Alla luce di
un’esperienza particolare, considerazioni in generale, abbozzo di una possibile
analisi ed indicazioni di lotta
Valter
Tarabella
Lo
scorso anno scolastico (‘99-2000) mi sono buttato a capofitto in alcune
commissioni di lavoro del collegio dei docenti (“POF”, “Successo formativo”)
sebbene fossi assolutamente contrario all’autonomia con tutti i suoi corollari,
nella speranza di riuscire a sintonizzarmi con il “mondo” separato delle
elementari e delle materne per meglio comprendere i ragazzi e migliorare
didattica e metodi. Sostanzialmente ho appreso ben altro, confermando idee ed
impressioni sulle tendenze capitalistiche della scuola attuale non più solo
alla luce delle scelte politiche “esterne” (tagli, “privatizzazione”, aumento
degli alunni per classe, riforma dei cicli ecc…), ma anche sperimentando certe
nuove dinamiche interne all’Istituto.
Indubbiamente
esistono aspetti immediatamente evidenti che testimoniano che si è voluto o si
vuole trasformare l’entità scolastica in una specie di fabbrica: risparmi sulle
supplenze e sul personale; incentivazione dello straordinario (senza esagerare
però); autonomia che significa ricerca di sponsor e di fondi e spietata
concorrenza tra le scuole; privatizzazione del servizio di pulizie; aumenti
legati al merito (tentativo tutt’altro che scongiurato); offerta sul mercato di
strategie formative e di progetti (Piano Offerta Formativa = POF, più chiaro di
così!). Se poi aggiungiamo l’esempio di laboratori scolastici che producono oggetti
poi messi in vendita, sia pure con guadagni più simbolici che reali, il quadro
è completo. Sul preside-manager tornerò più avanti. Tuttavia se cogliessimo
solo questi aspetti, pure importanti, rimarremmo ancora all’apparenza del
fenomeno, cioè, come dire, alla circolazione, allo scambio: costi, merce
salario…Tali aspetti non basterebbero, a mio avviso a definire la scuola come
una realtà capitalistica; cosa che si ha in mente, penso quando si parla della
scuola-Azienda. Occorre analizzare i rapporti sociali produttivi, tentare di
chiarirne la forma, vedere cioè se si caratterizzano in senso capitalistico.
Un’operazione, questa, tutt’altro che facile visto che le analisi marxiane e
marxiste partono da rapporti produttivi che si realizzano sostanzialmente nelle
fabbriche. [1]
Inoltre,
l’ipotesi marxista classica (lo stesso Marx ha insistito su questo punto),
ritiene il Modo di produzione capitalistico, caratterizzato dallo scontro tra
chi possiede (proprietà e/o controllo) i mezzi di produzione (borghesia) e chi
non li possiede ed è costretto a vendere la sua forza lavoro in cambio di un
salario (proletariato-classe operaia). I rapporti sociali di produzione
sarebbero quindi connessi alla proprietà e alla non proprietà dei mezzi
di produzione. Difficile non vedere la difficoltà di applicazione di questo
modello alle relazioni lavorative esplicate nella scuola. Se ci fermiamo al
principio della proprietà privata, pure essenziale per la società a base
capitalistica, potremmo prendere in esame correttamente solo gli istituti
privati. Però il “vecio” Karl ci apre un’altra strada, collegata ma al tempo
stesso diversa rispetto alla prima, attraverso il “Manifesto” ed il primo libro
del “Capitale”, nella sezione IV, con più precisione.
“Masse
di operai….. Come soldati semplici dell’industria (essi) vengono sottoposti
alla sorveglianza di tutta una gerarchia di sottufficiali e di
ufficiali…..”, così si esprime Marx nel Manifesto del Partito Comunista.
Fabbrica dunque come caserma con una sua gerarchia di capi e di capetti
sovrastanti gli operai-massa. Nel “Capitale”, del resto, si parla spesso di
comando capitalistico e si formula l’idea di una via rivoluzionaria che
porterebbe dalle botteghe artigiane allargate (le prime manifatture), alle
fabbriche passando per le manifatture (sussunzione-sottomissione-formale del
lavoro al capitale), al macchinismo industriale (sussunzione reale) con
l’operaio appendice dello strumento di lavoro. Gianfranco La Grassa
sottolineando l'importanza di questa ricostruzione e teoria ed ispirandosi ad
essa, fa partire tutto il processo dalla scissione delle potenze mentali
(il general intellect, come le chiama Marx) dal lavoro manuale-esecutivo
(in nuce nel laboratorio artigiano), per cui ad un certo punto della
dissoluzione delle Corporazioni, il mastro artigiano, si trasformerebbe in
padrone dirigente possessore delle conoscenze del mestiere che più facilmente
prima il garzone (futuro maestro) poteva conseguire e così fino allo sviluppo
industriale previsto da Marx. In sintesi, secondo questo autore ogni società
divisa in classi è caratterizzata da rapporti di Dominio e Subordinazione,
giocati fuori dal processo di lavoro e tali rapporti s’incuneano, con il
capitalismo nell’attività lavorativa assumendo la forma della Direzione
e della Esecuzione.[2]
La
strada aperta da Marx di cui parlavo sopra, trova, a mio avviso, un’utile messa
a punto ed uno sviluppo nell’ipotesi di La Grassa: i rapporti capitalistici
come configurazione gerarchica di ruoli direttivi contrapposti a quelli
esecutivi, con gradazione intermedia e mista tra i due estremi; modello questo
che permette una significativa lettura della dinamica principale della scuola
azienda. Perché si possa parlare di azienda capitalistica bisogna individuare
quei rapporti (direzione, esecuzione) ed è qui che voglio fare riferimento in
particolare alla mia esperienza. Cominciamo dalle cosiddette
“funzioni-obiettivo”, insegnanti scelti dal collegio per svolgere particolari
compiti (non a caso poco definiti) con un compenso lordo di un milione 800mila. Poteva anche avere un senso il loro
lavoro se non si fossero di fatto comportati come capetti: hanno tentato –
talvolta riuscendoci – di far passare proposte anche di natura didattica nel
ristretto delle commissioni e poi al consiglio d’Istituto, saltando discussione
e delibere del collegio dei docenti; si sono semplicemente raccordati
strettamente con preside e vicepreside invece che con i colleghi, generando
finalmente ed inevitabilmente astio e malumore, senza dire che la loro attività
avrebbe potuto essere pagata con poche ore di fondo incentivante. Si è
puntualmente verificato quanto denunciato nelle assemblee Cobas: la nascita di
nuove figure gerarchiche, il che rispecchia quanto detto da G. La Grassa
quando afferma che la Direzione: “…Non potrebbe mai essere esercitata se non
attraverso la costruzione di una gerarchia di ruoli e funzioni che … accresce
tendenzialmente la divaricazione tra essa ed il lavoro esecutivo”. Se poi
pensiamo al capo d’istituto, meglio detto preside[3]-manager-dirigente,
addirittura datore di lavoro (padrone insomma, il lavoro lo dà il lavoratore in
realtà), che ha fatto di tutto per convocare il meno possibile il collegio dei
docenti, preferendo discutere il da farsi con pochi eletti, sensibile
all’immagine piuttosto che alla crescita educativa dei ragazzi, pagato
profumatamente per il poco che ha fatto di didatticamente utile, se
consideriamo questa degna figura, dicevo, aggiungiamo un tassello decisivo al
quadro d’insieme. Ma non è finita, anche il nostro vice preside merita una nota
adeguata: pensate ha saputo assommare su di sé, senza alcun scrupolo di
incompatibilità, la carica di vice capo, quella di sindacalista Cisl di zona e
di rappresentante dei genitori nel consiglio d’istituto, “concertando” insomma
anche con il suo doppio. Il consiglio d’istituto, infine ha assunto decisioni
di competenza del collegio, non a caso è stato convocato più spesso di
quest’ultimo e tra i suoi membri annovera anche una funzione-obiettivo. Alcune
situazioni descritte sono probabilmente comuni ad altri istituti, come comune è
la “struttura” gerarchica del personale Ata che voglio qui ricordare: il
segretario, oggi dirigente amministrativo è il “capo” sia dei membri della
segreteria che dei collaboratori (ex bidelli), con congruo aumento di stipendio.
A conti fatti, se vogliamo schematizzare, siamo in presenza di pochi che
decidono (o almeno la tentano) e dei molti che dovrebbero eseguire, fatte le
dovute riserve per la didattica dato la libertà d’insegnamento prevista dalla
Costituzione (ma per quanto?). Il tutto condito con conflittualità più o meno
diffusa e manifesta, altro che tendenza alla collaborazione e alla formazione
del “lavoratore collettivo” di marxiana memoria![4].
Una gerarchizzazione dunque, che prevede figure intermedie a mezzo tra comando
ed obbedienza (le funzioni-obiettivo per esempio, ma la fantasia dei sindacati
di regime saprà inventare anche altro) e che viene riconosciuta e garantita
capitalisticamente con il denaro. Non sarà facile opporsi a queste tendenze,
veramente l’ideologia dominante è quella della classe dominante (ho riscontrato
notevole passività tra i colleghi e mi sono ritrovato da solo a condurre certe
battaglie) e tuttavia alcuni obiettivi di lotta “aziendale” è giusto e
possibile porseli. Certo esistono quelli più generali di tutta la categoria,
quali: respingere il salario meritocratico rivendicando aumenti decenti per
tutti i lavoratori della scuola; opporsi alla riforma che taglia un anno di
scuola e parifica istruzione scolastica, formazione professionale ed apprendistato
in azienda (è il nuovo che avanza: il vecchio avviamento professionale!); la
riduzione del numero degli alunni per classe; il superamento del precariato;
cospicui investimenti nella scuola pubblica e zero per la privata… Però data la
trasformazione delle scuole in istituti autonomi, all’interno di ogni unità
scolastica va attuata la “resistenza”, per esempio:
-
bocciare
sul nascere le funzioni-obiettivo o almeno, in alternativa battersi per la
rotazione in modo da impedirne il consolidamento gerarchico e vincolarne
l’attività a chiari piani di lavoro e al raccordo con i colleghi;
-
impedire
che il collegio venga esautorato di fatto dal potere deliberante;
-
denunciare
anche legalmente abusi di potere da parte del preside, dei suoi accoliti e del
consiglio d’istituto;
-
boicottare
il POF e/o trasformarlo in semplice occasione di discussione, confronto,
progettazione collettiva;
-
studiare
modalità efficaci per a) far crescere una coscienza antagonista nei confronti
della scuola-azienda e dei suoi agenti; b) elaborare sintesi operative e d’idee
tra le diverse mentalità dei lavoratori vista la separazione di prassi, di
programmi e la quasi concorrenza che si vuol promuovere tra loro; aspetti
questi che favoriscono la divisione e il conflitto sotterraneo.
Proprio sulla divisione giocano i
dirigenti di ogni ordine, grado e settore; “Divide et impera” era il motto
degli imperialisti romani ed è anche il motto di lor signori. Credo sia inutile
la traduzione.
Da ultimo una breve considerazione per
riallacciarmi, sia pure di passaggio, ad una questione centrale più volte
discussa tra i compagni e nella rivista: quella del Blocco Sociale
Antagonista e della classe o classi nemiche contro cui lottare per il
rovesciamento del modo di produzione capitalistico. Ecco proprio il nemico,
secondo me, andrebbe con più chiarezza individuato.
In questo, che io chiamerei Blocco
Sociale Capitalistico, intanto, io collocherei, per le ragioni su esposte,
presidi e i loro staffs.
[1] Tralascio la questione, perché qui non decisiva, se sia l’impresa e non l’azienda-fabbrica, la cellula dove si svolge la dinamica riproduttiva del modo di produzione capitalistico come sostiene La Grassa. Lo stesso autore suggerisce di usare l’espressione “Unità di trasformazione di dati input in output” superando la distinzione tra produzione materiale e quella immateriale.
[2] “Non è affatto la proprietà dei mezzi di produzione il fondamento del dominio di una classe bensì il possesso delle potenze mentali della produzione subordinate alla Direzione” (“Lezioni sul Capitalismo” G. La Grassa)
[3] “Il direttore è a tutti gli effetti un capitalista, indipendentemente che abbia o meno la proprietà dei mezzi di produzione” (da “Dal Capitalismo al Capitalismo” G. La Grassa)
[4] Marx prevedeva l’autonomizzazione della proprietà dei mezzi di produzione dal processo produttivo con la nascita del lavoratore collettivo dal: “Direttore/dirigente all’ultimo manovale” come lui stesso si esprimeva.