niversità: quale
autonomia?
Massimo Grandi
«...Une sorte de visquese doctrine qui,
insensiblement, enveloppe tout raisonnement rebelle, l'inhibe, le trouble, le
paralyse et finit par l'étouffer. Cette doctrine, c'est la pensée unique, la
seule autorisée par une invisible et omniprésente police de l'opinion. Depuis
la chute du mur de Berlin, l'effondrement des régimes communistes et la
demoralisation du socialisme, l'arrogance, la morgue et l'insolence de ce
nouvel Evangile ont atteint un tel degré qu'on peut, sans exagérer, qualifier
cette fureur idèologique de moderne dogmatisme. Qu'est-ce que la pensée unique?
La traduction en termes idéologique à prétention universelle des intérets d'un
ensemble de forces économiques, celles,
en particulier, du capital international »(1)
Questa vischiosa dottrina sembra oramai insinuarsi e pervadere
anche quel territorio "franco" della cultura che è stato, nel bene e
nel male, l'università italiana.
E' vero, la scienza e la tecnica e quindi il sapere non sono mai
state e non saranno mai "neutrali", lo stesso trasmettere o acquisire
conoscenza è momento di produzione e riproduzione di consenso e assenso
all'universo dei valori della cultura dominante, ma è altresì vero che
l'università è stata dalle sue origini fino a ieri anche luogo privilegiato, soprattutto nella sua componente
studentesca, del pensiero critico, delle radicalità culturali, del libero
esercizio delle utopie e delle avventure oltre i limiti stessi delle coercizioni
"ideologiche".
Tutto questo oltre la sua dimensione di produzione di forza lavoro
intellettuale, oltre la sua funzione formativa e informativa, come momento ed
anche come opzione potenziale straordinaria di "emancipazione"
sociale del sapere generale.
Forse l'università italiana non è stata mai profondamente di
massa, i limiti e gli steccati posti dalle condizioni materiali di esistenza
non ne hanno mai veramente fatto un libero approdo per tutti, come reciterebbe
il nostro dettato costituzionale, "Non possiamo dimenticare che nel
nostro paese la composizione sociale dei laureati è tutt'ora fortemente
squilibrata e gravemente discriminatoria nei confronti dei giovani delle
famiglie più povere "(2), ma la sua presenza, il suo essere a suo modo
attore e contemporaneamente agente critico attivo della società, ne hanno fatto
patrimonio sociale, luogo riconosciuto, componente strutturale della
complessità del vivere quotidiano, della politica urbana e metropolitana,
"L'Università è il luogo privilegiato per la crescita della nostra
società e della nostra cultura" come affermava qualche anno fa il
"compagno" Luigi Berlinguer(3).
In questa accezione la sua stessa "riluttanza" congenita
alle misurazioni delle efficienze dei funzionamenti, la sua resistenza a darsi
"ordine" e "raziocinio", il suo vivere e convivere con
enormi difficoltà funzionali un pò fuori dalle regole che amministrano altri
servizi pubblici, ne disegnavano proprio il suo carattere autonomo,
"esterno" alle pressioni e alle pervasioni del sistema delle norme.
Non che essa sia stata esente da deformazioni e usi impropri di
questa sua libertà e nemmeno si deve ignorare che molti aspetti
"disfunzionali" derivino da decenni di interventi insufficienti o
sbagliati di politica universitaria "siamo, in percentuale rispetto al
PIL, a metà della Francia, ad un terzo dell'Inghilterra e a un quinto della
Germania"(4), di progressive appropriazioni di spazi di potere da
parte di un'accademia baronale di
stampo feudale, autoritaria, gerarchica e reazionaria, refrattaria alle sue
stesse diverse collocazioni politiche interne, anzi, paradossalmente proprio
queste sue realtà negative e contraddittorie divengono oggi gli strumenti ed i
terreni della sua destrutturazione, della sua mutazione genetica, della sua
omologazione e normalizzazione.
Il pragmatismo dispotico insito nella natura del neoliberismo,
dell'utopia realizzata del capitale che si fa totalità del pensiero e unica
prospettiva universale, entra lentamente nell'università, ne distrugge ogni
reale autonomia, ne annulla ogni diversità, ne fa oggetto comprensibile e
leggibile ai suoi codici elementari di dominio e quindi direttamente
controllabile.
Questa probabilmente è la vera "aziendalizzazione"
dell'università, non quella paventata dalla Pantera degli anni '80, quella del
capitale privato che entrava nella struttura pubblica per "comprare"
o piegare il processo formativo a suo uso e consumo.
In alcuni casi è successo anche questo, ma non in modi e misure
tali da poter essere generalizzato come fenomeno, come tendenza strutturale.
La vera aziendalizzazione si chiama: numero chiuso, progressivo
superamento del valore legale del titolo di studio, cooptazione clientelare
della docenza, svuotamento della natura del CUN e centralizzazione del governo
dell'autonomia nelle mani del ministro, crediti e debiti didattici, riduzione
progressiva dei fondi pubblici per la ricerca di base.
Le stesse categorie di "efficienza"e
"produttività" sono stravolte e piegate dalla loro naturale
collocazione di caratteri elementari di un servizio pubblico, quindi legato ad
una domanda sociale, per essere sussunte all'ideologia del "mercato".
Un esempio eclatante in questo senso è rappresentato
dall'introduzione del numero chiuso (pardon “programmato") in molti corsi
di laurea italiani.
L'assioma è semplice: in Italia ci sono troppi studenti e pochi
laureati, dunque molti studenti si iscrivono inutilmente (teoria del
mega-parcheggio) e complessivamente la struttura non è in grado di supportare
la domanda, risultato si restringono gli ingressi.
In altre parole se io su mille iscritti riesco a laurearne
trecento ho un tasso di efficienza pari al 30%, se io invece ne iscrivo
trecento e ne laureo magari anche tutti e trecento ( ma questo non è affatto
dimostrabile), avrò lo stesso numero di laureati in assoluto, ma avrò un tasso
di efficienza e quindi di produttività del 100%, meno spese ed anche una classe
studentesca sostanzialmente preselezionata.
Non esiste un'opzione alternativa, non è neppure ipotizzata la
possibilità (ma diremmo necessità) di adeguare la struttura alla domanda, si fa
esattamente il contrario, si ridimensiona la domanda (artificiosamente) per
adeguarla alla offerta (immodificabile ed anzi progressivamente in riduzione),
ma quello che è paradossale è che tutto questo lo si afferma in nome della
democrazia e di un diritto allo studio finalmente realizzato.
Questa "aziendalizzazione" dell'istruzione superiore,
dove a sistema di regolazione del rapporto tra domanda e offerta non sta più il
concetto di sviluppo sociale, ma quello del libero mercato, diviene anche
sistema interpretativo del rapporto tra privato e pubblico.
Superficialmente tutto questo può apparire il massimo di libertà
ed autonomia universitaria, in realtà esso nasconde già potenzialmente la possibilità che venga
abolito il valore legale del titolo di studio, aprendo così la strada non solo
ad una gerarchizzazione qualitativa dei singoli corsi di laurea, ma anche alla
nascita e proliferazione di università private.
Questo potrebbe agevolare un ulteriore ridimensionamento
dell'intervento pubblico nell'istruzione superiore e contemporaneamente
permettere il consolidamento del potere di governo universitario in un gruppo
accademico stabile e di ruolo ancora più ristretto, riversando la copertura dei
compiti didattici al sistema di mercato, tramite l'istituto del contratto a
tempo con personale docente non strutturato.
La stessa proposta di riforma degli stati giuridici e dei
trattamenti economici della docenza marcia in questa direzione.
"C'è una crescente e diffusa domanda sociale che pone il
tema della chiarezza e dell'apertura del mondo scientifico alle regole e ai
problemi del paese, una domanda che merita una risposta, e non si accontenta
più di una generica giustificazione di ordine culturale, non suffragata da
credibili risultati"(5).Suonando così le corde sensibili di una
società costretta al giogo di una inarrestabile crescita della disoccupazione
strutturale, messa di fronte alle nuove regole della precarizzazione generale
dell'occupazione, pervasa da questo incombente ed inesauribile problema dei
conti pubblici e dei tagli alla spesa sociale, ma anche rigenerando in qualche
modo l'immaginario collettivo di una università fatta di inutili privilegi e
"accademici" esercizi culturali, si è tentato di fatto di
privatizzare il rapporto di lavoro, legandolo alle leggi vigenti di mercato,
agli incentivi, agli straordinari, all'
"outsourcing".
Arriviamo così all'ultimo aspetto di questa
"privatizzazione" strisciante: la cooptazione clientelare del
personale docente ovvero la "questione dei concorsi".
Di riforma di questi concorsi si parla da anni, molte proposte si
sono succedute, ma alla resa dei conti il potere consolidato della lobby
accademica ha sempre imposto la salvaguardia della sostanza dei meccanismi in
questione.
Sotto lo stendardo della "O i concorsi o l'ope legis" ci
si è sempre preoccupati di nascondere qualsiasi soluzione esistente fra questi
due termini estremi.
Il motivo di fondo di questa "resistenza" sta nel fatto
che i meccanismi concorsuali, la cooptazione attuale, sono il momento più alto
e più forte di produzione e riproduzione del potere baronale.
Il potere risiede proprio nella discrezionalità della scelta, nel
rapporto tra offerta qualificata e numero dei posti, nella sua capacità
intrinseca di farsi moltiplicatore di meccanismi di soggezione e di dipendenza.
La soluzione di un problema che potrebbe apparire solo una
questione tutta interna alla categoria dei docenti, diviene invece problema di
una battaglia politica contro un processo di restaurazione antidemocratica e
privatistica dell'Università.
Come abbiamo visto quell'insieme "confuso" di
provvedimenti legislativi approvati o in via di approvazione (come lo stato
giuridico della docenza universitaria) e che riguardano complessivamente
l'intero sistema e tutte le componenti universitarie, ha in realtà una sua
forma organica, un suo percorso logico, e questo percorso va ben oltre i limiti
di processi interni di trasformazione e va ben oltre le stesse categorie di una
controriforma.
No, non è un ritorno reazionario al passato.
E' semmai lo scenario della nuova e futura università, schiacciata
e omologata alle leggi di questa nuova "natura" che può esistere solo
se universalmente pervasa, il MERCATO.
Forse mai come in questo momento si fa tangibile quell'essere merce del sapere e della
cultura, e mai come in questo momento si avverte sulla pelle che anche
l'università è alla sua "ultima spiaggia".
Note:
1 - I.Ramonet, La pensée unique, Le Monde
diplomatique, gennaio 1995
2 - L.Berlinguer, Per trasformare la società e costruire un futuro
migliore, in Università-Progetto, ottobre 1996
3 - ibidem
4 - ibidem
5 - ibidem