L'imperialismo "italiano"

Come "l'Italietta" ha perduto la sua innocenza

(relazione di Sergio Cararo per il convegno di Firenze)

Non è ancora passato un anno dall'aggressione della NATO alla Jugoslavia. Il bilancio e i retroscena sui veri obiettivi di quella guerra non sono ancora completi - anche se molti elementi strutturali e non certo "umanitari" sono venuti a galla.

Il coinvolgimento attivo dell'Italia nella guerra non è stato dirimente solo sul piano politico e morale tra chi ha sostenuto l'intervento militare e chi vi si è opposto. C'è qualcosa di più che merita di essere discusso e compreso nel ruolo internazionale dell'Italia e dunque negli interessi materiali e strategici che sono alla base di una scelta comunque "estrema" come la guerra che ha coinvolto attivamente il governo, gli apparati statali e le ambizioni del capitale finanziario nel nostro paese.

Sono alcuni anni che i fatti ci invitano a non sottovalutare il capitalismo italiano, le sue dinamiche e il suo peso nelle relazioni economiche internazionali. Eppure assistiamo ancora ad atteggiamenti dominanti che non solo sottovalutano ma liquidano il carattere assunto del capitalismo "italiano" come marginale dentro la fase imperialista che continua a caratterizzare il secolo in cui viviamo. Negli ultimi anni poi, il feticcio della globalizzazione assunto come categoria valida e moderna, ha occultato sistematicamente la natura e le dinamiche dell'imperialismo come estensione su scala mondiale dei rapporti sociali di tipo capitalistico.

Il senso di questa relazione non è solo quello di ristabilire un minimo di coerenza tra analisi marxista e realtà ma è soprattutto quello di individuare la natura assunta dal capitalismo a base italiana - una natura imperialista - con l'integrazione che è andato costruendo in un nuovo polo imperialista rappresentato dall'Europa e le sue ambizioni a costruirsi una propria area di influenza. Tutto questo ha delle pesanti conseguenze sulla struttura dello Stato "nazionale" e sulla composizione di classe.

Le riforme istituzionali all'insegna della stabilità interna e i provvedimenti sul lavoro (oggetto tra l'altro dei referendum che si svolgono in coincidenza con questo convegno), sono elementi speculari e fondanti dello Stato ambìto dal settore più dinamico del capitale finanziario.

Se vogliamo rifondare seriamente un progetto comunista nel nostro paese, occorre misurarsi con questi fattori che in un decennio hanno modificato molti elementi a cui eravamo abituati a fare riferimento e che vanno invece compresi e ricalibrati.

"L'Italietta" ha cambiato volto

La natura del capitalismo italiano nell'ultimo decennio ha una rapida trasformazione. La crescente finanziarizzazione dell'economia, la liquidazione delle grandi aziende pubbliche, l'integrazione ormai realizzata nelle strutture internazionali del dominio capitalista (dall'Unione Europea al G 7) e la proiezione internazionale sul piano economico, politico e militare non collocano più l'Italia come l'anello debole della catena imperialista.

Volendo utilizzare le categorie leniniste dell'imperialismo, possiamo inquadrare chiaramente quella italiana come una economia imperialista come le altre, forse ancora debole su alcuni aspetti ma con una tendenza ormai piuttosto delineata.

La partecipazione attiva all'aggressione contro la Jugoslavia - rivendicata da D'Alema come prova del conquistato prestigio internazionale dell'Italia - ha rivelato agli occhi di molti che l'Italietta ha ormai perduto la sua "innocenza".

L'Italia oggi è ad esempio il primo paese per presenza di militari nell'area balcanica (Bosnia, Albania, Kossovo, Macedonia) ma è anche tra i primi paesi per investimenti diretti esteri in Romania , Albania, Macedonia e il quinto paese per gli investimenti complessivi nell’Europa dell’Est. Le banche italiane sono le terze nel mondo per l’esposizione creditizia nell’Europa dell’Est e stanno penetrando fortemente nell’area balcanica. L’Italia è il quarto paese per quote di capitale nella nuova Banca regionale per il Mediterraneo . Ha l’8,5% delle quote azionarie della Banca Europea per la Ricostruzione e Sviluppo dei paesi dell’Est e il 17,5% delle quote azionarie della Banca Europea per gli Investimenti. Sul piano dell’interscambio commerciale è il primo paese in Croazia, Romania, Albania, Macedonia, Libia e in Siria.

La presenza di banche straniere nell'Europa dell'Est

Paese

Banche straniere

Banche italiane

Polonia

31

1

Ungheria

27

3

Romania

16

1

Repubblica Ceca

13

1

Repubblica Slovacca

8

1

Croazia

(nd)

3

Albania

(nd)

1

Le banche italiane più presenti nell'area, coincidono con il forte processo di concentrazione avvenuto in questi anni. Si tratta infatti di cinque grandi gruppi bancari (Unicredit, Banca Intesa, Comit e in misura minore Banca di Roma e SanPaolo-IMI). "Acquisire il controllo di una banca locale" spiegano alla Comit "significa avere un rapporto con il territorio e la sua realtà produttiva che una filiale di una casa madre - per sua definizione monosportello- non potrà mai avere" (Mondo e Mercati, 18 maggio 2000).

Ci sembra dunque di poter sostenere che l'economia italiana è una economia imperialista che opera sia in autonomia che in concertazione con le altre potenze all'interno del polo imperialista europeo.

Dal dopoguerra alla fine degli anni '80, il mercato interno è stato sempre fondamentale per il capitalismo italiano : una forte spesa pubblica, l'indicizzazione dei salari, gli incentivi ai consumi e gli investimenti pubblici, assicuravano una crescita della domanda interna.

Con le politiche d'urto degli anni '90 e la finanziarizzazione dell'economia, il mercato interno è diventato via via meno importante rispetto a quello internazionale. Come potremmo spiegare altrimenti la stagnazione della domanda interna che dura ormai da nove anni con il proseguimento di politiche restrittive ? Diciamo allora che l'economia italiana - una economia imperialista - si sente ormai sicura di realizzare una valorizzazione del capitale allargando il mercato e costruendosi una area di influenza.

L'Europa dell'Est e il Mediterraneo Sud, in questo nuovo quadro, hanno assunto un ruolo particolare. Sorvolando sulle conseguenze politiche, strategiche, militari, ideologiche di questo cambiamento che meritano una riflessione specifica (basta pensare alla guerra nei Balcani) , ci interessa mettere in evidenza i riflessi sulla situazione economico-sociale dell'Italia innescati dalle relazioni con queste aree del mondo.

E' noto a tutti che uno dei soggetti economici più attivi a livello internazionale è l'ENI. Molto spesso questa multinazionale prima pubblica e poi privatizzata, ha aperto la strada alla politica estera italiana (la stessa strada viene oggi seguita dalla Telecom privatizzata). Oggi sul mercato petrolifero è in corso una guerra senza esclusione di colpi (confermata dal prezzo de petrolio che in un anno è praticamente triplicato da 10 a 30 dollari al barile). Lo stesso avviene nella conquista e spartizione delle concessioni per le telecomunicazioni.

Per portare a casa margini di profitto occorre partecipare a questa guerra e l'Italia non intende affatto rimanerne fuori. La partecipazione all'aggressione contro la Jugoslavia in questo ha una sua logica.

I terminali petroliferi che dovranno gestire i flussi che arrivano dall’area del Mar Caspio, devono necessariamente connettersi ai mercati ricchi dell’Europa.A loro volta, dal "cuore" sviluppato dell’Europa dovranno veicolare i flussi di investimenti destinati ai "nuovi mercati dell’Est" oggi ancora poco sfruttati.

I Balcani sono decisivi per il passaggio di questi corridoi. Ne vengono attraversati da Nord a Sud e da Est a Ovest, convergendo guarda caso, soprattutto in Germania (ovvero nel cuore del polo imperialista europeo) e nei porti balcanici dell’Adriatico dunque affidando all’Italia un ruolo strategico non certo secondario.

Questo ruolo dell’Italia si evince dalla attivissima Ost-Politik lanciata dal governo Prodi. Piero Fassino che in quell’esecutivo era Viceministro degli Esteri dice su questo cose illuminanti : "Troppi nel nostro paese - soprattutto nella classe politica - sottovalutano che l’Europa centrale e sud-orientale è per l’Italia un’area strategica di interesse vitale....Sono queste le ragioni per cui il governo Prodi ha individuato nell’Europa centrale e orientale e nei Balcani una priorità fondamentale della politica estera italiana, sviluppando una vera e propria "Ost-Politik" italiana che non solo corrisponde agli interessi del nostro paese, ma consente all’Italia di svolgere un’essenziale e riconosciuta funzione nella costruzione della nuova Europa....Il forte radicamento della nostra Ostpolitik nell’Europa centrale e sud-orientale si proietta poi in una dimensione ancora più ampia verso la Russia, l’Ucraina e la Moldavia, verso l’area caucasica fino a giungere ai paesi dell’Asia centrale" .

La competizione in corso

Comprensibilmente, dopo le distruzioni provocati dai bombardamenti dalla NATO e dai combattimenti tra esercito jugoslavo e UCK, si pone il problema della ricostruzione della Serbia e del Kossovo.

I parametri di questa "ricostruzione" sembrano essere definiti dalle baionette dei vari contingenti militari della NATO che sono intervenuti in Kossovo. Chi vuole "ricostruire" deve mostrare la bandiera tramite i propri soldati, esattamente come accadeva nella Cina dopo le spedizioni militari occidentali che soffocavano le rivolte popolari contro i "diavoli bianchi" (dai Taiping ai Boxer). In tal senso, la ricostruzione impone una "spartizione" delle aree di influenza nella regione e la questione dei corridoi assume un valore strategico.

"Tra i progetti in partenza di grande interesse per l'Italia è la ricostruzione del porto di Durazzo....Altra opera seguita con attenzione dall'Italia è il corridoio nr.8 che proprio da Durazzo si snoda attraverso Macedonia e Bulgaria per arrivare al MarNero" sottolinea "Mondo e Mercati" (Sole 24 Ore del 6 aprile 2000).

L'Italia accresce la sua presenza anche militare nell'area perchè sta perdendo troppo terreno nella spartizione economica : la francese Alcatel ha "scippato" alla Telecom la gestione della telefonia mobile in Kossovo; la siderurgica Duferco sta perdendo un impianto che aveva acquistato, l'ENI si è vista annientare dalle bombe della NATO i suoi progetti di pipelines da Pancevo a Trieste previsti dal Corridoio nr.10, etc.

I flussi di investimenti che anticiperanno, accompagneranno e seguiranno la ricostruzione, vengono presentati alle opinioni pubbliche dei paesi della NATO coinvolti nella guerra, come una "importante occasione per le imprese" che avrà ricadute positive nelle indebolite economie europee, tra queste quella italiana.

Ci permettiamo di contestare questo scenario idilliaco posto a metà tra il neocolonialismo e i richiami alla "grande proletaria che si è mossa".

Tra il 1990 e il 1998, le imprese italiane hanno portato all’estero circa 330.000 posti di lavoro (su un totale di circa 700.000 addetti complessivi di aziende italiane all’estero calcolati tra il 1985 e il 1998). Di questi circa 120.000 sono andati nell’Europa dell’Est (Europa centro-orientale e balcanica).

In terzo luogo, questo boom di investimenti delle imprese italiane all’estero, ha coinciso largamente con il boom della esportazione di capitali italiani in altri paesi. E’ dal 1993 infatti che la bilancia dei pagamenti italiana denuncia la "fuga di capitali all’estero". L'allora Ministro dell’Economia Ciampi denunciava che nel solo 1998 questa "fuga" era pari a 80.000 miliardi di lire.

Ciò significa che le imprese italiane che vanno all’estero non portano via solo il lavoro ma non fanno rientrare nel paese neanche i profitti che ottengono con l’investimento estero. Questi profitti prendono la via dei paradisi fiscali, dei fondi pensione, dei fondi di investimento in altri paesi.

Dunque è del tutto illusorio attendersi una "socializzazione" dei benefici della partecipazione delle imprese italiane alla ricostruzione della Jugoslavia distrutta dalla guerra. Del resto non può che essere illusorio attendersi qualcosa di diverso dalla speculazione finanziaria ormai dominante in una economia imperialista come quella europea in cui l’Italia è ormai perfettamente integrata. E’ per questa ragione che appare più realistico parlare di "spartizione" piuttosto che di "ricostruzione" nei Balcani.

Le conseguenze sulla composizione di classe

Secondo alcuni esponenti del capitale finanziario l'Europa dell'Est può avere per le imprese italiane la stessa funzione avuta dai paesi a bassi costi del Sud Est Asiatico per il Giappone, ovvero una area in cui realizzare una gigantesca valorizzazione del capitale a vantaggio dei punti alti dello sviluppo capitalistico.

Gli investimenti diretti esteri italiani nell'Europa dell'Est - rileva l'Istituto Affari Internazionali - sono praticamente raddoppiati tra l'85 e il '98 passando dall'8% al 16,9% degli IDE totali italiani.

La dinamica degli IDE italiani nella seconda metà degli anni '90

Area di destinazione

1994

1998

Europa occidentale

40,4

36,9

Europa centro-orientale

17,2

16,9

America del Nord

10,6

10

America Latina

15,8

17

Asia e Oceania

11

14

Africa e Medio Oriente

5

5,2

(elaborazione di Paolo Guerrieri su dati UIC,ICE,ISTAT, Sole 24 Ore, 14.10.1999)

L'assalto a Est ha coinvolto non solo le multinazionali più grandi e già da tempo internazionalizzate ma anche migliaia di piccole-medie imprese che rappresentano da un lato il 90% dell'industria italiana e dall'altro la peculiarità dell’espansione del "modello italiano" nelle relazioni economiche internazionali.

L'Europa balcanica - nelle valutazioni omogenee delle autorità italiane - è diventata il retroterra economico e strategico dell'imperialismo italiano. In questa valutazione pesano certo considerazioni di carattere politico, strategico e militare ma queste seguono e non precedono un processo economico in corso già da tempo.

I casi della Romania, dell’Albania o della ex Jugoslavia, ovviamente non sono i soli nè i più particolari ma sono quelli che ci consentono di individuare materialmente e visibilmente le direttrici e le conseguenze della internazionalizzazione dell'economia italiana.

L’Italia è ben inserita dentro la nuova divisione internazionale del lavoro. Abbiamo collocato l'Italia alla cima di un iceberg produttivo che - tramite le filiere mondiali di produzione - vede il nostro paese mantenere le lavorazioni a maggior valore aggiunto, accrescere la specializzazione di nicchia (design, strumenti di precisione e di misurazione), e delocalizzare in una catena di montaggio distribuita a livello internazionale le fasi a minor valore aggiunto ed alta intensità di lavoro e assai poco in nuove tecnologie.

Uno studio commissionato dalla Confindustria e dal CNR su un campione di alcune decine di imprese dei settori tessile-abbigliamento e della meccanica, conferma pienamente la polarizzazione sociale che si produce nella divisione del lavoro come effetto della delocalizzazione.

I lavoratori "qualificati" nelle case-madri delle multinazionali italiane che hanno delocalizzato rappresentano il 53,5% degli occupati rispetto al 36,4% degli occupati nelle imprese che non hanno delocalizzato. Non solo ma i "colletti bianchi" sono cresciuti in sette anni dal 26,2 al 33,4% nelle multinazionali rispetto al 22,6% a cui si ferma la quota dei "white collar" nelle imprese che non dispongono di filiere all'estero. "E' stato privilegiato un sistema di lavoro skill-intensive, per rafforzare in Italia funzioni amministrative, commerciali, di marketing, di innovazione, lasciando all'estero le funzioni di manodopera scarsamente qualificate". (parole del Sole 24 Ore).

 

"La sponda Sud"

Con i processi di privatizzazione e liberalizzazione imposti dal FMI ai paesi del Maghreb e del Makresch, gli spazi per la penetrazione capitalista si sono allargati. In questi si è inserita con forza anche il capitalismo italiano, soprattutto nei settori delle risorse energetiche (petrolio, gas), nelle telecomunicazioni e nella filiera del tessile-cuoio. "Anche sulla sponda Sud, forse più velocemente di quanto si potesse sperare soltanto poco tempo fa, è arrivata una rivoluzione che marcia su due gambe : telefoni cellulari e privatizzazioni. L'onda del cambiamento ha cominciato a muoversi tre anni e mezzo fa ma ha accelerato nell'ultimo anno e mezzo" (Mondo e Mercati, 11/5/2000).

Se c'è da segnalare la crescente presenza della Fiat in Marocco, Algeria, Turchia, la filiera principale resta quella del petrolio (e del gas) anche in relazione alla crescita degli investimenti nell’area del Mar Caspio e alla conseguente rete di pipelines che attraverso e raggiunge i paesi del Mediterraneo Sud.

Le relazioni economiche e politiche dell’Italia con i paesi mediterranei e mediorientali sono cresciute o si sono mantenute anche nel caso di paesi "critici" per le relazioni con gli Stati Uniti (come Libia, Iran, Siria) e per la situazione interna (Algeria). Queste relazioni sono state al centro di aspre tensioni tra Italia e Stati Uniti e, più complessivamente tra Unione Europea e USA (vedi il "dialogo critico" con l’Iran e l’opposizione europea a nuovi attacchi militari americani contro l’Iraq) o la più aperta e complessiva divergenza di interessi sulla gestione del "processo di pace" in M.O.

Il progetto di integrazione dei "Paesi Terzi Mediterranei" nel mercato comune con l’Unione Europea previsto per il 2010 (deciso alla Conferenza Euromediterranea di Barcellona nel ‘95), rappresenta una sfida aperta all’egemonia statunitense nel bacino Mediterraneo, ma le strettissime relazioni economiche tra Europa e Maghreb sono del resto note e consolidate

Dal canto opposto, la nascita dell’asse USA-Turchia-Israele, segna, sul piano economico e militare, un fattore strategico evidente teso a fronteggiare il tentativo dell’imperialismo europeo nel suo complesso di stabilire la sua influenza nell’area.

L’Italia non solo è interna a questo scontro crescente tra UE e USA nel Mediterraneo, ma è chiamata (e si è candidata a svolgere) un ruolo di primo piano sia sul piano politico che su quello economico. E’ vero che due paesi "ad influenza USA" come Turchia ed Israele hanno tuttora un peso rilevante nei rapporti economici dell’Italia nella regione. La speciale relationship dell’Italia con la Siria, l'Iran o con la Libia e l'Iraq- in aperto contrasto con i diktat degli USA - potrebbe evolversi rapidamente arrivando così alla messa in crisi di un paese strategico per la regione e "al limite" tra Europa e Stati Uniti come l’Egitto.

Il Mediterraneo Sud insieme all’Europa dell’Est, del resto cominciano ad avere un peso crescente nelle relazioni economiche dell’Italia. Anche se non raggiungono ancora il peso di altre aree la tendenza è in crescita.

L'imperialismo italiano comincia dunque ad operare concretamente e ciò non può non avere ripercussioni sulla composizione di classe all'interno del nostro paese (vedi la nuova aristrocrazia operaia), nell'organizzazione degli apparati statali necessari (logica bipolarista che assicura la stabilità politica all'interno e il consenso in politica estera, esercito professionale) e nel ruolo internazionale che l'Italia andrà assumendo verso i popoli sottoposti al dominio dell'imperialismo anche italiano. La perdita di innocenza significa assumersi la responsabilità della colpevolezza. Il mito degli "italiani brava gente" è destinato ad infrangersi molto più rapidamente di quanto ci eravamo abituati a pensare.

Firenze, 20 maggio 2000