MILOSEVIC. LE ULTIME ORE

Fulvio Grimaldi

 

Il compagno Fulvio Grimaldi è stato l’ultimo giornalista straniero a incontrare  Slobodan Milosevic nella sua residenza di Didinje a Belgrado. Era poche ore prima che i reparti speciali della polizia del  governo Djindjic prendessero d’assalto  l’abitazione dell’ex-presidente jugoslavo. Il colloquio è durato due ore e mezza e un estratto dell’intervista è comparso sul Corriere della Sera.

 

Di ritorno da Belgrado.

Il prima e dopo della  cattura di Slobodan Milosevic  è la differenza tra il giorno e la notte. Nei giorni precedenti, in una Belgrado cupa, dalle facce indifferenti e stanche, dalla miseria dilagante per la permanenza della maggior parte delle sanzioni, dall’inflazione galoppante al 100%, dagli stabilimenti chiusi in attesa di privatizzazioni straniere (esempio massimo, la Zastava ricostruita dagli operai), si era svolta quella che è stata la prima iniziativa internazionale del Partito Socialista Serbo e delle sinistre alleate, dopo il rovesciamento di potere dell’ottobre scorso: un convegno internazionale nel secondo anniversario della guerra Nato per analizzare e denunciare le motivazioni e gli effetti dei crimini degli aggressori e gli sviluppi in corso della nuova balcanizzazione.

Ai delegati di 17 paesi (in prima linea alti esponenti della Duma e del Partito Comunista Russo, greci, palestinesi, libici, iracheni, statunitensi, tedeschi, italiani) il PSS era apparso rinnovato: moltissimi giovani volontari, pieni di entusiasmo, le scorie del vecchio apparato affaristico e opportunista in buona parte transitati alla DOS (l’alleanza di 18 partitini al potere che ancora si definisce “Opposizione Democratica Serba”), molti comunisti passati dai vari gruppetti post-titini al PSS, visto come principale baluardo di massa anti-Nato  e di opposizione a quella che viene definita la “banda filo-occidentale del rinnegato Djindjic”.  Si percepiva una gran determinazione a reagire contro il rullo compressore di un governo che aveva soppresso ogni voce mediatica del dissenso e che procedeva a colpi di arresti dei massimi dirigenti del sistema abbattuto. Sotto tiro in particolare l’ex-ministro degli esteri Zivedin Jovanovic, ora vicepresidente del Partito e braccio destro di Milosevic. Un uomo che conosce molti retroscena oscuri delle manovre USA e Nato tra l’inizio dello smembramento della Jugoslavia, nel 1991, Dayton, Rambouillet e Kumanovo e che sarebbe stato meglio ridurre al silenzio. L’ottimismo degli organizzatori della conferenza pareva poi confermato dalla manifestazione di massa che, come in occasione della visita di Solana e poi di Carla Del Ponte, aveva portato in piazza decine di migliaia di oppositori di Djindjic.

E’ stato, secondo Jovanovic, probabilmente proprio il successo di queste iniziative, segno di un risveglio di parte della popolazione dopo il trauma di ottobre, stimolato dalla catastrofe sociale e dalla persecuzione dei serbi proseguita da USA e Unione Europea, ad accelerare i tempi di una resa dei conti finale.

Così l’arresto di Milosevic, sottoposto all’ultimatum-ricatto degli USA che esigeva la cattura entro il 31 marzo, pena il rifiuto di finanziamenti per 100 miliardi di dollari e l’implicito mantenimento dell’embargo, è stato annunciato da altre misure repressive immediatamente precedenti. Tra queste, i già menzionati arresti (11), che ricordavano il vuoto fatto intorno a Milosevic, tra la fine della guerra e le elezioni di settembre, con l’uccisione in serie dei suoi più stretti collaboratori;  e soprattutto le avvisaglie di quella che sarebbe poi diventata la principale, grottesca accusa al “dittatore genocida”: evasione fiscale e trasferimento di fondi all’estero. Il governo, una settimana prima dell’arresto di Milosevic, aveva chiesto alla corte suprema di porre sotto sequestro tutti i beni immobili del PSS (quelli mobili, conti in banca, depositi, ecc. erano già stati tutti confiscati, lasciando il partito senza un soldo). Lo Stato vanterebbe un credito di 10 milioni di dollari nei confronti  dei socialisti e dei loro alleati. Perché? Perché allo scioglimento della Lega dei Comunisti e alla sua trasformazione in Partito Socialista Serbo, quest’ultimo si era appropriato di tutte le sedi della Lega, case del popolo, circoli ricreativi, uffici periferici. Secondo Djindjic,  questi immobili avrebbero dovuto essere distribuiti alla pari tra tutti i trenta e più partiti e partitini jugoslavi. Un po’ come se da noi la DC o il PRI avessero preteso, all’atto della mutazione PCI-PDS, di entrare in possesso di frammenti di Botteghe Oscure o delle case del popolo.

La chiamata di Milosevic mi è pervenuta all’improvviso, di sera, come mi era successo varie volte con Arafat, segno di un’emergenza in atto, mentre stavo partendo per Kragujevac per salutare gli amici sindacalisti che avevano riportato una clamorosa vittoria sul sindacatino giallo DOS che li aveva fisicamente estromessi dalla Zastava all’indomani della presa del potere. Una stretta e buia strada conduce a una cancellata al di là della quale si estende il parco della residenza, illuminato a giorno e fitto di militari e mezzi blindati, e poi l’abitazione dell’ex-presidente. Milosevic, sull’uscio,  mi saluta con una frase che mi imbarazza:”Benvenuto a un difensore della libertà e della sovranità dei popoli”. All’interno di un grande salone con tre divani a ferro di cavallo (sul centrale si siede Milosevic, sui due lati io e Jovanovic) e un tavolino che continua a essere riempito di bibite, tè, caffè, si svolge l’ultima conversazione dell’ex-presidente con un giornalista prima dell’arresto. L’uomo appare più giovane e vigoroso delle immagini diffuse su giornali e schermi. Manifesta buon umore, cordialità, spontaneità e, quando rievoca l’uragano di diffamazioni ed accuse prodotte dai dirigenti e giornalisti Nato, anche una buona dose di ironia ed ilarità.

Sicuro di sé e delle sue ragioni di difensore dell’unità dei popoli della Jugoslavia, - “sono una nazionalista talmente bravo da essermi fatto mangiare il paese dai nazionalisti che oggi governano su paesi monoetnici” -  cita subito il discorso tenuto a Kosovo Polje nel 1989. Quello che secondo la stampa occidentale avrebbe segnato l’inizio della repressione anti-albanese. Le parole dicono di un invito alla convivenza pacifica e tollerante tra tutte le etnie e le religioni che per 80 anni, prima dell’”interessamento” imperialista, erano riunite nel regno e poi nella Federazione jugoslavi . A Milosevic preme poi smantellare l’accusa di aver tolto l’autonomia a un Kosovo in cui i separatisti, allora istigati dai tedeschi, già stavano allestendo pogrom anti-serbi di cui riferirono tutti i mezzi d’informazione occidentali.

“Quello che ho tolto al Kosovo era la possibilità di esercitare il veto sulle decisioni non solo della Federazione tutta, ma anche delle altre repubbliche e provincie autonome. Una possibilità di assoluta paralisi per chi voleva affondare la federazione”. Subito dopo, l’ex-presidente sottolinea l’ammissione, ormai universalmente diffusa dagli USA, di un intervento tutt’altro che “umanitario”, ma finalizzato a garantire posizioni strategiche a USA e Nato nella loro avanzata verso l’Eurasia, la Russia, la Cina, nonché a mantenere nei Balcani uno stato di costante destabilizzazione che giustifichi la presenza militare USA e eserciti pressioni su un’Europa sempre più incline alla disobbedienza . Nega la pulizia etnica e cita le fonti ufficiali occidentali che, dopo l’inutile ricerca delle fosse comuni da parte degli investigatori Nato, hanno trovato solo tracce di una guerra civile tra separatisti e forze governative.

Milosevic si mostra più preoccupato di quanto sta avvenendo ora nella regione, che non del suo destino personale. Gli assalti UCK  alla Macedonia e alla Serbia del Sud sono definiti “prodromi di una generale destabilizzazione, per mano del terrorismo UCK, dell’intera regione, in particolare dei paesi in cui si sta manifestando una forte opposizione al dominio Nato: Bulgaria, Macedonia, Romania, Grecia. La frantumazione dei  Balcani, il genocidio dei suoi popoli con l’orrenda arma dell’uranio, nella cui contaminazione ci hanno abbandonato, sono lungi dall’essere conclusi.”

Quanto al diktat USA di arrestarlo entro il 31 marzo, Milosevic dice poco e con riluttanza:”Ci penserà il popolo” e Jovanovic aggiunge:”Non si può escludere, anche se non nell’immediato, una guerra civile”. La prospettiva, se non credibile al momento attuale, potrebbe verificarsi se Milosevic fosse consegnato al Tribunale dell’Aja, tenuto in sommo disprezzo dalla maggioranza della popolazione e dallo stesso Kostunica.

Con particolare fervore Milosevic ha voluto rispondere alle accuse che in Europa gli vengono lanciate anche da sinistra: la repressione interna, le privatizzazioni che avrebbero smantellato le basi del socialismo titino e i fondi accumulati all’estero.

“Ero tanto dittatore da aver tenuto sempre regolari elezioni, con una moltitudine di partiti, spesso istruiti e fortemente finanziati, diciamo pure comprati, dagli Stati Uniti e dalla Germania. In Jugoslavia l’opposizione controllava l’80% dei mezzi d’informazione, compresa la televisione più forte. Se qualcuno di questi è stato chiuso, per breve tempo, è perché incitava apertamente alla rivolta violenta e all’uccisione di membri del governo (M.si riferisce a radio B2-92 e a Studio-B di Draskovic). Lo avrebbe fatto qualsiasi governo. Oggi tutta la stampa, tutti i mezzi d’informazione

- esclusa qualche tv privata fuori Belgrado - sono omologati, sotto il rigido controllo della DOS. Quanto alle privatizzazioni, eravamo strangolati dal Fondo Monetario Internazionale, eravamo sotto sanzioni da anni, ci negavano crediti, si trattava di far mangiare la gente. In ogni caso abbiamo mantenuto una salvaguardia che non esiste in altri paesi: nessuna svendita di settori strategici e il 60% delle quote di industrie con partecipazione di capitali stranieri garantito ai dipendenti, agli operai. Oggi la  Zastava è stata fermata e messa in vendita. Sui soldi, ricordo che l’autorità bancaria svizzera ha dichiarato ufficialmente di non aver trovato traccia di fondi ricollegabili a me o al mio establishment (dichiarazione apparsa sulla stampa elvetica nel maggio scorso. Ndr.) e che a Cipro, dove ora si dice si trovi il tesoro di Milosevic, i ciprioti si sono molto arrabbiati per l’infondata accusa. E’ chiaro, d’altra parte, che il governo di un paese affamato dalle sanzioni e devastato dalle bombe si dia da fare per garantirsi la valuta che consenta di aggirare l’embargo e far vivere la popolazione”.

Milosevic conferma con convinzione l’analisi di molti osservatori sullo scontro tra un Kostunica, preoccupato dell’interesse nazionale, della sovranità dello stato e dell’unità della federazione, e un Zoran Djindjic (“uomo dei servizi tedesco-americani” lo definisce), completamente al soldo della Nato e che accetta senza battere ciglio la subalternità delle istituzioni jugoslave, magistratura compresa, ai diktat americani, e l’ulteriore secessione di Montenegro e Serbia del Sud, ignorando la risoluzione ONU 1244 che sancisce la sovranità jugoslava sul Kosovo. L’ex-presidente parla con una certa simpatia di Kostunica, cui riconosce dignità e buone intenzioni, pur nell’ambito di un’ideologia integralmente liberista. Ma aggiunge che la sua posizione oggi è debolissima, priva di maggioranza in una coalizione che, probabilmente, eliminerà lui non appena si sarà verificata la secessione del Montenegro, per poi sbranarsi al suo interno nella caccia ai favori occidentali e alle posizioni di potere.

A questo punto parrebbe che Milosevic, sbalordendo non pochi, pensi che sotto la sua presidenza in Jugoslavia ci sarebbe stata troppa democrazia, almeno di quella  di stampo occidentale la cui assenza ha contribuito a garantire a Fidel Castro l’indipendenza di Cuba e la sua rivoluzione.

“La verità sta nei fatti che tutti possono controllare. Della differenza tra  l’informazione di allora, forte di 700 milioni di dollari ricevuti in due anni dagli USA, e quella di adesso le ho detto. In Kosovo c’erano ben venti giornali d’opposizione che non sono mai stati censurati. Da noi non c’è mai stato un prigioniero politico e Amnesty International può confermare. Ora la DOS proclama un’amnistia per terroristi, assassini, infanticidi che hanno imperversato in Kosovo, Macedonia e ora imperversano nel Sud della Serbia. Rugova ha potuto attaccarmi in piena Belgrado durante la guerra. Sono stato accusato di omicidi: in 12 anni nemmeno un esponente dell’opposizione è stato ucciso. I miei migliori amici e collaboratori  invece sì”. E qui Milosevic ha un primo, unico, momento di commozione. “Oggi mi farebbero responsabile anche dell’uccisione di Moro o di Kennedy.”

E l’arresto, il tribunale dell’Aja?

“La Nato deve esonerarsi dei suoi crimini di guerra e contro l’umanità, cose spaventose come i bombardamenti sui civili e l’uranio, liquidando un uomo sul quale scaricare le proprie responsabilità. Il Tribunale è un ulteriore meccanismo per il genocidio dei serbi, cui, per nasconderne il carattere di corte Nato, si aggiunge una spruzzatina di croati e bosniaci. Io so solo che la Del Ponte è sotto ricatto, era coinvolta in un gravissimo scandalo nella Commissione Europea. Poi è stata nominata procuratore.

Con l’accusa di non aver avvertito i suoi dipendenti dell’imminente bombardamento, è in carcere l’ex-direttore generale della televisione di Stato, RTS, Draglojub Milanovic. Anche Milosevic avrebbe saputo.

“Che mancanza  di fantasia per incriminarci. Nello stesso momento in cui hanno bombardato la televisione hanno anche bombardato casa mia. Milanovic si è allontanato dalla sede televisiva pochi minuti prima delle bombe, come se uno potesse sapere al minuto secondo di un attacco. La televisione doveva restare presidiata: era  il principale mezzo per comunicare con la popolazione, avvertire di bombardamenti, organizzare soccorsi, invitare ai rifugi. E ora il responsabile della morte di quelle persone, dei bombardamenti, sarebbe Milosevic, non Clinton, non Solana, non Wesley Clark.”

Sull’uscio, salutatomi senza dare l’impressione di non poter facilmente rivedere il suo interlocutore, Milosevic mi racconta sorridendo un aneddoto. Glielo ha riferito Steve Erlander, autorevole giornalista del “New York Times”: “Dopo le elezioni di settembre, Madeleine Albright, manifestamente irritata, aveva chiesto a Erlander: “Ma come, Slobo ha accettato il risultato delle elezioni? Non è possibile! E’ il colmo, lo abbiamo sepolto sotto incriminazioni per almeno dieci ergastoli perché contavamo che non avrebbe a nessun costo rinunciato al potere e rischiato la libertà o la vita, e ora questo non se ne va?”

Nel commiato, Milosevic mi da i tre baci della tradizione serba. Mi prende all’improvviso, ma non mi sottraggo. Chiunque egli sia, è la Nato che lo vuole far fuori.

Nelle strade umide e nebbiose di una capitale dai continui black-out e che non sa se respirare o vergognarsi, spiccano alcuni dei centomila cartelloni alla Berlusconi messi su da Otpor. Raffigurano la faccia di Milosevic sullo sfondo di scene di miseria e repressione. Sotto, la scritta:”Consegnatelo”.