NOKIA CONNECTING PEOPLE?

Paolo Gentile

 

Non c’è dubbio, che il Frammento sulle macchine di Marx[1] continui ad essere una chiave di volta necessaria a comprendere lo spessore del dibattito attuale, così come delle divisioni all’interno della sinistra (per piccola parte la sinistra storica ma per gran parte tutta la sinistra più radicale soprattutto quella a sinistra di Rifondazione).

In qualsiasi occasione di riflessione, di dibattito acceso o di conflitto ideologico i temi della tecnologia e del suo sviluppo sono sempre sottesi a strutturare qualsiasi discorso di tipo interpretativo del reale.

Forse è giusto dire che troppe cose non sono chiare e che stiamo appena incominciando a tentar di capire di cosa sia fatto questo sviluppo tecnologico imponente a cui abbiamo assistito, e a cui assistiamo, ma rispetto al quale ancora nessuno a sinistra intraprende un processo-percorso di conoscenza approfondita. Mediamente, accade che quando non si presenta – e in molti casi si presenta – una posizione di neutralità rispetto alla scienza e alla tecnologia, il tipo di opinione prevalente, soprattutto nella “sinistra”, è di accettazione passiva ma allo stesso tempo entusiasta di questa tecnologia come di una condizione irrinunciabile del vivere. Indubbiamente è realistico pensare come non si possa fare a meno di utilizzare un certo livello tecnologico, ma al contempo nel vivo di questa opinione si presenta a nostro avviso un concepimento della scienza e della tecnologia come di una questione neutrale soprattutto però rispetto allo sviluppo della lotta di classe e/o del conflitto sociale in generale.

Si tratta indubbiamente di un pensare molto radicato nella cultura della sinistra, soprattutto della sinistra storica. Val la pena di ricordare come a cavallo degli anni ’60 un importante convegno dell’Istituto Gramsci sui problemi della tecnologia e dell’organizzazione del lavoro, collocava la tecnologia medesima in un campo ben preciso, quello del libero sviluppo della scienza e della creatività umana, una specie di filo rosso dell’intelligenza che in modo astorico attraversava e attraversa tutte le epoche dell’umanità, lasciando agli uomini il compito di utilizzare le scoperte della scienza e della tecnica a vantaggio della collettività e non di pochi individui. Vale comunque la pena a questo proposito rammentare un esempio: premesso che un qualsiasi paese che dia inizio ad una transizione verso il socialismo non potrebbe mai fare a meno di utilizzare l’apparato tecnologico di cui dispone è chiaro ormai come nell’ex Unione sovietica l’uso della tecnologia fordista[2] fu importante per dare inizio ai piani di sviluppo, ma non fu sufficiente per intraprendere un processo di trasformazione in grado di consentire una definitiva uscita dal modo di produzione capitalistico. Restarono in quel paese elementi di capitalismo che insieme a un concepimento molto tradizionale della scienza e della tecnologia impedirono probabilmente una vera transizione verso il comunismo, verso cioè un processo permanente di cambiamento e di trasformazione.

Va ricordato anche come in Italia le lotte operaie che esplodono a cavallo del 1968-69 hanno un carattere che sul piano dei contenuti non riguarda esclusivamente il salario, per quel tipo di composizione sociale (l’operaio massa) era particolarmente sentito il problema della violenza che la catena di montaggio esercitava su ogni singolo individuo, obbligando a ritmi di lavoro, pause, quantità di prodotto, costringendo i lavoratori a una lotta quotidiana per la sopravvivenza che incominciava dentro la fabbrica, nel luogo di produzione, e poi si dilatava all’esterno nello spazio della distribuzione e del consumo.

In realtà si è sempre posto per tutto quel ciclo di lotte fino agli anni ’80 il rapporto con le macchine come fatto tutt’altro che neutrale, anzi come momento cruciale della produzione e comunque specchio reale di quale era di volta in volta lo stadio raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive.

Va ricordato a sostegno di ciò come la resistenza quotidiana e spesso il sabotaggio alle linee di produzione, costituivano momenti importanti non tanto e non solo di lotta quanto di forte solidarietà fra lavoratori; da quelle situazioni scaturiva una vera e propria intelligenza operaia fatta di trucchi, sistemi, modi di resistere che successivamente si trasformavano in una vera e propria conoscenza del ciclo produttivo e quindi in una capacità di gestire le proprie lotte a fronte della quale la direzione aziendale incontrava grandi difficoltà.

Insomma, il problema del rapporto individuo macchina è stato e continua ad essere, anche se per vie traverse, un passaggio importantissimo di interpretazione e di verifica della realtà; le prime trasformazioni degli apparati tecnologici (le isole, i robot, ecc.) si legano al decentramento produttivo, cioè allo spostamento di comparti importanti della catena di montaggio in zone diverse, frantumando lentamente la continuità della fabbrica classica nella quale si svolgeva tutto il processo dalla introduzione delle materie prime fino al prodotto finito.

Tornando al Frammento sulle macchine di Marx va detto come esso presenti una evoluzione al suo interno che non abbiamo la pretesa di chiarire qui ma di cui e su cui vale sicuramente la pena di ragionare, soprattutto perché è proprio questa evoluzione interna al frammento che ha motivato nella sinistra più radicale prese di posizione, polemiche e quindi scelte tali da mettere in discussione addirittura l’esistenza o meno dello sfruttamento capitalistico nell’attuale fase storica.

Marx indica le macchine come una particolare modalità di esistenza del capitale, un comparto del capitale impiegato nella produzione e le definisce capitale fisso cioè lavoro cristallizzato o lavoro morto di contro alla forza lavoro, il lavoro vivo.

Nelle macchine il lavoro oggettivato si contrappone al lavoro vivo, nello stesso processo di lavoro come quel potere che lo domina e in cui il capitale stesso consiste per la sua forma in quanto appropriazione di lavoro vivo[3].

Le macchine cioè sussumono lavoro vivo, seguita Marx, costringendo la forza lavoro a un ruolo di semplice accessorio dentro il processo di valorizzazione; il tutto ovviamente è finalizzato ad una riduzione del tempo di lavoro per unità di prodotto, in quanto la quantità di lavoro astratto cioè di lavoro che prescinde dal valore d’uso che produce,  si misura esclusivamente con il tempo.

Infatti dice ancora Marx: “l’ambito quantitativo e l’efficacia (intensità) in cui il capitale è sviluppato come capitale fisso [macchine] indica in generale il grado in cui il capitale è sviluppato come capitale, come potere sul lavoro vivo”. In sostanza lo sviluppo delle forze produttive, cioè lo sviluppo dell’apparato tecnologico interno alla fabbrica, indica il potere del capitale ma anche il grado di sussunzione della forza lavoro in quanto appropriazione da parte del capitale della capacità di lavoro: “il mezzo di lavoro rende l’operaio indipendente lo pone come proprietario. Le macchine – come capitale fisso – lo pongono come non autonomo come appropriato”.

Appropriato vuol dire soprattutto sussunto nel sistema di macchine. Tale sistema  acquisisce l’operaio non come essere umano ma come una articolazione – un’appendice – del sistema stesso tant’è che il suo lavoro si misura solo in termini di tempo, prescinde dai valori d’uso nel senso che prescinde dalle reali capacità dell’operaio in quanto persona. Tale situazione per Marx si mantiene così fintantoché lo sviluppo macchinino, pur continuando ad evolversi diventando tecnologicamente sempre più sofisticato, ha comunque bisogno per funzionare di una quota di lavoro astratto. Ma se lo sviluppo della scienza e della tecnica cristallizzate nelle macchine (lavoro morto) e quindi anche il sapere sociale generale crescono fino a raggiungere un livello di automazione che rende completamente superfluo quel tempo di lavoro e cioè quel lavoro che dentro l’industria per un verso manda avanti le macchine per altro verso è la parte di giornata lavorativa (continuamente soggetta a riduzione) che tradotta in moneta è la misura della riproduzione della forza lavoro, per Marx a questo punto succede qualcosa di nuovo: “l’operaio non è più quello che inserisce l’oggetto naturale modificato come membro intermedio tra l’oggetto e se stesso, ma è quello che inserisce il processo naturale che egli trasforma in un processo industriale come mezzo fra se stesso e la natura inorganica della quale si impadronisce. Egli si colloca accanto al processo di produzione anziché essere l’agente principale. In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua attività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in una parola è lo sviluppo dell’ individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza”.

Estinto quindi il tempo di lavoro astratto, il lavoratore non è più un agente comunque importante anche se sussunto nel meccanismo, ma è diventato un semplice controllore del processo di produzione: processo nel quale è ormai cristallizzato tutto il sapere sociale e del quale l’operaio sembra essere espressione e interprete cioè controllore e possessore di un sapere sociale generale.

Ed è qui che nascono i problemi interpretativi più importanti, ed è qui che si dividono seriamente le opinioni su ciò che Marx intendesse dire a proposito di una appropriazione collettiva del sapere sociale.

La rivoluzione informatica e le conseguenti applicazioni dell’informatica alle macchine e alla grande industria, la presenza del computer in ogni ramificazione della conoscenza, la sua diffusione ormai capillare in ogni casa, l’era del digitale, internet; ma soprattutto l’informatizzazione dei processi produttivi in alcuni dei principali comparti dell’industria metalmeccanica hanno modificato le mansioni dell’operaio massa tradizionale, il quale svolgeva un tipo di lavoro prevalentemente manuale. Si è passati nell’arco di pochi anni dalla prevalenza di un lavoro manuale, alla presenza diffusa di un lavoro mentale, un lavoro svolto in prevalenza dalla mente, quindi un lavoro intellettuale ma senza fare distinzione tra il lavoro intellettuale storicamente conosciuto e caratterizzato da ricchezza di contenuti e di creatività con un lavoro svolto a fronte di una tastiera che deve gestire un flusso di informazioni in modo da far funzionare senza interruzioni una catena robotizzata e comunque informatizzata a monte. In questo modo si può anche percepire questo nuovo tipo di lavoratore come un semplice controllore che con il suo intelletto gestisce in realtà il processo produttivo; ormai ciò che viene messo al lavoro è la conoscenza cristallizzata nelle macchine e non più l’operaio che oltretutto potrebbe svolgere la sua attività “intellettuale” in un tempo decisamente più breve dell’attuale.

Una delle conseguenze sottese a tale assunto è la convinzione che la presenza di un lavoro “intellettuale” diffuso renda tutti più liberi dallo sfruttamento.

Il lavoro intellettuale classico non può essere misurato con il tempo, tale lavoro conta da sempre su una sua autonomia disciplinare, è sempre stato il lavoro dell’ingegnere o del ragioniere quindi uno dei comparti della conoscenza che il padrone della fabbrica acquisiva impoverendosi, nel senso che in quanto lavoro non era immediato al processo di valorizzazione come il lavoro dell’operaio. Se il lavoro intellettuale non può essere misurato come il lavoro astratto e se siamo tutti lavoratori intellettuali o in via di diventarlo diventiamo immediatamente liberi. Infatti una seconda conseguenza è data dal fatto che se lo sviluppo del capitale fisso (macchine) è inteso come sapere sociale generale del quale siamo tutti parte in causa, risulta evidente come si possa fare tranquillamente a meno del capitale il quale ne uscirebbe come puro dominio, caratterizzato cioè soltanto da un punto di vista giuridico-formale, qualità che inerisce ai soli rapporti di proprietà. Quindi la proprietà dei mezzi di produzione rimarrebbe l’unico ostacolo in piedi di fronte all’immane sviluppo del general intellect.

Scrive ancora Marx: “lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale”.

Premesso che Marx poteva immaginare ma non di certo studiare una realtà o meglio un processo di vita reale che in quel momento non aveva sotto gli occhi; il prendere alla lettera quello che scrive ha significato per molti intellettuali di sinistra riconcepire la lotta di classe nella fase attuale nel senso di andare ad un superamento del conflitto tradizionale capitale lavoro a vantaggio di un altro tipo di conflitto che trova nell’esodo la sua più compiuta espressione. Di fronte alla potenza dei mezzi tecnici, la strategia di fondo contro il capitale è quella di lasciarlo nudo senza più porsi il problema della riappropriazione. E’ su questa linea che si muove una rivista di recente pubblicazione: Posse diretta da Antonio Negri e coadiuvata da altri intellettuali italo-francesi i quali nei numerosi articoli pubblicati ripropongono come paradigma centrale il tema del general intellect.

Uno degli articoli più utili a nostro avviso è scritto a firma di Anton Monti ed è incentrato sulla vicenda della Nokia. Si tratta di una lettura assolutamente interessante proprio perché propone un – quanto mai improbabile – superamento del conflitto capitale lavoro nello specifico di una situazione concreta, dove la classe si scioglie nella moltitudine e il vero nemico da abbattere non è più il capitale ma, sembrerebbe, la nostra dipendenza psicologica da esso.

Nokia è un’azienda che nasce in Finlandia in una località chiamata appunto Nokia. L’attività commerciale e industriale di Nokia inizia intorno alla seconda metà dell’800 con la produzione di carta; in Finlandia la filiera lavorazione del legname, lavorazione della carta e poi commercializzazione, data l’enorme quantità di boschi è a tutt’oggi una delle attività prevalenti. Alla fine del secolo (1890) Nokia incomincia a produrre oggetti di gomma e da lì a poco (1912) produce ed esporta in tutto il mondo cavi elettrici rivestiti in gomma.

Intorno al 1960 incomincia la produzione dei primi strumenti radiomobili, i quali andranno in dotazione dell’esercito, della protezione civile ed altri servizi di emergenza. Da questa fase in poi l’obiettivo principale dell’azienda sarà quello di lavorare alacremente per far funzionare insieme la telefonia fissa e quella mobile, avendo dalla sua qualità acquisite che la pongono fin da subito come un’azienda che nasce già di tipo post fordista taylorista. I punti forti saranno:

a)      Nokia riesce a costruire intorno a sé (anni ’60-’70) una rete di collaborazioni pubbliche fatta di scienziati, politecnici, laboratori di ricerca e formazione anticipando in questo modo i tempi di un cambiamento che vede il mondo della ricerca già completamente dedito ai problemi dell’impresa; saranno in molti i giovani ricercatori che incominciano la loro tesi di laurea essendo stati già contattati dall’azienda.

b)      Un altro dei segreti del successo è la capacità di tradurre la ricerca in produzione; una velocizzazione del ciclo innovazione scientifica-applicazione commerciale, il che fa pensare anche qui ad una anticipazione dei tempi per le precoci capacità della Nokia nel campo del marketing.

c)      La liberalizzazione del settore telecomunicazioni da parte del governo finlandese (anni ’50 -’60) mette Nokia nelle condizioni di potersi servire anche di fornitori esterni e quindi di accedere ad una componentistica più sofisticata. Questo dato insieme ad una capacità di esportazione in tutto il mondo la pongono già su un terreno trans-nazionale.

d)      Infine l’estrema specializzazione in modo unidirezionale. A mano a mano che alcuni settori acquisivano clienti e successo venivano ceduti  dall’azienda acuendo sempre più la sua specializzazione nello sviluppo delle telecomunicazioni mobili.

 

La seconda parte dell’articolo verrà pubblicata sul prossimo numero.



[1] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, volume II, La Nuova

Italia, Firenze, 1997, pp. 387-403.

 

[2] Si intende qui l’uso della catena di montaggio fordista taylorista classica (n.d.a.)

[3] Karl Marx, op. cit.