Cronaca di un viaggio – 20 dicembre 2000, 5 gennaio 2001 –
in Cisgiordania
Palestinesi
Giorgio Scatena
La Palestina
ci accoglie con la pioggia. Rari sprazzi di luce squarciano un cielo per lo più
grigio. Fa freddo d’inverno in Palestina. Dopo alcune ore siamo su un Bedford
che a velocità sostenuta percorre le strade che da Tel Aviv portano a
Gerusalemme e da Gerusalemme a Dheisheh, il campo profughi ad una manciata di
chilometri a sud di Betlemme di cui siamo ospiti. Scendiamo dal furgone sotto
la pioggia, scarichiamo i bagagli sul marciapiede e ci si fa incontro,
sorridente e generoso di saluti, un arabo anziano che si offre di aiutarci con
gli zaini e le valigie.
Ahmed
Il volto
solcato dalle rughe di chi ne ha viste e passate tante, kefiah rossa sul capo,
Ahmed ci sembra quasi il guardiano dell’entrata del campo.
Fa il
fruttivendolo Ahmed, e spesso prepara del caffè alla turca che a volte ci offre
e a volte paghiamo due scheckel, intrattenendoci con lui sotto la tettoia
accanto ad un bidone con il fuoco acceso. L’aroma del cardamomo che emana dai
bicchieri di vetro ci riscalda mentre tentiamo di scambiare qualche parola in
arabo con lui e i suoi amici, abitanti del campo o tassisti che si fermano per
una chiacchierata, un saluto e via con nuovi clienti nelle loro enormi mercedes
scassate. La mattina, quando espone frutta e verdura all’aperto in cassette di
legno, apre, salendo su una sedia, la finestra dello stanzino dove prepara il
caffè, e la luce rivela sopra la porta una foto, in bianco e nero, di George
Abash; più in là, sul muro a scolorirsi, un poster di Saddam Hussein. Ce lo
vorrà regalare, quel poster, il giorno della nostra partenza e noi a spiegargli
che all’aeroporto avremmo incontrato dei problemi con la sicurezza israeliana.
Per molti Palestinesi Saddam è un eroe, un grande leader, quasi un padre
protettivo; tutti, comunque, lo rispettano. Gli scud su Tel Aviv nel ’91 furono
un duro colpo per Israele: infranta l’invulnerabilità, paura, ritorno coi piedi
per terra, ammissione della necessità di una pace con gli Arabi, e coi
Palestinesi, anche se pur sempre pax israelo-amerikana da imporre ad Arafat e
ai suoi.
Vita da
profugo quella di Ahmed, da oltre 50 anni. Doveva essere giovanissimo nel 1948,
quando fuggiva di fronte all’esercito israeliano che incalzava inarrestabile
conquistando villaggio dopo villaggio. Lui ed altri 5-6.000 Palestinesi dei
villaggi vicini: scappavano e si fermavano, più volte, nella speranza che le
ondate degli invasori cessassero, fin qui, fino al campo di Dheishe nella Cisgiordania,
dove l’ONU montò delle tende sotto le quali vissero per quasi dieci anni. Loro
ed altri 750.000 Palestinesi, cacciati dalla terra che ora si chiama Israele.
Ora Ahmed ha
una bella casa qui a Dheishe, me l’ha mostrata mentre girovagavo per il campo:
“My home, my home; there! Do you want coffe?”.
Ahmed vuole
sempre tornare nella sua terra.
Majdi
Majdi è
giovane, sulla trentina; gli piace scherzare, quando parla sembra una
mitragliatrice tanto è veloce, e si fa fatica a seguire il suo inglese dall’accento
americano; mette allegria con le sue frequenti battute. E’ la guida di tutto il
gruppo di volontari (italiani, tedeschi, irlandesi, giapponesi, olandesi, ecc.)
e lo trovi sempre pronto, preparato e disponibile. E’ nato ad Hebron e ha
studiato a Seattle, come molti giovani Palestinesi che vengono mandati in
università straniere con i fondi internazionali e della comunità affinché poi
applichino le conoscenze acquisite nella propria terra, allo scopo di garantire
uno sviluppo sociale e culturale a tutta la popolazione. E’ lui che ci
accompagna agli incontri con le diverse associazioni, ai check point come
osservatori internazionali, a visitare Betlemme e altri campi profughi, a
svolgere le nostre mansioni nei campi di lavoro. A dire il vero il campo di
lavoro funziona poco o nulla per la disorganizzazione e il mancato arrivo dei
fondi ONU, ma questo non sembra preoccupare più di tanto gli organizzatori e lo
stesso Majdi: “Come potete ben comprendere non è il vostro lavoro materiale che
ci interessa qui, ma il fatto che siate presenti in mezzo alla popolazione, a
parlare con i profughi che così non si sentono abbandonati da tutto il mondo
occidentale. La cosa più importante per noi è che possiate rendervi conto con i
vostri occhi della situazione reale: come viviamo, come portiamo avanti la
nostra lotta, come si comportano i soldati e i coloni. Sappiamo bene come
spesso ci trattano i mass media occidentali: ci fanno sembrare tutti
fondamentalisti e terroristi, ma come voi potete vedere la realtà della nostra
lotta è tutt’altra, cercate di farlo comprendere anche nei vostri paesi”.
Majdi dispone
di un passaporto americano, non ha grossi problemi nel superare i check point
israeliani che bloccano qualsiasi palestinese voglia spostarsi da un centro
abitato ad un altro per lavoro, per fare una visita a parenti e amici; oppure
per recarsi in un ospedale, come è accaduto poco tempo fa, ci raccontano, ad
una donna incinta alla quale è morto il bambino su un taxi fermato ad un check
point sulla strada per Hebron. Le possibilità di passare i check point variano
a seconda della tensione e della razionalità punitiva dei comandi militari e
del governo israeliano. Molti Palestinesi non lavorano da mesi e tirano avanti
con gli aiuti della comunità, dei paesi arabi e dell’ONU.
Un venerdì di
preghiera ci rechiamo al check point che blocca la strada che porta alla Tomba
di Rachele, vicino Betlemme, luogo sacro per i musulmani e per gli ebrei. Oggi
non può passare nessun musulmano, nemmeno le donne e gli anziani. I soldati israeliani
sono rilassati, non si innervosiscono davanti alle macchine fotografiche e alle
telecamere, parlottano e ridono fra loro con gli M16 a tracolla che dondolano
indolenti. Un gruppetto di tre o quattro donne oltrepassa le transenne per
andare al mercato a vendere verdura e vengono bloccate dai giovani militari. Le
donne difendono le loro ragioni in arabo, discutendo concitatamente,
strillando, lamentandosi, piangendo, percuotendosi il petto e la testa; i
soldati rispondono in inglese trattenendole con le mani sulle braccia e le
spalle, sospingendole con gli M16 di traverso, senza curarsi del riguardo
dovuto alle donne musulmane. Un soldato chiede a Majdi di fare da interprete e
Majdi mitraglia nel suo inglese crepitante: “No, tu vuoi che dica loro di andarsene:
non ho alcuna intenzione di fare una cosa del genere, arrangiatevi”. Majdi,
sempre cordiale, ilare e disponibile con chiunque, fissa lo sguardo
riconoscendo il nemico suo, del suo popolo, della sua terra; s’indurisce per un
attimo nel tono della voce e nello scatto dei movimenti; distoglie gli occhi
dal militare e si avvicina alle donne, tracciando un solco di gelo fra lui e
gli invasori-oppressori.
Non abbandona
quasi mai il suo fare ilare Majdi: lo ricordo sulla cima ventosa della collina
di Dheisheh giocare con un kalashnikov prestatogli da un militare mentre
attendiamo presso l’eliporto del campo l’arrivo di Arafat. Imbraccia il fucile
mitragliatore e scherza fingendo di fare l’incursore: “Avete mai provato uno di
questi?”, ci chiede, “Io sì, mio fratello a Hebron ne ha uno e qualche volta ho
provato a sparare: tun-tun-tun-tun”.
Dopo averci
fatto da guida per quindici giorni, Majdi ritornerà a Hebron, la sua città, una
delle più martoriate della Cisgiordania.
Yahia
e la città di Al-Kalil (Hebron)
E’ Majdi che
ci mette in contatto con Yahia, un negoziante del centro di Hebron e attivista
dell’associazione YPIL (International Palestinian Youth League). Il suo
negozio, che vende borse in pelle, dà su una delle vie principali della città.
Oggi è piena di bancarelle, per lo più improvvisate, sulle quali sono esposte
le merci più disparate, “è perché molti abitanti di Hebron non possono recarsi
a lavorare ormai da mesi”, ci spiega Yahia, “quindi si arrangiano come possono;
per ora viene tollerato dai soldati, ma può accadere che da un momento
all’altro passi una jeep con l’altoparlante e ordini di sgomberare la via, è
allora che possono iniziare gli scontri”. L’aria vociante e festosa, da suq,
può far dimenticare la reale tensione che quotidianamente si vive in questa
città, ma solo per una manciata di passi o grazie ai saluti e ai sorrisi
scambiati con i venditori e i passanti: infatti non si percorrono cento metri
senza incontrare torrette, sacchi di sabbia, canne di M16 che spuntano dai
tetti tra il filo spinato, posti di blocco, soldati, camionette. Hebron vive
costantemente una condizione di precario equilibrio, ad un nulla
dall’esplosione di un conflitto sempre presente, ovunque palpabile.
Hebron: più di
130.000 abitanti palestinesi, 400 coloni ebrei difesi da 2.500 soldati; divisa
in due settori, H1 e H2, l’uno controllato dall’Autorità Palestinese, l’altro
dagli Israeliani; nel settore israeliano, il centro storico della città, oltre
ad alcune migliaia di Palestinesi, risiedono i coloni, tutti dell’estrema
destra ultra ortodossa. Qui si trova la Tomba dei Patriarchi, luogo sacro sia
per i musulmani che per gli ebrei: rigidamente divisa in due parti, una
sinagoga e una moschea. Il 25 febbraio 1994 l’ultra nazionalista Barukh
Goldstein entrò nella moschea e fece fuoco sui Palestinesi in preghiera
uccidendone 29 e ferendone più di cento. Questo e i susseguenti attentati di
Hamas fecero rinviare sine die il ritiro delle forze militari israeliane dalla
città previsto per la fine del 1995. La tomba di Goldstein è divenuta meta di
pellegrinaggio per molti coloni ultraortodossi.
Le vie strette
del suq sono coperte da una rete metallica: serve, ci spiega Yahia, a
proteggere i passanti palestinesi dai sassi e dall’immondizia che di tanto in
tanto i coloni gettano loro addosso. Gli Israeliani, infatti, hanno acquistato
quasi tutti i secondi piani delle case che danno sulla via; sul tetto incombono
i mitra e i fucili dei soldati.
Quasi
quotidiane sono le provocazioni delle donne israeliane al mercato arabo: arrivano
a piccoli gruppi e urlando rovesciano frutta e verdura dalle bancarelle.
Nessuno si sogna di fermarle, contrastarle, prenderle a sberle: i musulmani
nutrono un profondo rispetto per la donna, al punto da evitare qualsiasi
contatto con essa; senza contare che per la legge israeliana si rischiano fino
a sei mesi di carcere solo per aver toccato un colono; gli stessi militari
cercano di convincere le donne ad allontanarsi soltanto a parole, senza opporre
alcuna resistenza fisica.
Dalle colline
circostanti l’esercito israeliano controlla la città di Hebron anche con
l’artiglieria pesante. Con Yahia c’incamminiamo lungo una salita. Ad un
incrocio incontriamo una decina di bambini che giocano a pallone, sulla
sinistra una strada sale verso alcuni prefabbricati abitati da coloni, una
postazione militare sbarra la via, davanti ad una bottega di alimentari quattro
o cinque Palestinesi ci salutano, ci fermiamo un attimo a chiacchierare, ci
offrono un caffè. Ci parlano dell’assurda e drammatica realtà di Hebron, delle
provocazioni dei coloni anche nei confronti dei bambini, del loro girare
armati, della difficile esistenza dei Palestinesi costretti a vivere a stretto
contatto con loro. Ma che attività svolgono questi 400 coloni a Hebron,
chiediamo. “Nessuna”, ci rispondono, “li vedi andare in giro, entrare e uscire
dalla sinagoga, guidare per le strade della città, mentre a noi ci viene anche
proibito di usare veicoli a motore per via della loro sicurezza. Secondo noi il
loro vero lavoro è stare qui a Hebron, provocare tensioni e scontri; di tanto
in tanto alcuni se ne vanno, sostituiti da altri”. Ci indicano poi una casa
abitata da Palestinesi, proprio di fronte ai prefabbricati dei coloni, “vedete?
Lì abita una famiglia che nessuno di noi può andare a trovare: non possono
ricevere amici, vengono fermati al posto di blocco; sì, forse a voi vi
lasceranno passare, non siete Arabi”. Andiamo. Yahia ci saluta. Al posto di
blocco incontriamo un uomo, fermo accanto a una bombola di gas. E’ uno dei
componenti della famiglia a cui vogliamo fare visita: per motivi di sicurezza
non viene fatto transitare, giù in città c‘è appena stata una violenta
sparatoria. Noi passiamo scortati da un militare, i coloni, infatti, vedendo
degli sconosciuti potrebbero mettersi a sparare. Veniamo accolti con stupore e
un leggero imbarazzo da una donna che ci fa accomodare in un salotto e ci offre
caffè e squisiti dolcetti arabi. Incontriamo il capofamiglia, un anziano
solenne e cordiale che si siede con noi; ci scambiamo sorrisi e convenevoli senza
parole e aspettiamo. Finché non arriva il figlio, fermato dai militari, che
conosce l’inglese. “Qui siamo praticamente isolati. Noi stessi, come avete
appena visto, siamo a volte tenuti fuori dalla nostra stessa casa. Ora mi è
toccato fare un lungo giro per i campi con la bombola sulle spalle. Una volta,
poiché non ci facevano uscire di casa, abbiamo dovuto telefonare per avere una
medicina; ce l’hanno portata con un’ambulanza, ma nemmeno questa volevano
lasciare passare, allora mi sono messo d’accordo col medico e lui l’ha
collocata sotto un grosso albero: ore dopo, di notte, sono uscito per
recuperarla. Rendono impossibile qualsiasi cosa, vogliono sempre ribadire il
concetto che i padroni di tutto sono loro. Hanno anche fatto una grossa offerta
in denaro per acquistare questa casa, abbiamo rifiutato. Questa è la nostra
terra, siamo determinati a viverci nonostante tutte le difficoltà”. E’ quasi il
tramonto, ringraziamo per l’ospitalità e la disponibilità, ci salutiamo
stringendoci la mano.
Ore 18.30.
Coprifuoco su Hebron. Sulle strade cala rapidamente la notte, e il silenzio.
Usciamo, guidati da Yahia, e c’incamminiamo per le vie del suq, poco fa
straripanti di folla e rumorose, ora deserte. Yahia ha paura, lo si vede da
come cammina, frettoloso, capo chino, orecchie tese, occhiate rapidissime
tutt’intorno. E’ pericoloso violare il coprifuoco se si è arabi, come minimo si
rischiano il fermo e l’arresto. Sotto una volta oscura bussa ad una porta. Dopo
un paio di minuti viene ad aprire una donna, Yahia entra, noi aspettiamo fuori
ancora un po’. Entriamo poi in una stanza colma fino all’inverosimile di
oggetti di ogni tipo, si va da telefoni e sveglie anni ‘50-’60 a lampadari e
vari soprammobili del periodo mamelucco, primi del ‘500. Le altre stanze
offrono il medesimo spettacolo, è impossibile fissare lo sguardo in qualche
punto, ovunque è un rutilare e un vorticare di vetro, stoffa, metallo, legno,
plastica. Il tutto accatastato alla rinfusa, nella ricerca di un caos voluto.
“Mio marito vuole fare un museo in questa casa, è da molti anni che raccoglie e
conserva tutti questi oggetti. Sono tutte cose che fanno parte della storia del
nostro popolo e della nostra terra. Qui siamo nel mezzo del Suq di Hebron, il
cuore della nostra città; i coloni hanno comprato molte case qui intorno,
vorrebbero che anche noi ce ne andassimo, mio marito lotta in questo modo per
affermare la nostra identità e la volontà del popolo palestinese a resistere”.
Accende la luce in un’altra stanza e ci indica un sasso grosso quanto un pallone
da rugby: “Questo lo hanno lanciato da lassù i coloni, hanno rotto questa
finestra mentre qui c’erano i bambini a giocare”. La signora è fortemente
angosciata per i propri figli: “Quello più piccolo non esce quasi mai dalla sua
stanza, piange quando sente sparare; in cortile si è visto più volte addosso il
puntino rosso del laser di puntamento delle mitragliatrici: i soldati sui tetti
si divertono a spaventarli così”. A volte il coprifuoco si protrae per più
giorni e diviene difficile perfino la sopravvivenza: “Bisogna fare tutto in un
paio d’ore in un giorno della settimana, la spesa, le commissioni… con i
soldati lungo le strade che ci insultano e ci picchiano se protestiamo. I
bambini non vanno a scuola. Una volta non ho potuto comprare le mie medicine,
soffro di diabete, per più di una settimana”.
Siamo stati
meno di 48 ore a Hebron. I colpi di M16 e di artiglieria hanno rimbombato più
volte sulla città. Otto feriti e un morto, un bambino di 12 anni. Tutti
palestinesi.
Ziad
Ziad è uno dei
promotori e organizzatori del centro culturale Ibdaa, la struttura che ci
ospita all’interno del campo di Dheisheh. Ha 37 anni ed è un ex militante del
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Come molti altri ha
abbandonato la politica attiva per dedicarsi agli aspetti dello sviluppo
sociale e culturale della comunità palestinese in cui vive. Considera
sorpassato, non più adeguato alla situazione attuale, l’approccio politico del
Fronte Popolare, ancora legato a schemi troppo ideologici e non in grado di elaborare
prospettive realistiche per la lotta del suo popolo. “E’ necessario”, ci dice,
“lavorare per formare nuovi leader, con capacità culturali appropriate al
contesto attuale”.
L’Ibdaa Center
rappresenta una parte notevole dei suoi sforzi in questa direzione: vi si
svolgono lezioni di musica e canto con i ragazzi del campo, un computer-lab con
più di venti computer collegati a internet permette a chiunque di lavorare in
contatto con tutto il mondo inviando e ricevendo messaggi, l’ostello ospita
frequentemente volontari stranieri offrendo l’opportunità di un concreto
interscambio culturale.
Ziad
personifica un po’ la memoria storica di questo Centro e di tutta Dheisheh: è
lui che ci racconta la storia del campo profughi, dal 1948, quando ancora non
era nato e i suoi genitori venivano scacciati dalla loro casa, ai giorni
nostri, sotto l’amministrazione dell’Autorità Nazionale Palestinese. I primi
dieci anni, dal 1949, sotto le tende dell’ONU: molte persone morivano per gli
stenti e il freddo. Gli anni successivi in case di cemento grandi come
containers (nove metri quadrati per famiglia). Dal 1967 sotto il controllo
dell’esercito israeliano, con il coprifuoco, il filo spinato, le raffiche di
mitra che falciavano chi non si sottometteva. Gli anni ’80, con il campo
recintato da un’altissima rete metallica, una sola porta girevole per l’entrata
e l’uscita dal campo, i soldati di vedetta sulle altane. Oggi ci troviamo di
fronte ad un paesone di circa 15.000 abitanti, discendenti dei 5-6.000
profughi; le case sono costruite l’una sull’altra a premere su un saliscendi di
viuzze in cui è quasi impossibile mantenere il senso dell’orientamento. Tutto
ha l’aspetto della precarietà: le strade malmesse, i rifiuti abbandonati dove
capita, costruzioni lasciate a metà… tutto sta a testimoniare la volontà di non
mettere radici, il desiderio di tornare, un giorno, alla propria terra, quella
terra, nella maggior parte dei casi, sentita solo raccontare dai genitori, dai
nonni, a volte vista, magari da lontano, nel corso di una gita di una giornata.
Ziad tiene
sempre con sé una grossa chiave, di quelle antiche, di color bruno. E’ la
chiave della casa che apparteneva a suo padre prima che gli Israeliani si
impadronissero del villaggio in cui viveva. Non sa spiegarci esattamente il sentimento
che lo lega ad essa. La stessa chiave la ritroviamo ritagliata nel cartone in
mano ai bambini durante le manifestazioni, disegnata nelle vignette di Nagji al
Ali, stilizzata in decine di pubblicazioni palestinesi; la vediamo trasformarsi
in kalashnikov nei graffiti tracciati sui muri. E’ il simbolo di un popolo di
profughi che grida la propria volontà di non dimenticare e il proprio diritto
al ritorno.
Amdi
Parla bene
l’italiano, ha studiato per alcuni anni a Padova, inizi ‘90, ha frequentato l’area
dei centri sociali. Ora fa il muratore, non lavora da qualche mese per via del
blocco nei territori che non consente ai Palestinesi di spostarsi nemmeno per
raggiungere una località sotto l’Autorità Nazionale Palestinese, se, per
arrivarci, bisogna attraversare una zona C, sotto il controllo israeliano.
Ammette di non passarsela male dal punto di vista economico, ma con una moglie
e una figlia a carico non può permettersi di rimanere senza lavoro troppo a
lungo. Con lui andiamo al ristorante o a bere una birra, a fumare il narghilè,
a giocare a biliardo; ci parla della vita di tutti i giorni, degli usi del suo
popolo, dei giovani e di come si divertono, di come viene vissuto
quotidianamente il conflitto. “I coloni sono matti”, afferma più di una volta,
ridendoci anche su; “da un momento all’altro possono sparare su chiunque non
riconoscano come ebreo”. Anche i soldati hanno il grilletto facile: ”Un mese fa
hanno sparato contro questo bambino che tornava da scuola e lo hanno ucciso”,
dice indicandoci una foto-volantino attaccata su un muro.
Ci racconta
della prima Intifada, iniziata nell’87, delle manifestazioni e delle sassate
contro i soldati: “Un paio di volte ho sentito i proiettili che mi sfioravano,
alla testa e ad una gamba; un’altra volta mi sono fatto male ad un braccio a
forza di lanciare sassi, allora mi sono messo a passare le pietre agli altri
ragazzi, dopo un po’ si sono messi ad urlarmi: sono troppo grossi, non siamo
mica come te!”; e lo guardiamo ridendo e ammirando il suo fisico atletico che
sfiora i due metri di altezza. Poi, la voce e gli occhi velati appena di
tristezza, ricorda quella volta che, insieme a quattro o cinque amici, andò su
una collina a ridosso di una strada a lanciare sassi contro le auto israeliane:
“Quella volta non fu fortunata: arrivarono i soldati e cominciarono a sparare,
uno dei miei amici non ce l’ha fatta a scappare…”.
Una sera in
birreria, mentre parliamo del più e del meno, ci fa: “Adesso vi faccio
conoscere un uomo davvero grande, uno veramente forte, è mio cognato”, e dopo
averlo chiamato da un tavolo vicino ci presenta Khaled.
Khaled
Solido,
massiccio, non molto alto, baffo folto, e uno sguardo penetrante impossibile da
evitare. Appunta gli occhi su ogni particolare, sembra non sfuggirgli niente,
alla ricerca del significato umano riposto in ogni oggetto, in ogni situazione.
Prova a ritrarne l’essenza nei quadri che dipinge, in cui sono rappresentate
scene di vita quotidiana del popolo dei profughi, col loro carico di
sofferenza, tormento e rabbia. La rabbia che impregna anche i suoi “sassi
dell’Intifada” che recano tuttavia, incisi in arabo e in inglese, messaggi di
speranza: “ritorneremo”, “vinceremo“, “pace”….
Khaled scruta
il mondo e il dolore che lo circondano anche con una telecamera. Lavora infatti
per una televisione locale raccogliendo immagini della vita nel campo, degli
scontri, dei feriti negli ospedali, dei danni dei bombardamenti, dei funerali
dei martiri.
Non ha sempre
fatto questo Khaled. Prima era nel Fronte Popolare, partecipava attivamente
alla lotta, faceva parte di un gruppo armato di guerriglieri. E’ stato
arrestato dagli israeliani con l’accusa, sembra, di aver ucciso un palestinese
collaborazionista. Ha scontato cinque anni di carcere. Scolpiti tutti nella
determinazione del suo volto.
Soprattutto in
questo periodo dorme poco: “Come fai ad addormentarti tranquillamente quando
tutt’intorno hai questo”, traccia un arco nell’aria con la mano e affissa gli
occhi nei nostri. “I miei figli, tutti i nostri bambini, ogni giorno vivono e
crescono in mezzo alla violenza, in una situazione di guerra. Giocano con le
pallottole sparate contro le nostre case dai soldati israeliani, parlano del
calibro di ognuna, dell’arma che le ha sparate. E’ così che devono crescere dei
bambini?”. Intanto i suoi bambini, ilari e vergognosi, dispongono su un tavolo
l’arsenale dei loro giochi: pistole e fucili giocattolo, fionde, bossoli e
pallottole vere. E’ una violenza imposta quella vissuta dal popolo palestinese,
imposta dalla necessità, dall’ineluttabilità di una liberazione che ancora non
si riesce ad intravedere.
Come tutti i
Palestinesi che abbiamo conosciuto Khaled è molto ospitale e generoso di
parole, mai stanco, anzi quasi ansioso, di rispondere a tutte le nostre domande
e di farci conoscere la realtà in cui vive. Una mattina ci dice: “Venite con me
e questo mio amico, vi porto a vedere cosa hanno fatto poche ore fa i soldati
israeliani”. Montiamo su un grosso fuoristrada che ci porta a pochi chilometri
dal campo. Scendiamo di fronte ad una scuola elementare: i vetri di quasi tutte
le finestre sono stati infranti. Le aule sono deserte, ovviamente i bambini non
sono andati a scuola stamattina; una donna che abita nella stessa strada della
scuola ci racconta, con rassegnazione nella voce e nei gesti, dei soldati che
senza alcun motivo apparente sono arrivati ed hanno compiuto la loro
operazione. Già nei giorni precedenti ci avevano detto che gli Israeliani hanno
tutto l’interesse che i bambini palestinesi non studino, perdano giorni di
scuola, non abbiano un’istruzione completa e serena: questo è uno dei metodi
che usano per raggiungere il loro obiettivo.
Mentre
parliamo si avvicina un’altra donna; anche lei si sbraccia indicandoci da dove
sono venuti i soldati e le finestre che hanno rotto. Poi ci fa capire che non è
la prima volta che i soldati vengono in quel quartiere, lo fanno quando
vogliono e fanno quello che vogliono, senza che nessuno glielo impedisca.
Chiama a sé un bambino di non più di quattro o cinque anni, non le arriva
all’anca, ci racconta di come l’anno scorso i soldati gli hanno sparato
addosso, mirando alla testa. E’ stato operato, tra i capelli corti è visibile
una lunga cicatrice, ha perso un occhio. La donna accarezza la testa del figlio
piangendo, continuando a parlarci: non capiamo una parola di arabo… capiamo
tutto.
Proseguiamo
sempre a bordo del fuoristrada sulla strada per Hebron, fino a che non troviamo
una barriera di terra e sassi che la interrompe. Questo sbarramento viene posto
e tolto dai mezzi dell’esercito a seconda della tensione nei territori, degli
ordini di chiusura, a volte semplicemente dell’umore dei coloni insediati sulle
colline circostanti. Come di consueto, da una parte e dall’altra della barriera
file di taxi caricano e scaricano passeggeri: questo è l’unico modo per raggiungere
Hebron o, verso nord, Betlemme e Gerusalemme. Ma oggi c’è qualcosa di diverso,
i taxi sono fermi, i tassisti e i passeggeri si agitano e imprecano vivacemente
in un andirivieni ai lati e sopra il mucchio di terra. Sono appena passati i
soldati israeliani e hanno sequestrato le chiavi delle automobili: i
collegamenti con Hebron sono interrotti fino a nuovo ordine. I presenti ci
raccontano con voce esasperata di essere stati spintonati, minacciati con le
armi. Un tassista ci indica i fanali rotti del suo mezzo e mima i calci
sferrati dal soldato per fracassarli: senza i fanali in regola non si può
circolare. Per molti un’altra giornata di lavoro persa; per tutti una
situazione di oppressione, soprusi e violenze che si perpetua da oltre
cinquant’anni, niente affatto migliorata con l’instaurazione dell’Autorità
Nazionale Palestinese. Anzi, se possibile, Israele tende a far pesare ancora di
più sulla popolazione il suo ruolo di potenza occupante e colonizzatrice. Lo si
vede dagli insediamenti, che aumentano di numero e crescono nelle dimensioni,
lo si capisce dai Check point, che si moltiplicano e chiudono e frammentano con
estrema frequenza i Territori, lo si sente nella sicumera e nell’arroganza
delle forze militari, che tutto possono e non si fermano davanti a niente.
Ultimo giorno,
il giorno dei saluti, delle foto ricordo; una mattina soleggiata. Scherziamo e
ci sfottiamo con Amdi, scambiamo baci e strette di mano con Majdi e gli altri
ragazzi del Centro Culturale. Khaled ci abbraccia vigorosamente, spera di
essere lui un giorno a venire a trovarci in Italia, dove sogna di stabilirsi
per qualche tempo a studiare storia dell’arte. Dal furgone salutiamo agitando
le braccia. E’ ancora presto per il nostro volo, ma dobbiamo aggirare i vari
check point percorrendo strade sterrate e affrontare eventuali controlli ed
interrogatori all’aeroporto.
L’occupazione
è reale, palpabile e presente ovunque, anche per noi.