi di tutte le merci, sono riconducibili a valori e che possono essere spiegati soltanto a partire dai valori.

Cosicchè, mentre la circolarità del I libro consiste nel passaggio dall’astratto mentale all’astratto reale, la circolarità del III consiste nel passaggio dall’astratto, limitato e conchiuso nella sfera della produzione, al concreto, manifesto e diffuso, nella sfera variegata della circolazione e della pluralità delle classi.

Da questo punto di vista – del legame cioè tra i tre libri del Capitale quale approfondimento ed estensione della dialettica di astratto e concreto – la vexata quaestio della trasformazione dei valori in prezzi non può apparire, come l’intera tradizione esegetica ha voluto invece fin qui, quale un problema di contabilità e di coerenza matematica. Giacchè quel problema, oltre a essere quello del passaggio da un sistema di contabilità a un altro, è ipso tempore il problema della genesi e della deduzione dei redditi "improduttivi" dal plusvalore complessivo e il problema d’includere nel sistema del capitale la proprietà di quei valori d’uso, che, non essendo prodotti dal lavoro, non hanno valore ma pure hanno prezzo e che in tal modo legittimano, per chi li possiede, acquisizione di reddito. La terra, legata alla rendita fondiaria assoluta, e il tempo, legato al capitale finanziario, sono due esempi, assai chiari, di cose che, non prodotte dal lavoro, entrano nella distribuzione del plusvalore a garantire reddito monetario a chi ne ha il monopolio di proprietà. Seguendo il lavoro in questo campo svolto dall’economista e studioso tedesco Gerhard Huber, va sottolineato che in una società capitalistica hanno prezzo anche molte cose che non hanno valore. La teoria del valore-lavoro di Marx, se vuole essere principio di spiegazione dell’intera realtà economica, deve giungere a mediarsi con questo livello di realtà, massimamente concreto perché fatto di cose e perciò in pari tempo massimamente lontano dalla produzione in lavoro. La soluzione generale della "trasformazione dei lavori in prezzi di produzione" e della formazione di un saggio medio del profitto deve dunque produrre, simultaneamente, la formazione di un saggio medio di rendita e di un saggio d’interesse: darsi cioè come articolazione del plusvalore in profitto vero e proprio, rendita (assoluta) e interesse. Limitandoci per semplicità d’esposizione alla questione della terra e della rendita fondiaria, va ricordato che per Marx il monopolio della proprietà della terra è non solo una condizione socio-giuridica indispensabile al darsi e riprodursi della forza-lavoro, quale classe libera da ogni possibile rapporto con l’ambito dei mezzi di produzione, ma è anche una condizione economica interna alla produzione stessa, almeno fin quando industrie e case verranno costruite su terra, appunto, dovendo pagare un prezzo economico per questo loro usufrutto.

Ricordiamo inoltre che, per i teorici neoclassici dell’economia, 1) nella realtà non ci sono valori (nel senso marxiano), ci sono solo merci che hanno un prezzo; 2) non si possono interpretare i prezzi riducendoli a quantità di lavoro; giacchè oltre al lavoro, fattori di produzione sono anche il capitale e la terra; 3) se in tutti i mercati si dà concorrenza perfetta, non è possibile alcuna forma di sfruttamento; 4) di conseguenza teoria marxiana del valore e del plusvalore non sono altro che tesi ideologiche, legate non alla scienza ma all’estremizzazione e alla passionalità politica. Per Marx, al contrario, 1) i prezzi di tutte le merci sono riconducibili unicamente a lavoro; 2) il valore è lavoro astratto oggettivato; 3) la distribuzione primaria del reddito è quella tra salario e plusvalore; il plusvalore è lavoro non pagato e dunque coincide con lo sfruttamento; 4) tutti i redditi da proprietà, che sono parte del prezzo delle merci, derivano anch’essi dal plusvalore e sono dunque anch’essi lavoro non pagato; 5) domanda e offerta, anziché essere principi di spiegazione, devono essere a loro volta spiegate. D’altro canto, se la critica di Sraffa e dei neoricardiani ha mostrato l’inconsistenza della teoria neoclassica del capitale e dei prezzi (visto che, incapace di determinare la grandezza del saggio di profitto, deve presupporla come data dall’esterno), pur accogliendo l’articolazione marxiana della società moderna come divisa in classi, valuta che il problema della trasformazione sia uno pseudoproblema, ritenendo inessenziale che si possa dare o meno una soluzione. E va riconosciuto che in effetti molti tentativi di soluzione di questo problema non hanno fatto altro che trasformare alcuni numeri, collegati tra loro e chiamati valori, in una serie di altri numeri, collegati tra loro e chiamati prezzi. Ma la soluzione, torna a dirsi, non è di natura matematica: ovvero è tale solo dopo che sia stato sciolto il suo intreccio, di natura dialettica e sociale.

Come è noto nell’esposizione di Marx i prezzi di produzione sorgono perché e quando la composizione organica del capitale è differenziata tra i diversi settori. Ma per la medesima ragione sorge in pari tempo la rendita fondiaria assoluta. La rendita sorge infatti per Marx soltanto se e dove la composizione organica è inferiore alla media sociale, perché solo qui viene impiegata una maggior quantità di lavoro vivo rispetto al lavoro oggettivato; e ciò comporta, per uguali condizioni di sfruttamento, una massa maggiore di quella che frutta un capitale a composizione media, capace di fruttare solo il saggio medio di profitto (né extraprofitto, né perdita relativa di profitto). Nell’esempio numerico della trasformazione dei valori in prezzi, con sistema a tre settori, presentato da Marx nel capitolo 9 del III libro, vediamo che la somma di tutti gli extraprofitti è uguale a zero. Ciò significa che la massa di plusvalore prodotto in tutta la società basta appena a garantire a tutti i capitali reali e produttivi il saggio di profitto medio. In altre parole non esiste una parte del plusvalore che affluisca a possessori di capitale fittizio, non produttivo (cioè non relativo al lavoro produttivo sussunto), sotto forma di saggio di interesse (quale plusvalore spettante al capitale monetario) o di saggio di rendita (quale plusvalore spettante alla terra).

Ciò fa capire che l’esempio di Marx è solo un esempio, uno schizzo, da collocarsi in un quadro più complesso. Dalle analisi della rendita fondiaria, sia nel III libro del Capitale, sia nelle Teorie del plusvalore, si desumono alcune tesi esplicite. Quelle relative al problema del valore e del prezzo si possono così enunciare:

1) la rendita fondiaria è parte del plusvalore sociale complessivo e costituisce la somma degli extraprofitti che vengono realizzati dai proprietari della terra grazie al monopolio che detengono rispetto agli altri capitalisti produttivi. Si paga la rendita fondiaria affinchè il proprietario della terra permetta di usufruire della terra stessa..

2) La rendita fondiaria, si torna a dire, può nascere, come ogni altro extraprofitto, solo nel caso la composizione del capitale sia minore della media sociale.

3) La rendita fondiaria è quella parte del plusvalore complessivo che non entra nel processo di livellamento del saggio generale di profitto, ma che viceversa viene fuori contemporaneamente come risultato di questo processo.

4) Marx, in un passo del III libro, scrive che per saggio di profitto intende sempre il saggio lordo, cioè la somma risultante dal saggio medio di profitto e dal saggio medio di rendita. Questo elemento è assolutamente decisivo (fra l’altro anche per capire in modo corretto la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto: si tratta sempre del saggio di profitto lordo).

Ne consegue che nello schema più ampio e coerente della trasformazione dei valori in prezzi ( di cui il capitolo 9 nell’esposizione marxiana è solo un esempio provvisorio e incompleto), in cui il saggio di profitto medio è inferiore al saggio lordo, il sistema in settori della produzione e riproduzione sociale è un sistema a quattro settori, sorgendo il quarto come il settore in cui vengono prodotti i beni di lusso consumati dai proprietari fondiari che spendono la loro rendita. La somma dei prezzi delle merci dei quattro settori deve essere, inoltre, maggiore della somma delle stesse merci in valore: perché va considerato il prezzo della terra, il quale, non avendo un contenuto in valore, è concepibile solo come rendita capitalizzata. Il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione si risolve insomma solo se esiste – almeno a questo livello semplice di complicazione dell’esposizione di Marx – una rendita fondiaria assoluta: e questo significa che, accanto ai profitti normali dei capitali reali, ci deve essere una parte del plusvalore che diventa mero reddito da proprietà di una sottoclasse di capitalisti che fanno valere soltanto la loro proprietà privata della terra.

Nelle Tesi su Feuerbach e, insieme a Engels, nelle pagine dell’Ideologia tedesca, Marx com’è noto, dichiara di aver superato la sua iniziale adesione all’antropologismo di Feuerbach, denunciando la presenza, nell’opera di questi, di una persistente curvatura idealistica che si esprime essenzialmente nella presupposizione di un’immagine ancora metastorica e astratta dell’uomo: fissa in una sensibilità che tra l’altro è definita più nella sua valenza conoscitiva che non come mediazione pratica e lavorativa col reale. Ma dell’umanesimo di Feuerbach questo Marx trattiene invece, a mio avviso, oltre l’impianto sostanzialistico di una storia ridotta all’informazione-alienazione di un unico soggetto, la disposizione teoretica ed epistemologica di fondo: ovvero l’assunto dell’immediata e incontestabile evidenza del vero principio della realtà e della vita, di contro a ogni visione fondata su astrazioni speculative, quale massimamente sarebbe per quel primo Marx, ancora così esposto all’influenza di Feuerbach, l’idealismo hegeliano, con le sue capacità di mistificazione e di travestimento spiritualistico del vero volto delle cose.

Infatti il Marx dell’Ideologia tedesca, in opposizione alla mediazione propria dell’hegelismo, e carica per lui di tante sofisticherie e arbitrarie legittimazioni (si ricordi l’analisi che fa del pensiero sociopolitico di Hegel nella Critica della filosofia hegeliana del diritto), ha reiteratamente cura di rivendicare la materialità della vita umana quale "dato di fatto" elementare, immediatamente conoscibile, attraverso – non princìpi concettuali – ma constatazione empirica, sensibile e concreta.

I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupporti reali, dai quali si può astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica.

Così, come Feuerbach aveva proposto, di fronte all’idealismo di Hegel (interpretato da lui come versione solo razionalistica della trascendenza religiosa), la pienezza, irrefragabile, dell’umanità incarnata e sensibilmente radicata, il Marx dell’Ideologia tedesca, continuando anch’egli, ancor qui, a ridurre semplicisticamente l’hegelismo a teologia dissimulata – e traducendo in pari tempo la sensibilità feuerbachiana nel paradigma di prassi materiale – ritiene che la priorità dell’esistenza materiale, e del suo prodursi, rispetto ai modi della vita spirituale sia un presupposto da accogliersi, col venir meno di velami ideologici di comodo, per evidenza, ingenuamente e senza necessità d’alcuna funzione teorica, astraente e intellettualistica. Basta muovere dai bisogni più imprenscindibili, senza il cui soddisfacimento non è dato concepire la vita umana e la sua riproduzione: bisogni che, nella loro elementare semplicità, nascono dalla natura, dalla materiale corporeità della vita, ma che nella loro realizzazione e complicazione inaugurano la storia e l’artefatto culturale.

A noi non interessa né compete in questo contesto capire quanto e come nell’Ideologia tedesca Marx, rispetto al nesso di natura e cultura, argomenti nel verso della mera giustapposizione dei due ambiti e in quello di una loro effettiva mediazione. Ci preme invece sottolineare quanto da tale prospettiva e metodologia conoscitiva si allontani il Marx della maturità, quando, come nel Capitale, scriverà: "ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero". Questo Marx, il Marx della dialettica di essenza e fenomeno – e si ripete non il Marx dell’alienazione e della contraddizione dell’homo faber in una storia che si fa filosofia della storia – è il Marx che a nostro avviso va proposto e sviluppato. Ed è quasi d’obbligo concludere, in questo dibattito sul III libro del Capitale, ricordando che il curatore postumo di questo volume, Engels, com’è testimoniato dalla Prefazione e dalle Considerazioni supplementari, che aggiunge al volume, ma soprattutto dalla sua recensione a Per la critica dell’economia politica, si rifà invece al Marx metafisico e filosofo della storia, condizionando così di non poco la storia della ricezione del testo marxiano. Anche perché Engels estende all’intera opera del Capitale la tesi che la logica con cui Marx ha costruito il suo lavoro sia una logica evolutivo-storicistica anziché propriamente dialettica (nel senso proposto in questo nostro testo): la tesi cioè che lo sviluppo delle categorie marxiane nel Capitale rispecchi un effettivo svolgimento della storia che consisterebbe, per un Engels troppo esposto alla metafisica positivistica dell’evoluzione, nel passaggio dal semplice al complesso – a partire specificamente dallo stadio storico della cosiddetta "produzione mercantile semplice" – e che quindi il metodo logico-epistemologico di Marx consisterebbe nell’esibire le connessioni che legano gli stadi di sviluppo di un processo temporale. E infatti la logica che Engels presume di definire dialettica è una logica solo lineare-analitica: basata sullo sviluppo di quell’unico elemento semplice e originario che sarebbe il valore di scambio e la circolazione mercantile. Solo pensando che il tempo del Capitale di Marx non è quello storico e seriale ma quello logico del nesso di esteriorità e interiorità, si potrà probabilmente ritornare a parlare seriamente di quest’opera.