PER UNA TEORIA MARXISTA DEL SOGGETTO

Pierangelo Scatena

 

La concezione marxista assegna all’uomo, e alla storia da questi prodotta, anche la propria autocostruzione. Sul piano epistemologico ciò significa che ogni sapere è anche una conoscenza dell’uomo su se stesso. In questa prospettiva, e da un altro punto di vista, si comprende il carattere storico-sociale di ogni conoscenza in quanto prodotta dall’uomo nel tragitto della sua autorealizzazione storica. Non appare pertanto coerente con una epistemologia marxista l’opinione di Lenin di una progressiva continua approssimazione ad una presunta assoluta “verità” (anche se irraggiungibile per le limitate possibilità umane), che si porrebbe comunque al di fuori del contesto storico-sociale. Ogni conoscenza invece si dà solo a partire da una determinata e concreta situazione storica, quella propria degli uomini che la producono. La conoscenza si caratterizza, infatti, non solo in base ad un criterio (comunque storico) di “verità”, ma ancor prima per quello della “pertinenza”, definito dal suo rapporto con il soggetto. “La maniera pertinente, la maniera cioè in cui viene conosciuto un oggetto da parte di un soggetto storicamente determinato, risulta dall’utilizzazione che il soggetto in questione fa di questo oggetto in una pratica. …… alla base del modo in cui si conosce una realtà vi è sempre una prassi”. (L. J. Prieto).

Avremo così sempre e soltanto conoscenze relative e parziali, storicamente determinate, e ciò non tanto per l’impossibilità di una conoscenza esaustiva di qualsiasi “oggetto”, ma proprio perché l’oggetto di ogni conoscenza è sempre anch’esso storicamente definito, costruito nella pratica sociale da cui proviene ogni teoria, anche scientifica. D’altra parte ciò non rappresenta un limite della conoscenza, ma il modo proprio del suo realizzarsi e del suo continuo trasformarsi insieme alle condizioni storico-sociali che la costituiscono come specifica attività dell’essere umano. Ogni conoscenza si dà solo in tali condizioni, non è possibile conoscere al di fuori della realtà che gli uomini producono e trasformano continuamente nel processo della loro evoluzione sociale e culturale. L’unica conoscenza che potrebbe situarsi fuori da questo contesto è quella ipotizzabile come “divina”, trascendente ogni realtà in quanto immediatamente produttrice di tutta la realtà presente, passata e futura. Ma questa ipotesi certamente non la prendiamo in considerazione.

Queste brevi riflessioni epistemologiche sono utili ad inquadrare il problema della costruzione di una teoria marxista del soggetto. Intendo in questa sede per “soggetto” l’identità individuale del singolo, ma anche quella collettiva, giacché il processo di umanizzazione conduce (o dovrebbe condurre in una prospettiva di liberazione) alla potenziale realizzazione dell’universale umano in ogni singolo individuo.

Tra i tanti che hanno tentato di costruire una tale teoria l’autore che mi sembra abbia compiuto l’analisi più coerente e approfondita rimane Lucien Séve che, nel saggio “Marxismo e teoria della personalità”, si propone di produrre una teoria del soggetto partendo dalla concezione marxista dell’uomo e della storia, nel tentativo di cogliere la dimensione fondamentale dell’essere umano: la sua attività socialmente decentrata e storicamente determinata.

E’ interessante notare come il tentativo si basi non su studi e categorie di ordine psicologico, bensì sulle indicazioni filosofiche (giacché ogni scienza si fonda su un nucleo di asserzioni filosofiche) fornite da Marx per l’elaborazione di un’antropologia scientifica. Come dice G. Politzer, infatti, “la psicologia non detiene affatto il segreto dei fatti umani, perché tale segreto non è di ordine psicologico”.

Io credo che la psicologia non abbia meditato la lezione antropologica di Marx, sintetizzata nella VI Tesi su Feurbach, non riuscendo così ad identificare coerentemente il suo “oggetto”. Anche per questo è rimasta fino ad oggi una scienza priva di fondamento, “preparadigmatica” (nel senso di T. Kuhn), in quanto attraversata da molteplici teorie (od opinioni), da diverse tecniche e da svariati metodi di studio, senza che un modello sia prevalso stabilmente a costituire il campo di una “scienza normale”.

Non è mia intenzione cercare di affrontare, con queste note, un tema tanto complesso quale la costruzione di una teoria della personalità coerente con l’impostazione marxista. Lo stesso progetto di Séve non mi sembra riuscito, pur rimanendo il più approfondito in questa direzione.

Vorrei soltanto delineare, brevemente e con il rischio di un certo schematismo, quelle che potrei definire le “condizioni di possibilità per la costruzione di una teoria materialistica (marxista) del soggetto”.

Nella VI tesi su Feurbach, Marx afferma: “L’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali”.

Il decentramento, che qui Marx opera, dell’essenza umana pone l’uomo reale (il soggetto) come prodotto dei rapporti sociali. Risulta così evidente che la conoscenza della soggettività umana non è questione teoretica, bensì teorico-pratica.

Anche Giambattista Vico riteneva possibile solo la conoscenza di ciò che si fa (verum ipsum factum), derivando da tale constatazione che è impossibile conoscere in modo vero e completo l’uomo, in quanto questi non sarebbe opera di se stesso. Il riconoscere l’essenza umana come prodotto dei rapporti sociali apre invece una via concreta alla comprensione della soggettività. Una scienza dell’uomo non può essere prodotta fuori da una teoria e da una pratica di trasformazione.

Ritengo pertanto che il suo fondamento debba essere il marxismo, in quanto “filosofia della prassi”.

Una teoria del soggetto potrà essere validamente costruita solo nella consapevole pratica trasformativa del soggetto stesso. Qualsiasi conoscenza vera, del resto, è sempre anche un atto di trasformazione. Come ci ricorda efficacemente Mao Tse Tung “per acquisire conoscenze bisogna partecipare alla pratica che trasforma la realtà; per conoscere il gusto della pera bisogna trasformarla mangiandola; per conoscere la struttura e le proprietà dell’atomo bisogna modificare lo stato dell’atomo con esperimenti fisici e chimici”. E’ a questo livello di consapevolezza che si inserisce anche la scoperta di quel “principio di indeterminazione” (Heisemberg) che trascende l’ambito della fisica quantistica, entro cui è stato individuato, per assumere la rilevanza di una delle più importanti acquisizioni epistemologiche del XX secolo. Tale principio si basa, infatti, sulla impossibilità di scindere il soggetto e l’oggetto della conoscenza nell’azione dell’appropriazione pratica del sapere. Se l’oggetto non può essere compreso al di fuori della soggettività che lo costituisce, d’altra parte il soggetto (ed è la grande lezione di F. Hegel) non può conoscersi, e neppure costituirsi, senza quel processo di reificazione che lo rende oggetto della propria prassi. 

La conoscenza è dunque sempre un’azione che modifica l’oggetto (ed anche il soggetto), e che lo conosce solo relativamente all’attività del soggetto stesso. Come sostiene J. Piaget “la conoscenza procede dall’azione”. Qualsiasi realtà può essere conosciuta solo nell’atto che la produce. E’ la caratteristica immanente del pensiero umano, per cui “la questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è una questione teoretica, bensì pratica”. (K. Marx). Ovvero, come afferma M. Focault, “non esistono che delle pratiche: non ci sono oggetti naturali, non ci sono cose. Le cose, gli oggetti non sono che dei correlati delle pratiche”.

Nella costruzione di una teoria della soggettività ci troviamo di fronte ad un ulteriore problema logico. Non si tratta soltanto di dover tenere in conto l’inseparabilità di fatto tra il soggetto e l’oggetto del conoscere, ma di affrontarne tematicamente la perfetta coincidenza, senza alcuna possibilità di distanziamento anche metodologico. Abbiamo a che fare con un “oggetto” che è insieme esterno (in             quanto ipotizzato come analizzabile) ed interno al soggetto della conoscenza (perché pone se stesso nell’analisi).

Come “i sistemi viventi trasformano dentro se stessi materia in modo tale che il prodotto del loro operare è la loro propria organizzazione”, per cui “non c’è separazione tra produttore e prodotto, l’essere e l’agire di una unità autopoietica sono inseparabili” (Maturana e Varela), così l’essere umano trasforma in sé il mondo per costruire se stesso. Il soggetto non si dà, si fa.

Parafrasando l’XI Tesi su Feurbach potremmo perciò dire: “Gli psicologi hanno soltanto diversamente interpretato l’uomo, ma si tratta di trasformarlo”. Così come non si può interpretare il mondo senza cambiarlo, non si può comprendere l’essere umano senza trasformarlo.

E, d’altra parte, per trasformare l’uomo è necessario cambiare il mondo. Infatti, il movimento che crea il mondo dell’uomo è quello stesso che produce il soggetto umano. “L’autopoiesi della soggettività” non è data in se stessa, ma mediata dalla dimensione sociale e culturale che è propria dell’esistenza umana.

Certamente la personalità è soggetta a continui cambiamenti, in relazione ai mutamenti socio-culturali, anche all’interno del modo di produzione capitalista. E’ evidente che l’avvento della condizione definita “postmoderna”, che corrisponde sul piano culturale ad una nuova evoluzione economico-tecnologica del capitale con più efficienti metodi di sottomissione del lavoro e di estrazione del plusvalore (neo-liberismo), ha modificato e modifica anche la costruzione dell’identità personale.

Si assiste ad una trasformazione della condizione del soggetto che D.R. Dufour, in un recente articolo su “Le Monde Diplomatique”, ha efficacemente denominato “destituzione soggettiva”. Questo Autore, partendo dalla constatazione che “l’essere umano è una sostanza che non riceve la propria esistenza da sé, bensì da un altro, cui le successive ontologie hanno attribuito nomi diversi: la Natura, le Idee, Dio o l’Essere”, rileva che questa ontologia appare sconvolta dal passaggio alla post-modernità. Mentre la modernità, infatti, manteneva la presenza dell’Altro (intesa in senso lacaniano come dimensione simbolica fondante l’identità individuale), avvallando anzi diverse figure dell’Altro (Dio, il Re, la Repubblica, la Nazione, il Popolo, il Proletariato, ecc.), producendo così nel soggetto la condizione della “nevrosi”, ma anche la possibilità della “critica”, ciò non è più concesso nella condizione post-moderna. Oggi, con la scomparsa delle “grandi narrazioni” (J. Lyotard), l’abolizione della distanza tra il soggetto e l’Altro costringe all’autoreferenzialità, con l’inevitabile oscillazione tra onnipotenza ed impotenza e con l’assenza di ogni riferimento su cui costruire la propria personalità e la sua declinazione nello spazio e nel tempo. Si assisterebbe così al crollo dell’identità, con la formazione di individui “abbandonati” che diventano facile preda del “mercato”, a cui illusoriamente demandano l’appagamento dei loro bisogni immediati.

Noteremo qui, di passaggio, come queste figure dell’Altro, che costituiscono l’essere umano, e che assumono forme diverse a seconda delle istanze di volta in volta funzionali alla ideologia del dominio, abbiano a loro volta il proprio fondamento nella realtà di un determinato modo di produzione. Ogni loro manifestazione appartiene insomma all’ordine della “sovrastruttura”, pur con tutte le mediazioni dialettiche e le interazioni possibili con la struttura sociale.

Questi brevi riferimenti ad un Autore, che indaga le modificazioni contemporanee della soggettività, potrebbero accompagnarsi a molte altre osservazioni di sociologi che cercano di interpretare i mutamenti nell’ordine dell’”ontologia dell’essere sociale”.

R. Castel, ad esempio, nota come oggi si stia realizzando una trasformazione nei meccanismi del controllo sociale. Le regole non vengono più imposte dall’esterno, ma si cerca di costruire tecnologicamente delle relazioni tra individui e fra gruppi tali che, in modo autonomo e spontaneo, obbediscano alle regole di una società resa asettica. Si viene così a creare una “socialità asociale”, che risponde ai bisogni dei processi produttivi limitandone i guasti sui singoli. A tale processo serve l’enorme diffusione delle psicotecniche (tra cui le psicoterapie). Tali tecniche, intensificando il funzionamento e massimizzando il rendimento, produrrebbero “una sorta di taylorismo generalizzato, cioè l’applicazione di una razionalità tecnica a tutte le dimensioni dell’esistenza”. La “socialità asociale” che ne risulta si esaurisce tutta nella rete dei rapporti, nell’intensificarsi del legame sociale, producendo una sorta di “plusvalore di disponibilità relazionale”. “Nello stesso modo in cui Marx ha potuto dire che la religione era il sole di un mondo senza sole, si potrebbe correre il rischio di sostenere che l’installarsi nella psicologia sia lo stabilirsi di una socialità senza sociale”. (R. Castel).

Denunciando la funzione “normalizzante” dello psicologismo, l’Autore ci riconduce così ad esaminare i modi della riproduzione degli individui all’interno dei meccanismi di costruzione di una determinata socialità.

 In altra occasione ho anch’io evidenziato come “questo tipo di socialità sia funzionale alla riproduzione dei rapporti sociali. Ormai il mantenimento del sistema tende non più ad essere affidato solo agli ideali e ai valori della classe dominante, propagandati come universali, ma diventa interno al sistema stesso, viene a coincidere con la riproduzione fine a se stessa delle relazioni ad ogni livello di socialità. Questa normalità senza norme non è meno ideologica delle precedenti. La sua ideologia è il funzionamento stesso degli individui e dei gruppi attraverso l’uso di manipolazioni tecnologiche, e risponde perfettamente a quel “disincanto post-moderno” che vorrebbe disfarsi di tutte le grandi narrazioni.” (P. Scatena).

Ovvero, come avverte O. De Leonardis, la normatività del sistema “è privata di ogni fondamento etico e perciò anche di riferimento eteronimo; senza una base di senso, poiché il senso, oggettivato, è un prodotto dell’azione selettiva del sistema; senza legittimazione, perché fa a meno di un riferimento a interessi e valori…; senza consenso, che è mera finzione istituzionale.” Perciò la stessa identità individuale risulta oggi “costituita di una molteplicità di sé, ciascuno dei quali è fatto di diverso materiale sociale, ma nessuno dei quali è autentico. E’ questo sé multiplo l’abitante della complessità sociale.” (O. De Leonardis). 

Infine, per citare ancora uno degli Autori che hanno indagato questo tema, D. Harvey, nel “La crisi della Modernità”, ritiene che il fatto più sorprendente del post-modernismo sia “la sua totale accettazione della caducità, della frammentazione, della discontinuità e del caos”. La conseguente atomizzazione del sociale in una rete elastica di giuochi linguistici (Lyotard), farebbe sì che “ciascuno di noi può ricorrere a una serie completamente diversa di codici a seconda della situazione in cui si trova”. L’Autore individua l’aspetto più importante della visione post-moderna (per quanto qui ci interessa) nell’idea che oggi la società produca personalità “schizofreniche”, per cui non potremmo più “concepire l’individuo come alienato nel classico senso marxista, perché essere alienati presuppone un senso dell’io coerente e non frammentato da cui essere alienati”. Poiché soltanto avendo un’identità personale gli individui possono portare avanti progetti nel tempo e poiché “come insisteva Marx c’è bisogno di un individuo alienato per perseguire il progetto illuministico di un futuro migliore, allora la perdita del soggetto alienato sembrerebbe precludere la costruzione consapevole di futuri sociali alternativi”. (D. Harvey).

Non possiamo certo essere d’accordo sull’interpretazione della condizione di alienazione  cui sembrano riferirsi le precedenti affermazioni. Senza affrontare l’analisi di questa categoria marxista nelle sue varie articolazioni (estraniazione rispetto al prodotto del lavoro, rispetto alla attività lavorativa, rispetto all’essenza umana e rispetto agli altri esseri umani), noteremo soltanto che la frammentazione e la perdita della propria identità è, a tutti gli effetti, una delle possibili modalità (anche se estrema) dell’espropriazione dell’essenza umana conseguente all’espropriazione capitalistica che l’uomo subisce del proprio prodotto e del proprio lavoro.

Prendiamo atto dei sempre più drammatici disastri prodotti dal sistema capitalista, nella sua evoluzione interna, anche nella costruzione dell’identità personale. Conveniamo pure che appare oggi ancora più difficile la costituzione del soggetto antagonista. Ma è anche evidente che, proprio questa estrema perdita di sé del soggetto che produce se stesso, pone in maniera sempre più forte e impellente la necessità del recupero della propria autocostruzione nel farsi concreto del suo divenire storico-sociale, pena la completa autodistruzione. Del resto, qualsiasi sia la forma che assume l’alienazione, il senso dell’io deve comunque essere ricostituito a partire da una condizione di estraneità e di inappartenenza.

Come abbiamo visto, dalle precedenti pur frammentarie citazioni, non mancano certo indagini, anche approfondite, sulla condizione del soggetto nell’epoca della “post-modernità”. Ciò che invece non è sufficientemente analizzato sono i meccanismi attraverso cui i nuovi modi di riproduzione sociale costituiscono e trasformano le identità individuali. Restiamo così sul piano di una pura descrizione “sintomatica”, ma non riusciamo (per mantenerci nella metafora clinica) a ricostruirne la “patogenesi”. Questo non stupisce, giacché ancora non abbiamo una teoria che renda validamente conto del soggetto e dei processi che lo realizzano.

Tornando dunque al tema delle condizioni di possibilità per la costruzione di una teoria materialista del soggetto, credo che non potremo costruirne una valida finché non saremo in grado di governare i processi di trasformazione sociale, riappropriandoci così di noi stessi.

Se la soggettività, infatti, si produce all’interno dei rapporti sociali storicamente determinati (decentramento dell’essenza umana), è solo riconquistando il dominio dei rapporti sociali (attualmente alienati) che si può conquistare anche la possibilità di conoscere più a fondo il soggetto umano.

Non è casuale che l’ideologia capitalista vada proclamando la fine del soggetto e l’inutilità di una sua teoria. Così come è comprensibile il fallimento delle teorie della personalità, anche di impostazione marxista, sia in occidente, sia nei paesi dove si è ritenuto, erroneamente, di essere sulla strada della realizzazione del “regno della libertà” e della conquista da parte dell’”uomo nuovo” del dominio su se stesso e sulla storia.

Nella società capitalista il processo per cui l’uomo, il soggetto reale, lavorando oggettivizza se stesso nella produzione e con ciò realizza la propria soggettività, è completamente invertito. L’oggetto, il prodotto, vive di un’esistenza autonoma, mentre il soggetto, l’uomo, ne diviene a tutti gli effetti un predicato. “Il soggetto e il predicato si trovano quindi tra loro nel rapporto di un rovesciamento assoluto”. (K. Marx).

Il superamento di questa alienazione è un problema pratico e politico. Il soggetto alienato può negare la sua forma sociale di esistenza solo abolendo le condizioni materiali che la costituiscono: il modo di produzione capitalista.

Poiché “ciò che gli uomini sono dipende dalle condizioni materiali della loro produzione”, tutto ciò che partendo solo dal pensiero si sforza di spiegare l’uomo si rivela solo una costruzione ideologica, senza storia né sviluppo.

“Ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali, trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza” (K. Marx).

Diventare padroni della propria soggettività non più alienata è dunque la condizione per appropriarsene anche nella teoria. Ma per conquistare se stessi gli uomini devono, innanzi tutto, governare i processi produttivi da cui sono “prodotti”.

Per sviluppare coerentemente una teoria materialistica del soggetto è necessario cambiare il mondo e i rapporti sociali. Tale teoria può correttamente prodursi solo all’interno di un processo rivoluzionario di superamento del capitalismo, che trasformi la società (e quindi l’essere umano) verso la realizzazione del comunismo.

Per il momento dovremo ancora accontentarci (ma per quanto tempo?) degli spezzoni operazionali delle teorie borghesi e delle intuizioni che provengono dal bisogno del cambiamento.

Per concludere mi sembra interessante notare come anche per questa via, apparentemente teorica, di approfondimento della conoscenza si ponga la necessità del comunismo “come reale appropriazione dell'essenza dell'uomo mediante l'uomo e per l'uomo; perciò come ritorno dell'uomo per sé, dell'uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi.”  (K. Marx).

 

 

 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

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