Convegno nazionale sullo Stato

Firenze 20-21 maggio 2000

L’ORGANIZZAZIONE AUTORITARIA DELLA SECONDA REPUBBLICA

Relazione di Leonardo Mazzei

Da molti anni, ormai, si discute di democrazia autoritaria e di riduzione degli spazi della stessa democrazia formale.

Il pesante mutamento dei rapporti di forza tra le classi, intervenuto dalla seconda metà degli anni ’70, ha portato ad un arretramento progressivo anche sul terreno democratico, lasciando sul campo molte delle conquiste frutto delle lotte della fase precedente.

Le trasformazioni in atto – quelle già realizzate e quelle in corso di realizzazione – disegnano tuttavia uno scenario che va ben oltre il fisiologico movimento pendolare che caratterizza le diverse fasi dello scontro di classe.

Il passaggio alla Seconda Repubblica costituisce infatti un vero e proprio salto qualitativo, sulla strada della costruzione di un regime autoritario di tipo relativamente nuovo, almeno per l’Italia.

Naturalmente per i comunisti è sempre stato chiara (o almeno avrebbe dovuto esserla) la natura di classe della democrazia capitalistica e delle sue istituzioni, ma se ci limitassimo a questa, pur necessaria, consapevolezza finiremmo per non cogliere appieno il significato delle trasformazioni in atto.

Trasformazioni che, partendo dal mondo della produzione, si sono irraggiate negli ultimi due decenni all’insieme della società, modificandola in ogni aspetto. E’ a partire da questo processo gigantesco che la classe dominante ha ristrutturato – potenziandoli – gli strumenti del proprio dominio e della propria egemonia.

Affrontare il tema dell’organizzazione autoritaria della Seconda Repubblica significa perciò entrare nello specifico della concreta strutturazione dei poteri e delle istituzioni attuali.

Questa analisi appare tanto più necessaria in considerazione di due aspetti: 1) la tendenza autoritaria è una caratteristica generale del capitalismo contemporaneo e non è dunque un fatto solo italiano. 2) Il quadro autoritario che va sempre più conformandosi determina le condizioni concrete nelle quali i comunisti sono chiamati ad agire per un periodo presumibilmente non breve.

UNO SGUARDO ALL’ATTUALITA’

Due questioni di grande attualità ci consentono un primo approccio al problema.

Domani si svolgeranno i referendum promossi dai radicali, che ci auguriamo vengano sconfitti dall’astensionismo di massa per il quale abbiamo lavorato.

Ma, indipendentemente dall’esito del voto, questi referendum hanno il pregio di evidenziare in maniera pressoché perfetta il profondo legame che esiste tra l’ulteriore attacco alla democrazia, rappresentato dal referendum per l’ultramaggioritario, e quello ai diritti dei lavoratori attraverso la richiesta della piena libertà di licenziamento.

Questi referendum vanno ben oltre chi li ha promossi e il loro significato va ben al di là del loro successo in termini di voti.

La loro natura di classe rende maggiormente percettibile anche a livello di massa il reale significato del continuo attacco a quel poco che resta del sistema proporzionale.

Il binomio costituito dall’attacco al lavoro salariato e da quello alla democrazia rappresenta il vero leit-motiv della politica italiana dell’ultimo decennio. Una politica promossa e condivisa nella sostanza dai due poli in cui è venuto strutturandosi il sistema.

Una politica portata avanti, senza soluzione di continuità, dai governi "tecnici", da quelli di centrosinistra e nella breve parentesi berlusconiana.

I diversi interessi interni ai 2 poli potranno forse far fallire l’obiettivo referendario – e non sarebbe poco! – senza però incrinare più di tanto la direzione di marcia complessiva.

La seconda questione di attualità riguarda quella che in tanti hanno definito come la vittoria postuma di Bettino Craxi. Molti di coloro che hanno usato questa formula lo hanno fatto per denunciare una presunta resurrezione socialista post-tangentopoli emblematizzata dai volti di Amato, Intini e Del Turco di nuovo al governo del Paese.

In realtà, questi volti non sono solo riapparsi, ma con Amato hanno addirittura assunto la guida del governo. Sarebbe però assai limitativo vedere in questa ricomparsa semplicemente il segno della chiusura di tangentopoli.

Questo aspetto c’è ed è giusto sottolinearlo; del resto solo gli ingenui amanti di un impossibile ruolo autonomo della magistratura potevano pensare che quella fase – necessaria alla destrutturazione della Prima Repubblica – non venisse chiusa una volta raggiunti gli obiettivi per i quali era stata avviata.

Oggi, all’interno della costruzione del "Paese normale", il giustizialismo, che ha funzionato finché serviva come strumento di delegittimazione della politica di fronte agli imperativi del mercato, viene logicamente accantonato proprio da chi lo aveva utilizzato in precedenza.

Ma l’aspetto più importante è un altro: se rivincita di Craxi c’è stata, questa non consiste nella riabilitazione del Craxi capo di un’organizzazione gangsteristica dedita alle estorsioni, quanto piuttosto nel "giusto" riconoscimento del Craxi uomo di sfondamento sul terreno della controriforma istituzionale.

E’ un dato che il tema tipicamente craxiano della "governabilità" è oggi l’unico metro abilitato alla misura della bontà delle forze, dei programmi, degli uomini politici.

Se la governabilità capitalistica è divenuta l’unico metro di ogni politica, appare naturale che a presiedere l’attuale governo – per altri versi assai debole – sia stato chiamato proprio quel delfino di Craxi che già nel 1992, quando la parabola discendente del suo capo era ormai iniziata, cominciò l’azione controriformatrice, tanto sul terreno sociale che su quello istituzionale, accelerando con forza il percorso verso la Seconda Repubblica.

DA DOVE VIENE IL SALTO AUTORITARIO

Dopo questi brevi accenni all’attualità politica è necessario passare ad esaminare le ragioni di fondo del salto autoritario che si sta realizzando.

Craxi, Amato, per non parlare del duo Pannella-Bonino, sono stati e sono soltanto dei veicoli di un processo ben più profondo che deriva da precise ragioni strutturali.

Queste ragioni vanno in parte ricercate nel campo delle necessità del sistema e in parte nel campo delle possibilità che si sono aperte per la classe dominante con la sconfitta del comunismo novecentesco ed il generale arretramento delle forze che fanno riferimento al movimento operaio.

Vi sono delle fasi in cui il costo della democrazia formale viene giudicato troppo alto per il sistema. Non è un caso che si sia a lungo parlato dei "costi della politica", includendo in questa categoria generica i costi politici (ad esempio quelli della rappresentatività istituzionale, per quanto distorta, del movimento operaio), ma anche quelli direttamente economici dovuti al finanziamento – tangentizio e non – del sistema politico.

L’esigenza di ridurre questi costi è divenuta più stringente nel momento in cui l’Italia è andata sempre più configurandosi come realtà imperialista (in parte autonoma, in parte inserita nel Polo Europeo) con precisi interessi in diversi settori ed aree geografiche.

Da un lato l’accresciuta competitività intercapitalistica ha imposto una ristrutturazione istituzionale più conforme alle esigenze del capitale. Dall’altro il bisogno di stabilità, conseguente alle ambizioni imperialiste e all’ingresso nell’unione monetaria europea, ha spinto verso la creazione del modello istituzionale più funzionale all’obiettivo della governabilità.

E’ da questa esigenza che è nato il bipolarismo basato sull’alternanza di due schieramenti sostanzialmente intercambiabili. Non è un caso del resto che questo sia il modello adottato (sia pure con forme variabili) da tutti i paesi imperialisti.

Questo modello, che in Italia presenta ancora diverse imperfezioni ma che nella sostanza dobbiamo già considerare operante, offre non solo governabilità, ma anche emarginazione preventiva di ogni possibile opposizione antagonista.

Il capitale si è dunque mosso sulla base di esigenze profonde, in un’epoca nella quale ha ben poco da proporre in termini di progresso al grosso dell’umanità. La spinta autoritaria ha insomma una ragione immediata ed una di prospettiva di carattere preventivo.

L’attuale letargia dei soggetti sociali potenzialmente antagonisti non tranquillizza più di tanto le classi dominanti, ben consapevoli delle contraddizioni che si vanno accumulando.

I risultati raggiunti nell’organizzazione autoritaria della società e delle istituzioni non sarebbero stati neppure pensabili senza lo smottamento della sinistra.

Entriamo qui nel campo delle possibilità che si sono aperte per il capitale a partire dagli anni ’80, ed in particolare dal biennio 89/91.

Il quadro internazionale seguito alla fine della "guerra fredda"; la sconfitta delle forze comuniste che, pur nelle loro differenze, sono state in larga misura sbaragliate o trasformate in appendici di "sinistra" di un sistema politico omologante; la ricollocazione della "sinistra" in un ruolo di mera gestione del patto neocorporativo; la frana sul piano teorico e culturale. Sono questi gli elementi che hanno consentito un’offensiva a tutto campo con gli esiti che stiamo discutendo.

L’incontro temporale delle esigenze del sistema, già da molti anni teorizzate da cupole internazionali come la Trilateral o da soggetti nostrani come Licio Gelli, con le possibilità dischiusesi con la fine del "secolo breve" hanno portato alla rottura del compromesso sociale e istituzionale che aveva contraddistinto il dopoguerra nel nostro Paese.

Un compromesso imposto dai rapporti di forza interni ed internazionali, che certo non impediva il dominio di classe né mutava la natura delle istituzioni, ma che tuttavia è stato fatto saltare dal capitale non appena se ne sono determinate le condizioni politiche.

Gli aspetti del quadro autoritario che ne sta venendo fuori sono molteplici. L’organizzazione autoritaria della Seconda Repubblica non consiste soltanto nelle nuove istituzioni nate dalla controriforma progressiva attuata nell’ultimo decennio. Oltre allle istituzioni è necessario esaminare il ruolo dei partiti e dei sindacati, le trasformazioni avvenute nel mondo del lavoro, le forme attuali della gestione del consenso, la modernizzazione degli apparati repressivi.

E’ dall’insieme di questi tasselli che prende forma il mosaico dell’attuale autoritarismo.

LE ISTITUZIONI DELLA SECONDA REPUBBLICA

L’Italia non ha ancora una nuova costituzione, ma l’incessante lavorio controriformatore ha già dato risultati così pesanti che oggi nessuno contesta il fatto che ci troviamo già nella Seconda Repubblica.

Se dovessimo scegliere una data per indicare il momento del trapasso, potremo forse indicare il 18 aprile 1993 quando la legge elettorale maggioritaria venne scelta plebiscitariamente dall’83% degli elettori.

E’ tuttavia più giusto parlare di un processo (tra l’altro non ancora concluso) piuttosto che di una singola data per quanto importante.

La trasformazione delle istituzioni ha infatti vissuto diversi capitoli, tutti rivolti alla riduzione della rappresentatività ed all’accentramento dei poteri negli esecutivi.

Lo svuotamento del ruolo delle assemblee elettive è ormai un fatto di vecchia data. Le modifiche ai regolamenti parlamentari per rendere impraticabile ogni forma incisiva di ostruzionismo hanno di fatto dato il via ad un passaggio progressivo di poteri dal legislativo all’esecutivo.

Un fenomeno analogo si è registrato nelle istituzioni locali, dai consigli regionali a quelli comunali. L’elezione diretta del sindaco e del presidente della Provincia, varata nel 1993, seguita da quella (formalizzata solo nel ’99, ma di fatto già operante dal ’95) del presidente della Regione, ha contribuito non poco al processo di accentramento dei poteri.

I sindaci/podestà hanno dato non a caso un forte contributo – basti pensare a quelli che hanno partecipato alla costruzione dell’"Asinello"- verso un sistema ancor più maggioritario e presidenzialista, tant’è che i sostenitori del presidenzialismo parlano, un po’ comicamente, ancora oggi della necessità del "Sindaco d’Italia".

Mentre nei comuni e nelle provincie si insediavano queste nuove figure di politici al di là, al di sopra (e, naturalmente, al di sotto) dei partiti; il governo centrale diveniva sempre più spesso terra di conquista dei cosiddetti "tecnici".

E’ stata questa un’altra figura centrale per affermare il ruolo "neutrale" della funzione politica, ormai chiamata soltanto a "ben gestire" la "cosa pubblica", cioè in sostanza a tutelare gli interessi immediati e futuri – economici e non – delle classi dominanti.

Ma il passaggio più importante, che non a caso oggi molti vorrebbero completare, è stato indubbiamente quello dell’introduzione del sistema maggioritario.

Era questa la chiave di volta per scombinare i partiti preesistenti, facendone emergere di nuovi, ma soprattutto per accelerare un processo di americanizzazione della politica in grado di cancellare ogni possibile forma di rappresentatività dei lavoratori nelle assemblee elettive.

Il maggioritario, benché non ancora completato, ha funzionato egregiamente a questo scopo.

Due poli, per quanto confusi si voglia, si sono effettivamente costituiti. La loro politica tende all’omogeneità quantomeno sulle scelte di fondo. Sulla politica estera, su quella economica e su quella istituzionale sarebbe impossibile indicare delle differenze sostanziali.

Casomai i poli, non fosse altro che per la complessità della recente storia politica italiana, tendono ad articolarsi notevolmente al proprio interno, ma senza mai uscire dai confini di un pensiero unico ormai effettivamente affermatosi.

Qualcuno potrebbe essere tratto in inganno dalla rissosità verbale che contraddistingue l’attuale teatrino della politica, ma di un teatrino appunto si tratta. Un pò come negli USA, ci si attacca personalmente per proporre poi ricette simili e comunque intercambiabili; due facce di una stessa medaglia, quella dell’intangibilità del dominio di classe.

Il maggioritario ha svuotato di senso la stessa scelta elettorale, determinando non a caso una crescita impressionante dell’astensionismo. Con il maggioritario i meccanismi manipolatori del consenso si sono enormemente affinati, mentre il trasformismo – sempre beninteso nei sacri recinti delle compatibilità e del pensiero unico – è divenuto una componente essenziale della vita politica nazionale.

E’ evidente a tutti il peso dell’espropiazione avvenuta.

Come la stessa attualità politica si incarica di ricordarci, il lavoro sporco della controriforma istituzionale non è ancora completato.

Le battute di arresto della Bicamerale e del mancato raggiungimento del quorum nel referendum del ’99 hanno rinviato per qualche tempo il completamento dell’opera.

Non è detto che il presidenzialismo si affermi nelle forme classiche, essendo comunque utilizzabile l’alternativa dell’elezione diretta del premier. E’ chiaro comunque che questo tassello, necessario per costituire un potere stabile ed accentrato a garanzia della governabilità capitalistica, tornerà ben presto all’ordine del giorno.

Ben difficilmente potrebbe essere altrimenti in un Paese dove vige l’elezione diretta a tutti i livelli fuorché in quello centrale.

La spinta verso l’ultramaggioritario attende la verifica del referendum di domani ed è perciò prematuro fare previsioni sulle eventuali prossime mosse. Quel che è certo è che il maggioritario già oggi ha determinato l’affermazione del bipolarismo che – per quanto imperfetto – disegna la mappa del sistema politico anche laddove, come nelle regioni, è rimasto un 80% di quota proporzionale.

I PARTITI DELLA SECONDA REPUBBLICA

A istituzioni monoclassiste, corrispondono soggetti politici variegati ma altrettanto monoclassisti.

Ovviamente non nel senso della base sociale, anche se ormai prevalgono le aggregazioni parapartitiche svincolate da ogni base sociale, proprio perché portatrici di concezioni organiche al pensiero unico del mercato e dell’impresa.

Negli orientamenti e nelle scelte politiche il monoclassismo è comunque totale, lasciando spazio solo a qualche venatura "buonista" e caritatevole che è poi la faccia più infida e odiosa dell’attuale regime.

Per arrivare a questa meta era necessaria la departitizzazione della politica. Lo scioglimento del Pci ha fatto da battistrada in questo processo che si è avvalso della magistratura come carta vincente per completare l’opera.

Ridurre i costi della politica, funzionalizzarla alle esigenze della nuova fase di competizione, richiedeva nuovo personale e nuovi aggregati politici.

Sarebbe stato però troppo pericoloso cancellare d’un tratto l’intera classe politica della Prima Repubblica. Si è così preferito accompagnare l’opera distruttrice con quella di riciclaggio del personale politico ritenuto più utile, nel mentre si provvedeva all’utilizzo dei famosi "tecnici".

Si è così salvata una parte della Dc ed una del Psi (come oggi risulta evidente!), mentre la sinistra "postcomunista" si accingeva ad assurgere al ruolo di gestore ideale del patto neocorporativo, l’unica forma di controllo sociale in grado di perseguire l’imperativo del risanamento economico e dell’ingresso nella moneta unica europea.

L’attuale convulsione politica, al di là dei recenti dati elettorali, deriva dall’incompiutezza del processo avviato. I partiti tradizionali non esistono più, ma le forme che ne hanno preso il posto non sono ancora stabilizzate.

Se questa è la fotografia della situazione attuale è però difficile pensare ad un mutamento della tendenza di fondo, quella verso la creazione di nuovi aggregati esclusivamente rivolti alla governabilità ed incapaci di costituire un potere tale da impensierire i loro committenti economici.

Nell’analisi della crisi dei partiti tradizionali bisognerebbe ovviamente trattare in maniera separata ogni formazione politica. Tuttavia, senza per questo dover fare di ogni erba un fascio, i tratti comuni di questa crisi risultano decisamente prevalenti rispetto alla peculiarità delle singole forze coinvolte.

I partiti tradizionali di "massa" (in sostanza Pci/Pds, Dc e Psi) avevano storie, culture, gruppi dirigenti e basi sociali estremamente diverse, ma il processo di omologazione degli anni 80/90 li aveva resi assai più simili di quanto non sembrasse.

In ogni caso, fatte salve le differenze che è possibile dare per scontate in un dibattito come questo, restano i punti in comune emersi nel momento del disfacimento e che possiamo sintetizzare in: trasformismo di un ceto politico sempre più professionale e specializzato nella manipolazione del consenso e scomparsa (nel senso letterale) delle vecchie basi di militanza.

E’ palese che in questo processo c’è chi ha retto (il Pds) e chi si è ridotto al lumicino, ma il fenomeno della cancellazione dalla politica di almeno 2 milioni di iscritti ha riguardato tutti questi partiti seppure in misura diversa.

Certo, una cosa era il vecchio militante del Pci, altra cosa il galoppino democristiano in cerca di favori clientelari. Resta il fatto che entrambe queste figure, tipiche dell’epoca precedente, non esistono più e i soggetti che le incarnavano o sono scomparsi politicamente o per sopravvivere si sono riciclati nel nuovo corso della politica italiana.

Nella trasformazione dei partiti, come in quella delle istituzioni, decisiva è stata l’introduzione del maggioritario con la conseguente costruzione del sistema bipolare.

Come abbiamo scritto nel documento "Una proposta ai comunisti", che discuteremo domani, "il bipolarismo è ormai operante a tutti gli effetti e con il bipolarismo la politica intesa come scelta tra opzioni diverse tende a spegnersi nel buio omologante della governabilità capitalistica, una governabilità che lascia al teatrino massmediologico il compito di selezionare gli attori di volta in volta più convenienti, ma che non ammette deroghe ai propri imperativi di fondo".

Se questo è il bipolarismo, se questo è il sistema di selezione della classe politica, appare scontato il superamento delle forme partitiche tradizionali, anch’esse – beninteso – interne alla logica della governabilità, però non adatte al salto autoritario messo in piedi con la Seconda Repubblica.

I SINDACATI DI REGIME

Un aspetto interessante, apparentemente bizzarro, in realtà spiegabilissimo, della costruzione del regime autoritario della Seconda Repubblica è la tenuta e per certi aspetti il rafforzamento di Cgil-Cisl-Uil.

Qualche ingenuo degli inizi anni ’90, udite le lacrime dei pennivendoli intenti a descrivere gli orrori dello "statalismo", avrebbe potuto pensare ad uno schema inverso a quello che poi si è concretamente realizzato. Apparentemente dopo il 1989 lo schema più semplice per la materializzazione del disegno controriformatore poteva sembrare questo: rafforzamento delle forze di governo (il pentapartito) anche grazie alla crisi del Pci
post-muro di Berlino; attacco frontale alle organizzazioni sindacali per ottenere in tempi rapidi la restituzione delle conquiste di decenni di lotte.

Al contrario, quest’ultimo obiettivo è stato raggiunto proprio invertendo questo schema: ristrutturazione in profondità del sistema politico, stabilizzazione organica delle relazioni sindacali.

Alla crisi dei partiti di massa ha corrisposto solo in parte la crisi dei sindacati di massa.

Fra l’altro la stessa ondata di tangentopoli ha solo sfiorato un mondo sindacale che in quanto a corruzione non aveva poi troppo da invidiare a quello politico.

Lo schema realizzato rispondeva ad un ragionamento estremamente logico: nel momento del più pesante attacco alle condizioni e ai diritti dei lavoratori del dopoguerra tutto era possibile permettersi fuorché la ripresa di una qualche forma di conflitto.

La pace sociale, innanzitutto! E’ stato questo lo slogan dei governi che si sono succeduti da Amato ’92 ad Amato 2000, con l’unica eccezione del Berlusconi ’94, un’eccezione non a caso di breve durata.

La pace sociale, innanzitutto! E’ questa l’esigenza fondamentale che viene affermata con il patto del 23 luglio 1993, proprio nello stesso periodo in cui il parlamento stava discutendo la nuova legge elettorale maggioritaria.

Quell’accordo, benedetto dall’allora Presidente del consiglio Ciampi (tanto per ribadire la centralità dei "tecnici" specie se banchieri), è stato il pilastro fondamentale, tradotto poi in centinaia di altri accordi piccoli e grandi, del sistema della concertazione.

Un sistema forse oggi in via di superamento proprio per iniziativa padronale, ma che costituisce ancora un tassello imprescindibile del quadro autoritario che abbiamo di fronte.

L’adesione ideologica e materiale all’"Azienda Italia", con il sostegno più spudorato a tutte le iniziative di matrice imperialista, fino al completo appoggio alla guerra di aggressione alla Jugoslavia, indica con chiarezza il ruolo assunto ormai da molti anni da Cgil-Cisl-Uil.

Mentre il maggioritario toglieva ai lavoratori il diritto al voto (inteso come diritto ad una pur limitata rappresentanza), la concertazione toglieva il diritto alla lotta.

Tenuti presenti questi elementi non ci vuole molto a capire l’attuale stato di letargia della classe operaia. Naturalmente questa passivizzazione deriva anche da altri elementi conseguenti alle trasformazioni strutturali del mondo del lavoro (in primo luogo il crescente processo di precarizzazione e flessibilizzazione), ma sarebbe assurdo pensare di prescindere dall’attuale cappa oppressiva costituita da questa doppia espropriazione.

Certo, a tutto è possibile ribellarsi, e anche a questo servono i comunisti, ma la concreta strutturazione delle relazioni sindacali è un aspetto centrale di un autoritarismo ovviamente ancora più opprimente per i lavoratori salariati.Oltretutto, la ribellione e la riorganizzazione di un soggetto sindacale di classe deve fare i conti con un’intelaiatura protettiva che il sistema ha edificato in questi anni a tutela del monopolio sindacale di Cgil-Cisl-Uil.

Fanno parte di questa rete protettiva le norme della Bassanini, le leggi antisciopero, la negazione dei diritti sindacali ai lavoratori esterni alle confederazioni.

Fa parte della più generale trasformazione in sindacati di regime il crescente ruolo economico e finanziario assunto da Cgil-Cisl-Uil, del quale la compartecipazione alla gestione dei Fondi pensione integrativi è l’aspetto più evidente e significativo.

LA NEGAZIONE DEL CONFLITTO DI CLASSE

Nella Seconda Repubblica il conflitto di classe non è contrastato, è semplicemente negato.

L’attacco reiterato al diritto di sciopero è l’esempio più lampante di questa negazione.

Una negazione che affonda le radici nella politica concertativa, nella riduzione della contrattazione ad un mero calcolo ragionieristico.

Alla riduzione progressiva di salari e pensioni, fa riscontro un aumento considerevole delle ore lavorate (altro che fine del lavoro!). Secondo i dati dell’Istat le ore lavorate da ogni singolo addetto nelle imprese industriali con oltre 50 dipendenti sono passate da una media di 1400 nel 1985 alle attuali 1650 ore annue con un incremento del 18%.

La flessibilizzazione degli orari sulla base delle esigenze aziendali è divenuta la norma un po’ ovunque. Con il recente contratto dei tessili, tanto per fare un esempio, si è introdotta la possibilità di allungare la settimana lavorativa a 48 ore, con un recupero da effettuare nei periodi di bassa domanda.

Con il pacchetto Treu la crescente precarizzazione del rapporto di lavoro si è fatta legge. Le statistiche più recenti dicono chiaramente che la stragrande maggioranza dei cosiddetti "nuovi posti di lavoro" altro non sono che forme di occupazione precaria, temporanea ed instabile.

A questa condizione di accresciuto sfruttamento corrisponde l’invisibilità del lavoro. E’ questo il capolavoro di un capitale che riesce a vendere la favola della "smaterializzazione" del lavoro, condita oggi dai tanti discorsi sulla "new economy", proprio mentre l’aumento della materialità dello sfruttamento è scritto nelle liste dei morti sul lavoro come nei contratti e nelle leggi del sistema neocorporativo.

E’ chiaro che funzionalizzare al meglio istituzioni, partiti e sindacati non basta: occorre anche sgominare il fronte del lavoro e disperderlo.

La posta in gioco è quella di impedire la riorganizzazione, in termini contemporanei, dei lavoratori salariati.

Questa operazione preventiva è la meno visibile e la più delicata, perché non si avvale soltanto di strumenti materiali, ma anche di elementi ideologici.

Ecco perché il tratto distintivo dell’invisibilità. Invisibilità delle moderne forme di sfruttamento, spesso presentate come un progresso verso una maggiore realizzazione dell’individuo. Invisibilità del soggetto lavoratore salariato in quanto tale.

Questa doppia invisibilità è essenziale per stabilizzare l’attuale stato di passività della classe operaia. Inutile dire che questa operazione ideologica non avrebbe alcuna possibilità di affermazione senza la partecipazione attiva del sindacato di regime e della cosiddetta "sinistra".

L’ORGANIZZAZIONE DEL CONSENSO

L’organizzazione del consenso nella Seconda Repubblica è in larghissima parte la diretta conseguenza degli aspetti fin qui trattati.

L’omologazione della "sinistra" è stata la chiave decisiva per l’affermazione del pensiero unico.

Siamo ormai passati da una società guidata dalla logica dell’impresa e del profitto a quella che abbiamo definito "società-impresa". E’ in questo passaggio che si colloca, ad esempio, una controriforma della scuola che spinge sempre più verso un sistema formativo integralmente modellato sulle esigenze dell’impresa.

La normalizzazione dell’informazione ha raggiunto vette impensabili solo 10 anni fa.

Non soli i processi di omologazione culturale hanno ridotto le differenze sui temi fondamentali, lasciando ovviamente spazi sterminati alle differenze secondarie ed insignificanti con il risultato di sostituire la chiacchera alla discussione.

Ma – ed è forse l’aspetto più importante – le tecniche manipolatorie si sono sviluppate in maniera ancora più rapida. Come sintetizza una formula felice, oggi "il lettore è informato di tutto, e non sa nulla".

All’enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa corrisponde infatti l’arretramento delle capacità di interpretare, comprendere ed analizzare le cose del mondo. L’uomo del 2000, con il telefonino in tasca ed internet sulla scrivania, bombardato da una miriade di notizie quotidiane, conosce il proprio mondo assai meno del proprio recente antenato che si informava attraverso la radio.

E’ questo un dato di carattere generale, comunemente riconosciuto, che va oltre il discorso sulla Seconda Repubblica, ma che si ricollega però alla tendenza autoritaria di fondo del capitalismo contemporaneo, di cui il passaggio alla Seconda Repubblica in Italia è solo un aspetto particolare.

C’è una vicenda che ci ha mostrato appieno la forza e l’efficacia dell’attuale organizzazione del consenso: la guerra alla Jugoslavia.

In quell’occasione maggioranza e opposizione di destra sono state unite a difesa del sacro interesse nazionale, il sindacato ha dato il suo pieno sostegno, il mondo della cultura e dell’informazione si è prontamente allineato, mentre il grosso del volontariato si incaricava di condire di sapori buonisti la sua partecipazione ad una guerra definita "etica".

Difficile stupirsi che in un quadro del genere la guerra abbia goduto di un sostanziale consenso sugli obiettivi di fondo, con il dissenso dirottato ad arte su aspetti particolari o secondari.

La "sacra unione" che abbiamo visto all’opera lo scorso anno si ripresenterà tutte le volte che sarà necessario, tutte le volte che sarranno in gioco scelte decisive ed importanti.

 

 

 

IL RAFFORZAMENTO DEGLI APPARATI REPRESSIVI

La forza degli apparati preposti all’organizzazione del consenso e l’affinamento degli strumenti volti alla prevenzione del conflitto non sono tuttavia sufficienti a dare tranquillità al dominio del capitale.

Se la prevenzione è la forma principale di controllo del conflitto, la repressione va resa più efficace per attivarsi tempestivamente ogniqualvolta se ne presenti la necessità.

Poiché il conflitto è negato, laddove la prevenzione non funziona deve scattare in maniera sistematica la repressione

Ecco allora il rafforzamento degli apparati repressivi. Polizia, magistratura, servizi segreti, sistema carcerario non sono mai stati forti come oggi.

Questo rafforzamento ha bisogno di ristrutturazioni ed è questo il caso recentissimo del nuovo ruolo assegnato all'Arma dei Carabinieri.

Nell’era in cui si sbandiera la privacy, le intercettazioni telefoniche e quelle ambientali sono ormai la normalità.

Le nuove tecnologie vengono messe al servizio di una strategia repressiva. Le recenti misure proposte dal ministro di polizia Bianco ce lo mostrano in abbondanza.

Satelliti, radar mobili, raggi x e gamma, valigie telematiche, elicotteri con telecamere a raggi infrarossi, braccialetti elettronici: è questo l’armamentario previsto dal "Piano sicurezza 2000", un piano che prevede l’investimento di ben 2000 miliardi di lire per il solo controllo delle frontiere in funzione anti-immigrati.

E’ stato valutato che l’applicazione di questo piano porterebbe il numero dei carcerati a circa 70.000 unità, il 40% in più dei 51.800 detenuti censiti al 31/12/99 che già rappresentavano un aumento del 25% rispetto alla popolazione carceraria di qualche anno fa.

Le cariche sempre più frequenti in occasione di manifestazioni di piazza, la dura repressione messa in campo contro gli immigrati, gli arresti e le perquisizioni degli ultimi mesi, indicano la chiara volontà di colpire sul nascere ogni opposizione sociale e politica non compatibile con il modello neocorporativo.

Non si tratta però della scelta di questo o quel governo, quanto piuttosto di un imperativo imprescindibile di un sistema autoritario così strutturato.

In questo modo l’opposizione alle scelte di fondo non è solo bandita, ma assai spesso addirittura criminalizzata.

IL REGIME AUTORITARIO DELLA SECONDA REPUBBLICA

L’autoritarismo della Seconda Repubblica non è una politica; non è neppure una semplice forma, magari un po’ accentuata, del normale autoritarismo del potere capitalistico che si cela dietro i dispositivi apparentemente neutrali della democrazia formale.

L’autoritarismo della Seconda Repubblica è qualcosa di più; il salto realizzato ci rimanda a tendenze di fondo dello sviluppo del capitalismo contemporaneo.

La sua realizzazione va oltre questo o quel governo, trattandosi appunto di una tendenza del sistema.

Nel documento unitario del Movimento per la Confederazione dei Comunisti e della Rete dei Comunisti abbiamo definito questa forma di organizzazione politica e statuale come "il regime autoritario della Seconda Repubblica".

Cosa si intende per regime lo abbiamo spiegato in poche righe che, per ragioni di sinteticità, è utile riportare: "Regime non vuol dire fascismo e nemmeno deve far pensare al vecchio regime democristiano. Il regime della Seconda Repubblica è qualcosa di profondamente diverso dall’uno e dall’altro.

Intanto è un regime che ingloba entrambi i poli ed emargina ogni opposizione istituzionale.

In secondo luogo esso si fonda su un’ideologia pervasiva – quella del mercato – che tutto riesce a permeare proprio in quanto esterna e superiore ad entrambi gli schieramenti.

Ne risulta una forma di democrazia autoritaria, capace di far convivere il massimo di frammentazione partitica con il minimo di pluralismo politico e culturale".

Parliamo di regime dunque non in relazione alla specifica politica di un governo e della sua maggioranza parlamentare, ma in rapporto ad una struttura complessiva del sistema politico e istituzionale.

E’ utile avere ben presente questo punto perché nella polemica politica quotidiana parla di regime Berlusconi riferendosi al centrosinistra, la Bonino attaccando la "partitocrazia"; parleranno di regime domani i partiti del centrosinistra se lo schieramento avversario dovesse andare al governo.

Ovviamente queste chiacchiere su "regimi" di così breve durata non hanno niente a che fare con il concetto di regime che proponiamo.

Il regime della Seconda Repubblica non ha bisogno né di un Mussolini, né di un Aldo Moro, avrebbe forse bisogno di un De Gaulle ma sembra che non ve ne siano in circolazione.

E’ un regime forte proprio per questo, per la sua capacità di inglobare maggioranza ed opposizione parlamentare, riducendo al minimo il pluralismo politico. La semplificazione della politica a due schieramenti intercambiabili porta in realtà ad un’organizzazione statuale tendenzialmente unidimensionale, disegnando appunto un quadro di regime che potrà agevolmente cambiare il guidatore senza per questo dover cambiare la rotta.

Abbiamo già visto come questo regime ammetta il dissenso, ma non l’opposizione: da qui l’approntamento di filtri selettivi nel mondo della cultura e dell’informazione e di strumenti repressivi sempre pronti alla bisogna.

IL RAFFORZAMENTO DELLO STATO

Dal quadro fin qui descritto emerge un notevole rafforzamento del ruolo dello Stato.

Contrariamente a quanto sostengono le mode dominanti, il processo di globalizzazione modifica (anche sensibilmente), ma non riduce il peso degli Stati.

E’ ovvio che parlando dell’Italia intendiamo per Stato sia quello nazionale, sia quello europeo in corso di costruzione.

Una costruzione quest’ultima che non sappiamo se andrà a buon fine, data la difficoltà di passare dall’unione monetaria a quella politica; ma che ha già definito al suo interno il massimo di accentramento dei poteri ed una politica di sicurezza (trattati di Schengen ecc.) che ha fatto parlare non a caso di edificazione della "Fortezza Europa".

Trattare dell’organizzazione autoritaria della Seconda Repubblica equivale a parlare dello Stato capitalistico oggi. Uno Stato evidentemente trasformato in profondità, ma tutt’altro che indebolito.

Guardare in faccia questa realtà significa sgombrare il campo da un opportunismo parolaio che si riempie la bocca di "globalizzazione" per non guardare negli occhi l’imperialismo, che vede il potere ovunque fuorché laddove raggiunge la sua massima concentrazione.

Questa rimozione non deriva soltanto dalla dura realtà degli attuali rapporti di forza, ma anche da una gigantesca operazione ideologica portata avanti dal sistema culturale e informativo dominante, che ha trovato nella "sinistra", ed in particolare in quella di derivazione sessantottina, il veicolo per la propria affermazione.

Tutto ciò non è accettabile. Non solo i comunisti non possono rinunciare all’analisi dello Stato, se non vogliono ridursi ad una dimensione idealistica dove "il movimento è tutto e il fine è nulla", con la cancellazione di ogni prospettiva rivoluzionaria. Ma neanche gli "antagonisti", chiunque voglia lottare seriamente contro l’ordine capitalistico, possono farne a meno.

Uno sguardo allo Stato di questo inizio secolo ci mostra un nuovo ruolo economico adeguato alle attuali esigenze delle oligarchie finanziarie, istituzioni autoritarie e centralizzate, un’accresciuta capacità di prevenzione e controllo del conflitto, il potenziamento degli apparati repressivi e di quelli militari.

Non sembra proprio la fotografia di una crisi, quanto piuttosto la visualizzazione di quanto lo Stato trasformandosi si sia rafforzato.

Il capitalismo non vive di soli profitti: la sua forza si sviluppa in parallelo a quella dello Stato che rimane lo strumento fondamentale del dominio di classe.

Se così non fosse resterebbe davvero difficile comprendere il significato, da molti infatti rimosso, del passaggio alla Seconda Repubblica.

ALCUNE (PARZIALISSIME) CONCLUSIONI

Non è questo il tempo delle risposte compiute, né chi scrive ha la presunzione di poterne dare. E' però il tempo di un'interrogazione senza veli sulla realtà.

Se siamo ancora ben lontani dall’individuare delle vie d’uscita, che almeno si affronti la situazione per quello che è!

Sarebbe già questo un passo in avanti importante per chi vuol ricercare collettivamente le risposte di cui abbiamo bisogno.

La nostra discussione sulla Seconda Repubblica ha anche lo scopo di definire il contenuto della possibile ripresa di un’azione comunista ben radicata nel presente.

La consapevolezza della situazione concreta è infatti la base imprescindibile per ogni ragionamento in tal senso.

Si impongono perciò alcune (parzialissime) conclusioni.

  1. La consapevolezza delle difficoltà ci consente una prudente e ragionevole valutazione delle potenzialità.
  2. Come ha scritto recentemente Alessandro Mazzone: "La tirannia moderna può dominare, manipolare, bombardare, sterminare. Ma non può "risolvere praticamente" il problema posto da Rousseau, diversamente risolto da Hegel e Marx, e divenuto frattanto tanto più maturo nelle cose: l’autogoverno razionale della comunità umana. Per questo, mi sembra, tutto quel che è "ragione", "dignità umana", "cultura", e (ovviamente) "democrazia", è oggi sotto attacco, e si trova obiettivamente dalla stessa parte. Anche il mostrare questo sarà un lungo lavoro. Ma non inutile, e non vano".

    Il rafforzamento del sistema, attraverso la costruzione della Seconda Repubblica, non cancella le contraddizioni di fondo che sono l’essenza stessa del capitalismo.

    Come la storia insegna, nessun potere per quanto grande è invincibile. Sotto l’apparente stabilità cova sempre il fuoco della contraddizione.

    E’ proprio questa consapevolezza, che le classi dominanti hanno sviluppato assai meglio degli sfruttati, che spinge verso un sistema sempre più autoritario e repressivo.

    Ma se gli oppressi piangono, il capitalismo non ride.

    L’aver ridotto tutto a merce svela il tallone d’Achille del sistema. Oggi, a differenza di ieri, ogni conflitto determinato dal bisogno, rimanda immediatamente al cuore della struttura capitalistica.

    Ecco perché il compromesso è oggi cancellato e sostituito dalla prevenzione/repressione del conflitto.

    E’ la fine delle mediazioni che ha imposto la ristrutturazione delle istituzioni. Ma se le istituzioni sono impermeabili e totalitarie, il conflitto tenderà più facilmente a contrapporsi al capitale ed al suo sistema di dominio.

    Il terreno dello scontro non è più interno alle istituzioni, dato che esse non possono che negarlo. La conflittualità, che nessuna ingegneria istituzionale potrà cancellare troppo a lungo, dovrà dunque porsi contro e non dentro le istituzioni della Seconda Repubblica.

    Da qui la possibilità, certo tutt’altro che scontata, della ricostruzione di un blocco sociale effettivamente antagonista e di una nuova soggettività comunista fondata su una piena autonomia strategica, politica e culturale. Una soggettività consapevole della necessità di collocarsi fuori e contro il sistema bipolare, a differenza del "doppio binario" bertinottiano che dosa il massimalismo della domenica con l’incapacità strutturale di rompere strategicamente con il centrosinistra.

    A tale proposito è bene avere chiaro che le acrobazie di Bertinotti impongono un andamento ondivago alla politica del Prc, ma la direzione di marcia che ne risulta è scritta in maniera indelebile nei sistematici accordi politico-elettorali con il centrosinistra e nella subalternità alla logica bipolare che evidenziano.

    Il Prc ha contrastato aspetti specifici della costruzione autoritaria della Seconda Repubblica, senza però farne mai derivare la scelta di un’opposizione strategica al sistema, in mancanza della quale risulta ineluttabile il progressivo assorbimento nel più generale processo di omologazione alle regole e alle compatibilità del sistema capitalistico.

  3. L’edificazione processuale della Seconda Repubblica segna inesorabilmente con il suo procedere la fine della forma tradizionale della rappresentanza, la forma cioè che si è affermata in Europa nel dopoguerra e che ha segnato mezzo secolo di storia.
  4. La passività del blocco sociale potenzialmente antagonista deriva anche dall’impossibilità della propria rappresentanza nelle organizzazioni di massa tipiche del periodo precedente.

    A quell’impossibilità fa riscontro, ad oggi, l’assenza di alternative credibili.

    Le vecchie forme (ovviamente di tipo riformistico) non esistono più, anche se qualcuno vorrebbe provare a rinverdirle non fosse altro per coprire un piccolo segmento del mercato elettorale; quelle nuove sono ancora da inventare.

    E’ qui lo scoglio principale per la riorganizzazione del blocco sociale antagonista. Uno scoglio reso ancora più ostico dall’assenza in questo momento di esperienze concrete da assumere come punto di riferimento generale.

    Le forme della riaggregazione del blocco sociale non sono perciò ancora chiare e definite. Occorrerà dunque metodo e pazienza per verificare nella pratica le diverse ipotesi in campo.

    La rapidità dello smantellamento delle forme precedenti – dal partito di massa, al sindacato tradizionale, alla rappresentanza istituzionale – ha lasciato un vuoto che impone un lavoro ricostruttivo di lungo periodo.

    Quella triade rientrava evidentemente nei canoni riformistici e non era dunque la nostra, ma ha avuto per decenni una sua credibilità di massa in virtù di un contesto caratterizzato da diversi rapporti di forza interni ed internazionali.

    Quella triade non è riproponibile né nel suo insieme né in ogni singolo aspetto. Nondimeno è necessario costruire risposte adeguate ai problemi della riorganizzazione del blocco sociale, del sindacato di classe e dello strumento politico.

    Per trovare la soluzione di queste questioni i comunisti devono guardare con realismo al presente e al futuro, perché il passato, da questo punto di vista, non può darci un grande aiuto.

  5. Un riferimento particolare va proposto sul tema del consenso all’attuale strutturazione di regime.

Sbaglieremmo a pensare che l’autoritarismo si imponga semplicemente come strumento del dominio di classe. Così è nella sostanza, ma la capacità di costruire consenso è notevolmente aumentata in conseguenza della ghettizzazione di ogni posizione critica.

Sbaglierebbe però anche chi non vedesse i segni di un distacco dall’ideologia totalitaria del pensiero unico. Questi segni ci sono – alcuni embrionali, altri meno – e debbono interessarci nella misura in cui possono offrire delle indicazioni sui punti deboli dell’attuale configurazione del sistema.

La domanda è: di quale tipo di consenso gode oggi il regime?

Questa domanda implica chiaramente l’ammissione di un consenso diffuso che sarebbe errato sottovalutare. Il punto è quello di individuare la natura, lo spessore, l’articolazione di questo consenso.

Scontato è il consenso della classe dominante, anche se – come dice la canzone – "non gli basta mai", ma quello che qui interessa è il consenso di massa che investe anche ampi strati popolari.

Che tipo di consenso è questo? Come cercare di contrastarlo?

Senza nessuna pretesa di risposta esauriente, alcune indicazioni ci arrivano proprio dal terreno istituzionale.

L’astensionismo elettorale, in notevole crescita anche nelle recenti elezioni regionali dove tra astensionismo vero e proprio, schede bianche e nulle il 39% degli elettori ha finito per non esprimere un voto, richiede una valutazione attenta e circostanziata.

Indubbiamente il non voto è un gran contenitore che assembla l’astensionismo fisiologico con quello politico prodotto dal maggioritario.

D’altra parte quest’ultimo, trascurando l’astensionismo di minoranze politiche come le nostre, somma due componenti: quella "conservatrice" di chi non vota perché sa di non dover temere cambiamenti, quella "protestataria" di chi non vota perché sa di non poter sperare in alcun cambiamento sostanziale.

L’astensionismo fisiologico in Italia non è mai stato superiore al 10%. Ne consegue che l’astensionismo politico di varia natura è ormai ben al di sopra del 20% del corpo elettorale.

Più difficile stabilire l’entità delle sue due componenti, la "conservatrice" e la "protestataria". Negli ultimi anni tuttavia, cioè da quando il bipolarismo si è affermato, le analisi sui dati elettorali ci dicono chiaramente che l’astensionismo "protestatario" è superiore a quello "conservatore".

Come minimo questa forma di astensionismo indica una presa di distanza di chi subisce il regime ma non intende condividerlo. E’ ancora senza dubbio un livello molto arretrato di presa di coscienza, ma è una base sulla quale lavorare con intelligenza e attenzione.

Questo astensionismo infatti non esprime un generico e rassegnato "non c’è niente da fare", come poteva essere nella Prima Repubblica, esso indica piuttosto la percezione di fondo dell’inutilizzabilità delle attuali istituzioni ai fini di ogni significativo cambiamento politico.

Ancora poco, se si vuole, ma forse già abbastanza per individuare un primo importante distacco, un segno comunque di quanta acqua sia passata sotto i ponti dal plebiscito pro-maggioritario del 18 aprile 1993.

E’ quello stesso distacco che si manifesta del resto nei luoghi di lavoro dal sindacalismo di regime di Cgil-Cisl-Uil. Anche questo distacco non riesce a trovare ad oggi una risposta adeguata, esprimendosi principalmente nella forma del mugugno e del dissenso, piuttosto che in quella della riorganizzazione su basi di classe.

In conclusione, il regime autoritario della Seconda Repubblica non è certo privo di consenso, ma i primi scricchiolii sono già avvertibili.

C’è un dissenso sotterraneo e senza voce che va raccolto e organizzato. E’ un dissenso che non è ancora opposizione, ma è proprio qui che i comunisti possono e debbono lavorare.