NOTE PER UNA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA DELLE ATTUALI TRASFORMAZIONI (2° parte)

Paolo Gentile

 

Questione del distretto industriale

Affrontare la questione del distretto industriale in modo diretto, e cioè immediatamente dopo aver tentato di esporre in generale la questione di questo tipo di sviluppo capitalistico  in quanto, però, evoluzione/involuzione, può sembrare di voler saltare di palo in frasca e cioè da un quadro generale ad un ambito particolare e più specifico senza una logica chiara del percorso.

Di fatto, però, come si è detto, si tratta di appunti, note; tentativi  di aggregare porzioni di discorso coerenti e tentarne, semmai dopo, una integrazione come in un mosaico; tanto più che in tempi di crisi – si ritiene – degli approcci conoscitivi e di grandi trasformazioni epocali, lavorare dentro un quadro logico troppo precostituito può anche essere di intralcio nell’avvicinare una situazione complessa, la quale risulterebbe tale proprio perché avrebbe scompaginato, a sua volta, tutte le logiche alle quali ci si era abituati. Detto questo rimane comunque valido – pur dentro un quadro problematico – una sorta di assunto di partenza che vorrebbe, però, essere verificato nella successione e cioè: le trasformazioni in atto, pur presentandosi come svolte o meglio ribaltamenti dello stato di fatto, continuiamo a pensare che, invece, sottendono evoluzioni e sviluppi molto più lineari di quanto si creda. In questo caso, o meglio in riferimento proprio al distretto, si evince, a nostro avviso, una interessante dinamica che tenteremo di esporre in grado di far giustizia di qualsiasi tendenza a vedere il capitalismo come macchina  progressiva capace di sottendere un naturalistico e incessante cammino verso il progresso.

In un contesto economico e sociale nel quale si predilige e si accentua l’aspetto “imprenditoriale” della vita a tal punto da concepire il concetto di impresa in senso lato, e quindi anche culturale, come una condizione basilare fondante qualsiasi atto di libertà,  l’evoluzione del distretto presenta, di contro, uno strano percorso tale che da una condizione che potrebbe essere assunta, secondo la cultura dominante, a momento di libera imprenditorialità costituita in forma organica tra diverse entità economiche si modifica successivamente e disgregandosi nella sua organicità  e acquisendo all’interno strutturazioni gerarchiche che ridistribuiscono il potere/sapere in un modo assolutamente conforme, ci sembra, a tutto il resto della struttura produttiva.

Dagli inizi del novecento in poi si presentano in varie zone del nostro paese situazioni di produttività di beni di consumo che, successivamente, verranno definite utilizzando il concetto di distretto; situazioni come Canneto sull’Oglio dove, dal secolo scorso, si producono giocattoli o come Prato dove da tempo immemorabile si lavorano gli stracci, e altre ancora cominceranno ad essere studiate come distretti negli anni successivi al dopoguerra. E’ in quell’epoca che nasceva sia per alcuni gruppi della classe politica sia per alcuni studiosi dell’economia l’interesse per la piccola impresa come sinonimo – soprattutto per la compagine democristiana – di libertà individuali vissute all’interno di comunità territoriali come il comune, il borgo, la famiglia.

La sinistra, in generale, ma anche quella dei gruppi aveva, ovviamente, tralasciato la questione della piccola impresa, non che interessi qui riparlarne, tutt’altro, ma risulta interessante, ad esempio, come la sinistra storica, soprattutto, ne tralascia l’importanza per motivi inerenti una fiducia incondizionata nello sviluppo delle forze produttive interne al grande capitalismo, condizione in cui prevale nella sua centralità la grande impresa fordista, luogo di formazione di avanguardie politiche e luogo di  referenti forti per grandi rappresentanze politiche.

Il motivo fondamentale, che riguarda soprattutto la sinistra rivoluzionaria e la sua storia, si configura non tanto sul piano della cultura in quanto fiducia o meno nel grande capitalismo, quanto nel dato strutturale inerente il modo di produrre la ricchezza. Qui la questione va giustamente posta in riferimento alla prevalenza di un modo di produrre nel quale era, comunque, centrale la grande fabbrica fordista e laterale la piccola impresa. Intendendo per lateralità essenzialmente due questioni: per un verso, la piccola impresa isolata o facente parte di un distretto si collocava in una porzione di mercato non occupato dalle economie di scala della grande impresa e, nel contempo, in un mercato che, comunque, realizza domanda per la grande impresa, per altro verso, va detto che il distretto classico presenta caratteri di organicità tra piccole imprese e di legami culturali con il territorio circostante, tali che, al cospetto delle recenti evoluzioni del capitale, sembrano presentarsi come fatti residuali, possibili dentro una civiltà fordista  ma intrisi di quella cultura della comunità (Bagnasco 1988) che successivamente sarà  - a nostro avviso - spezzata dal sorgere della rivoluzione informatica. Si tratta di legami che si sono espressi in una condizione di piccola e media impresa e che hanno coinciso con quei valori, oggi profondamente in crisi, come la cittadinanza, la municipalità, la regionalità.

Le valutazioni di tipo statistico-numerico, fin dal loro esordio come strumenti di lettura di aggregati economici inerenti ai distretti, si sono rivelate fin dall’inizio problematiche (Barca a cura di 1999 Parametri come la media occupazionale oppure la specificità del prodotto prevalente e la sua quantità non basteranno comunque nella rilevazione di fatti economici che fanno capo a più fattori. “L’attenzione non è più concentrata esclusivamente sulle strutture produttive, ma guarda anche alle istituzioni, ai sistemi di valori e ai meccanismi di interazione tra strutture produttive e strutture sociali” (id.).

All’interno di un distretto, o ancor meglio come ha enunciato in più circostanze Becattini, nei sistemi di piccole imprese coesistono vocazioni economiche insieme a strutturazioni antropogeografiche tali da garantire una vera interazione tra piccole imprese le quali, in quanto piccole, assumono un ruolo assai rilevante. “In questo contesto le imprese piccole sono spesso capaci di progettare il loro prodotto e di venderlo con successo sul mercato mondiale” e ancora “la comunità condivide valori e saperi che contribuiscono al successo dell’apparato produttivo. Questi valori e queste competenze si traducono in comportamenti cooperativi tra le imprese e tra lavoratori e imprenditori” (id).

Nel distretto o nel sistema di imprese si sviluppano quindi interazioni di valori, saperi, nei quali ad ognuno spetterebbe il suo posto in una condizione caratterizzata dall’autonomia e da un tipo di accesso ai saperi che potrebbe essere precluso soltanto ai non appartenenti all’eventuale comunità economica. “Il successo di un distretto dipende da un comporsi armonico di caratteri diversi economici e sociali” (id). Non è solo l’economia statistico-matematica, ma anche la geografia, l’antropologia, la storia, la sociologia ad entrare in campo nell’approccio conoscitivo ai sistemi di piccola impresa.

Ci sembra importante rilevare come rispetto al fordismo, dove un sistema di saperi è già allontanato in partenza dalla forza lavoro, nel piccolo sistema di imprese sembrerebbe permanere una trasmissione di saperi tipica dell’epoca prefordista e per di più in una strutturazione delle entità di tipo non piramidale. Prendendo per buona questa tesi è interessante constatare, a nostro avviso, come l’evolversi successivo del distretto, fine anni ’70-anni ’80 inoltrati, presenterebbe un graduale ribaltamento soprattutto per quanto riguarda il modificarsi, internamente al distretto, di una distribuzione di poteri/saperi e, quindi, anche gerarchie.

Premettendo, a nostro avviso, l’esistenza di analogie forti tra fabbrica fordista e sistemi di piccole imprese in riferimento alle evoluzioni/involuzioni recenti nel rapporto tra saperi/poteri e conoscenza ci sembra interessante avvicinare un paradigma sulla conoscenza ben descritto in un saggio da L. D’Auria ( 1998 ).

Pur dentro un quadro problematico non necessariamente condivisibile, D’Auria propone due movimenti della conoscenza in relazione sia al suo codificarsi in assetti disciplinari e sia al porsi in relazione alle nuove tecniche di manipolazione del sapere. D’Auria fa riferimento a due tipi di conoscenza l’una contestuale, l’altra codificata.

E’ “contestuale ogni forma di conoscenza legata direttamente al contesto in cui viene generata e utilizzata. E’ il frutto delle esperienze di apprendimento e di vita dei soggetti che ne sono portatori. E’ quindi personale e informale e conserva queste caratteristiche anche nei casi in cui viene socializzata e diventa patrimonio di una collettività. Non esiste indipendentemente dai soggetti che la possiedono – dalla loro memoria, dalla loro esperienza…”.

“E’ codificata la conoscenza tradotta attraverso un sistema esplicito di regole in una forma (codice) che può essere compresa e utilizzata (decodificata) anche in contesti spaziali, culturali e temporali lontani da quello di origine. La scrittura è lo strumento di codificazione per eccellenza”.

Pur ritrovandoci non necessariamente in sintonia con le conseguenze estreme di questo discorso si pone comunque, come abbiamo già detto, un’importante similitudine con i fenomeni dell’attualità; infatti, al di là delle conseguenze finali, è la conoscenza codificata che in seguito alla rivoluzione informatica prevale come sistema di centralizzazione cristallizzazione, dentro la macchina informatica, di un potere/sapere che predispone e gestisce tutte le fasi del ciclo produttivo; così come è la conoscenza contestuale che prevale come trasmissione di poteri/saperi nei contesti di piccole imprese sia nelle fasi iniziali che nelle fasi più recenti (secondo dopoguerra) di avvicinamento e conoscenza del distretto.

L’evoluzione della fabbrica fordista, in seguito ad un tipo di lotta operaia che aveva per forza di cose accumulato una conoscenza del ciclo, si è, comunque, manifestata nella parcellizzazione e scomposizione in tante parti del ciclo le quali, come scrive Polo (2000), in quanto funzioni tipiche del terziario in particolare e/o di altri settori si sono ridistribuite sul territorio in forma autonoma, entità dotate di propria partita iva le quali proliferano ricevendo incarichi di lavoro quasi esclusivamente dalla ex casa madre (idem) Il tutto, però, avviene da parte del singolo imprenditore in una  nuova percezione di sé dentro  una condizione di assenza di sfruttamento e di coercizione; illudendosi di constatare, come scrive ancora Polo, l’esistenza di una presunta libertà. Purtroppo il rapporto di lavoro tra l’ex operaio Fiat, all’oggi imprenditore, e la casa madre si estrinseca, quasi esclusivamente, in una condizione sì di rete ma, appunto, caratterizzata da un rapporto tra macchine informatiche in una situazione nella quale si esprime da parte dell’azienda prevalente una condizione di preminenza e dominio; è da un ciclo di conoscenza centralizzato nel cuore dell’azienda più grande che partono gli ordini e si decidono le quantità, i tempi ed anche la qualità; in questo quadro gli ex dipendenti hanno perso anche quel margine di libertà che gli consentiva un sindacato concertativi, ormai sono completamente sussunti all’interno del ciclo produttivo.

Un interessante approccio al problema, posto in questi termini e in riferimento alle questioni del distretto, si desume dalla lettura del libro su Prato di M.A. Grandi (1991 ) aggiungendo che,  comunque, Prato si presenta fin dal secolo scorso come un distretto storico e, quindi, con sue specifiche qualità.

In generale, in questo studio, si pone un rapporto interno al ciclo tra produzione e commercializzazione. Tale rapporto nella zona di Prato è stato sempre molto importante e si è configurato per lungo tempo come un rapporto stabile tra artigiano e impannatore e, cioè, fra chi produce le stoffe e chi interviene nei segmenti di ciclo in cui vanno gestiti i passaggi tra diverse manipolazioni delle stoffe fino alla commercializzazione, lasciando all’artigiano il solo compito della lavorazione del materiale. Codesto rapporto, che fino agli anni ’80 inoltrati si presenta su un piano quasi esclusivamente orizzontale, da qui in poi (Convegno di Artimino) (idem) inizia ad essere concepito in termini di sdoppiamento e maggiore autonomia tra le parti e dove gli aspetti commerciale/gestionali  cominciano a modificarsi quanto meno nelle intenzioni dando luogo ad una collocazione delle funzioni di natura molto più piramidale.

Si legge, infatti, il profilarsi di una situazione nuova in cui si constata la presenza di due cicli lavorativi al posto di uno; infatti per uscire in positivo dalla crisi che la rivoluzione informatica e il contemporaneo sconvolgimento dei mercati aveva innescato si presenta per le maestranze pratesi la necessità di istituire un ciclo lavorativo inerente ai lavori tipici del terziario e del terziario avanzato, quali il credito, la progettazione, la commercializzazione, l’innovazione tecnologica, la formazione, quindi un ciclo ricco a fronte di un secondo ciclo inerente le lavorazioni effettive delle stoffe, il lavoro cioè che si svolge alle macchine, in quanto il ciclo più povero (idem): un ciclo lavorativo che accumula recependo i proventi delle lavorazioni e un secondo ciclo lavorativo che, invece, nell’attendere agli aspetti gestionali e commerciali accumula, in realtà, il profitto (idem) Non solo, ma il ciclo più ricco dovendosi esprimere su un piano molto più esteso e flessibile rispetto a quello localistico, per via dei mercati e delle relazioni in generale, finisce per diventare il ciclo più visibile e, quindi, preminente che occulta l’altro, il luogo, cioè, dove ancora si estrinseca lavoro astratto.

Prescindendo qui dalle implicazioni più direttamente teoriche tra produzione e distribuzione si comprende bene, però, quanto meno sul piano del fenomeno, come questo cambiamento in atto sia il principio di una modificazione interna alla struttura medesima dei distretti i quali, dopo una fase quanto meno di diversità, rispetto alle produzioni prevalenti, subiscono una sorta di schiacciamento sulla falsariga della terziarizzazione ormai avvenuta nella grande fabbrica; codificazione del sapere e centralizzazione delle decisioni diventano i momenti centrali da cui si dipana un tessuto produttivo completamente ridisegnato, da entità economiche le quale assumono configurazioni specifiche diverse in un rapporto diverso di più sofistica subalternità rispetto alle fasi di gestione/progettazione.

La situazione toscana a questo riguardo presenta un percorso sicuramente interessante in quanto i sistemi di piccola e media impresa hanno fruito oltre che di condizioni analoghe ad altre situazioni come forme di organicità, trasmissione di sapere contestualizzato e nella giusta misura anche codificato anche di un rapporto forse più particolare con le istituzioni nel quale  una prassi caratterizzata nel senso di un vero e proprio keynesismo regionale ha ben funzionato nella direzione di fornire, attraverso investimenti opportuni, una qualità dei servizi sociali tale da garantire un monte salari relativamente più basso che altrove e una bassa conflittualità sociale; in seguito alla crisi questo rapporto per cui i sommovimenti interni ai mercati internazionali e una graduale riconversione dei fondi pubblici  hanno messo in moto una durissima selezione dei sistemi di piccola impresa (Iosi 1994) dando modo soltanto ad alcune di sopravvivere ed ad altre di mantenersi in vita attraverso un ridimensionamento delle specificità produttive. Da un’autonoma progettazione del prodotto nelle quantità e qualità richieste da un proprio rapporto con il mercato a lavorazioni che sopravvivono in quanto parte particolare di un ciclo gestito e organizzato da un’azienda prevalente attraverso la subfornitura.

Le istituzioni in questo contesto hanno coadiuvato questa selezione in quanto, nel frattempo, hanno modificato la quantità e la direzione degli investimenti per cui da una prassi che trova centrale la questione dei servizi per il cittadino si passa ad una pratica che trova come referente principale l’impresa, divengono prevalenti per regioni e comuni le attività di formazione, marketing, sostegno all’innovazione tecnologica, sviluppo di terziario qualificato, ecc. Tutto ciò in un quadro di riformulazione e ricollocazione gerarchica delle entità economiche caratterizzato in senso decisamente darwinista.

In modo non dissimile da questo quadro, anzi a maggior conferma di quanto interpretiamo, si orienta uno studio Irpet (1998) al riguardo. In tale studio, dopo aver premesso che: “la grande impresa perde occupazione e, anche se in misura minore, peso economico e produttivo, ma recupera una centralità di ruolo nei processi  di sviluppo e relazioni a scala nazionale e globale, in particolare nel ciclo della conoscenza” si descrive un sistema che assumendo una nuova variante: insieme all’impresa /distretto anche l’impresa/rete vede crescere nei sistemi di piccole imprese il ruolo e la funzione dell’impresa leader, la quale a seguito di una selezione nel gruppo di imprese guadagna una posizione di preminenza nella capacità di gestione del ciclo produttivo accentrando su di sé la conoscenza principale rispetto al ciclo.

“Le imprese leader vengono viste come centri a particolare intensità relazionale” (idem).

L’impresa leader è anch’essa una piccola impresa, anzi spesso rispetto ad un sistema di appartenenza è la più piccola stando alla quantità e alla qualità degli occupati ma capace però di gestire nuove funzioni connesse, ovviamente, con le forti aperture internazionali dei mercati (idem). Infatti, il ruolo di queste imprese sarebbe, stando allo studio, anche quello di mantenere le relazioni tra i circuiti globali e i luoghi specifici della produzione.

E’ importante a questo punto capire che cosa succede più concretamente in quei luoghi specifici all’interno dei quali si attua, a nostro avviso, nella condizione della massima subalternità la produzione quella vera delle merci, attraverso parcellizzazioni delle fasi e super sfruttamento del lavoro. Non solo. Ma a questa prima domanda se ne aggiungono delle altre decisamente più complesse. A fronte di un ruolo specifico svolto da un uso della conoscenza (in questo caso della conoscenza necessaria alla produzione) si è ritenuto in alcuni ambiti politico-sociali che il capitalismo si è evoluto   in una entità più cognitiva che monetaria. In altri ambiti politico-sociali l’esistenza di realtà produttive subalterne e parcellizzate rispetto ai processi di centralizzazione delle decisioni fa pensare a una continuità del fordismo al di sotto di una parvenza che ostenta false libertà.

Ragionando su questa dicotomia che, indubbiamente, poi si articola in vari modi è possibile – ci chiediamo – capire che ruolo gioca il lavoro astratto, cioè quel tipo di lavoro che si misura solo col tempo che prescinde dai valori d’uso che produce e che, successivamente, genera profitto?

Quanto lavoro astratto è contenuto nelle merci, oggi? Quale lavoro astratto è contenuto in quelle attività di tipo direzionale dove sembra prevalere un lavoro mentale che elabora, con l’aiuto delle macchine, conoscenze codificate; è possibile pensare che ci sia anche qui sfruttamento?

 

La prima parte è stata pubblicata sul numero di febbraio di Comunismo Notizie

 

continua

 

n.b. Informiamo i lettori che nel prossimo numero indicheremo per esteso i riferimenti bibliografici.