L'arte di ascoltare

Intervista a
Shafique Keshavjee

Una casa del dialogo parlato, ma anche di quello che richiede ascolto e meditazione. È "L'Arzillier", un centro di incontri interreligiosi animato dal pastore protestante Shafique Keshavjee, uno dei relatori al Forum promosso da "Confronti".
Lo abbiamo intervistato.

Shafique Keshavjee è pastore della Chiesa riformata svizzera nel cantone di Vaud. È animatore di "L'Arzillier", una casa del dialogo che ha sede a Losanna dedicata alla pace tra le chiese, le religioni e la spiritualità. Keshavjee è stato meglio conosciuto in Italia grazie all'uscita nel 1998 del romanzo edito da Einaudi Il re, il saggio e il buffone in cui un re indice un torneo delle religioni per cercare di capire quale religione meglio si confà ai suoi sudditi. Ma l'unico che potrà assegnare una medaglia d'oro sarà, se esiste, Dio e la medaglia d'argento sarà vinta dalla religione che avrà fatto più sforzi per capire le altre. L'ultimo libro di Shafique Keshavjee appena uscito in Italia è Dio spiegato a mio figlio edito da Piemme.


Che cosa è la casa di L'Arzillier?

La casa è utilizzata per gli incontri interreligiosi organizzati da noi ma anche da altri gruppi interconfessionali o interreligiosi. Una Chiesa da sola non può utilizzare la casa per le sue attività, lo scopo non è solo quello di parlare, e si sa che le persone di religione hanno sempre voglia di parlare, lo scopo è quello anche di ascoltare: si crea una situazione in cui le persone si trovano nella condizione di ascoltare qualcuno di un'altra tradizione religiosa, non so se a capire ma sicuramente ad ascoltare.


Perché lei ha deciso di dedicare una parte della sua vita al dialogo interreligioso?

Credo che il dialogo esteriore rinvii prima di tutto ad un dialogo interiore. Sono nato in una famiglia ismaelita, ci sono poi stati i miei studi di scienze umane pieni di critica alle religioni, ho avuto delle esperienze cristiane forti che mi hanno fatto diventare cristiano, ho praticato yoga, c'è dunque stato un incontro con le differenti religioni nella mia interiorità anche se il mio asse e il senso delle mia vita io li trovo nella figura del Cristo. Una delle mie esperienze forti fatte quando ero studente di teologia protestante a Losanna è stata quella di prendere coscienza degli orrori che sono stati commessi in nome della religione come quello che i cristiani avevano fatto agli ebrei alla fine del secolo scorso e ho cercato di comprendere come a partire dall'Evangelo si possano compiere certi orrori. Questo mi ha portato ad avere una crisi molto forte e questa è stata anche la ragione che mi ha spinto a iniziare questo dialogo. In ogni religione ci sono delle cose bellissime e delle cose orribili e noi abbiamo bisogno di incontrarci per arricchirci e avvertirci reciprocamente degli orrori possibili.


Nel suo libro "Il re, il saggio e il buffone" lei parla della figura dell'ateo come di una figura che fa parte di ognuno di noi. In che senso?

Spesso le espressioni, credente, non credente, religioso, ateo restano delle parole. Anche Dio rimane una parola e questo mistero di Dio è sempre più grande. Io credo che ci sia una dimensione di ateo nel credente e reciprocamente una dimensione di fiducia molto forte, di impegno in qualcuno che si definisce ateo. In me c'è la dimensione dell'ateo nella presa di coscienza che tutti i discorsi su Dio possono diventare un idolo, che Dio stesso può diventare un idolo. I primi cristiani erano considerati come degli atei dai Romani perché non accettavano gli dei dell'epoca e io credo che un cristiano in un certo modo continua ad essere ateo anche in relazione alle rappresentazioni che gli vengono date nella sua tradizione perché lui sa che il mistero di Dio è più grande dei discorsi che si possono fare. Bisogna dunque essere atei nel senso di essere critici nei confronti delle immagini che noi abbiamo, dicendo "Dio è Padre" altrimenti, "Dio è Dio" altrimenti, credo che sia proprio questa trascendenza continua a far sì che l'ateo che è in me possa diventare dinamico e spingermi ad avere sempre più fiducia in Dio.


Qual è la sua opinione sul documento della chiesa cattolica "Dominus Iesus"?

Prima di tutto è un documento interno alla Chiesa cattolica che svela un dibattito necessario per l'ala conservatrice, che ha paura di tutti i teologi che dialogano e soprattutto ha paura dei teologi cattolici che dialogano. Questo documento fa poi riferimento ad altre tradizioni, ad altre religioni con dei toni molto duri e questo rivela che l'autore non ha dei contatti personali, diretti con persone di altre religioni. È inoltre un testo che tiene conto solo del Nuovo Testamento; trovo estremamente grave che un testo che offre uno sguardo del cristianesimo cattolico romano sulle altre religioni lo faccia senza citare l'Antico Testamento, dimostrando che la Dominus Iesus non tiene conto della storia e non tiene conto del fatto che il giudaismo e gli ebrei ci sono ancora oggi. C'è però un aspetto positivo: questo documento, cercando di spiegare perché il cattolicesimo è superiore, obbliga le persone che dialogano a situarsi nella propria fede e nella propria religione; tutte le tradizioni religiose sono costruite su una idea di superiorità ma il fatto che il documento sia formulato in un modo estremamente negativo obbliga a dire nel dialogo dove è la mia superiorità. Questo documento ha dunque nella sua finalità quella di rilanciare un dibattito che permetta di riflettere sulle basi della propria fede, la grande sfida nel dialogo interreligioso è quella di parlare nel dialogo del dialogo; tante persone fanno delle belle dichiarazioni ma non si dialoga più sul contenuto della propria fede.


In Italia c'è un rivolgersi verso l'Oriente e si dice che sia una moda; lei convertendosi al cristianesimo ha fatto, in un certo senso, un percorso inverso. Che cosa c'è in comune?

Prima di impegnarmi al seguito di Cristo io facevo yoga, sono anche andato in India a praticare ed è lì che sono diventato cristiano. Per la prima parte delle mia vita io mi muovevo alternativamente tra il Vangelo e lo yoga. Ma a poco a poco nel dialogo interreligioso ho realizzato quanto nella storia delle chiese la spiritualità sia molto più ricca della spiritualità che una sola Chiesa può offrire. Per esempio a contatto con i monasteri c'è stata per me una sorta di reintegrazione di tipo meditativo così come per esempio in altre tradizioni è importante la respirazione, la posizione del corpo. Non è solo una questione di moda, la spiritualità delle chiese occidentali cattoliche o protestanti è una spiritualità essenzialmente intellettuale; molto è nelle parole, la preghiera, i testi liturgici, parole, parole, parole, parole. La parola è molto importante ma non bisogna dimenticare il soffio, lo spirito che va a toccare il corpo, le emozioni, le intuizioni che sono un bisogno di molte persone. È paradossale che proprio i cristiani che hanno dato tanta importanza alla incarnazione vivano invece una spiritualità disincarnata; credo che noi dovremmo riscoprire il silenzio, la respirazione, il corpo non come metodo ma come presa in considerazione di tutto il nostro essere.


SCHEDA
UN PREMIO A MARIA VINGIANI E ALLE CARITAS PUGLIESI

Gli ultimi mesi sono stati assai difficili per il dialogo e le relazioni tra culture e fedi diverse. Soprattutto nella Chiesa cattolica il documento Dominus Iesus e le dichiarazioni del cardinale Giacomo Biffi hanno creato grande imbarazzo e serie difficoltà a chi in queste posizioni non si riconosce (ne parliamo ampiamente in diversi servizi di questo numero). Purtroppo, però, pochi sono venuti allo scoperto dissociandosi apertamente da Ratzinger e dall'arcivescovo di Bologna, segno che la libertà di discussione rimane ancora un diritto limitato nella Chiesa di Wojtyla (vedi per esempio la vicenda della rivista Segno 7, ricostruita a pag.5).

È per questo ancora più importante che la Fondazione internazionale don Luigi Di Liegro abbia deciso di attribuire il premio in onore dell'ex direttore della Caritas romana a Maria Vingiani e alle Caritas pugliesi. L'occasione è stata offerta dal convegno che si è tenuto il 16 ottobre 2000 al Teatro Argentina di Roma, nell'ambito delle manifestazioni in ricordo del terzo anniversario della scomparsa di don Luigi (avvenuta il 12 ottobre 1997).

Maria Vingiani, fondatrice del Segretariato attività ecumeniche, è stata una pioniera del dialogo ecumenico e interreligioso, fin da quando scelse come argomento della sua tesi di laurea le differenze tra la teologia cattolica e quella protestante, suscitando scalpore all'Università veneziana a cui era iscritta (siamo nel 1947). Proprio nel capoluogo veneto ella incontra il futuro papa Giovanni XXIII, il quale, assurto al seggio pontificio, indirà il Concilio Vaticano II. Il carattere "ecumenico" di questo evento convince Vingiani a trasferirsi a Roma per dedicarsi interamente all'ecumenismo. Il Sae è lo strumento che ella crea come sede di scambio aperta a persone di fedi differenti. Nella motivazione del premio si afferma, infatti, che "pur consapevole delle difficoltà dell'impresa, ma assumendosi con coraggio e fino in fondo le sue responsabilità di laica - cioè di cristiana battezzata e coerente con il dono ricevuto - Maria Vingiani anno dopo anno ha saputo guidare il Sae mantenendolo come la città sul monte di cui parla Gesù, e cioè luogo alto di dialogo, di confronto, di fraternità, di sororità, di profezia". Pur avendo lasciato la presidenza dell'organismo da lei fondato per raggiunti limiti di età, ella "rimane comunque un punto di riferimento per chiunque, in Italia, si occupi di ecumenismo".

Alle Caritas pugliesi il riconoscimento è andato, invece, per il grande lavoro di accoglienza che hanno fatto in questi anni nei confronti dei tanti immigrati che varcano il canale di Otranto in cerca di miglior fortuna. Un lavoro del quale forse i loro stessi vescovi non hanno saputo trarre profitto visto che l'arcivescovo di Lecce in persona, Cosmo Francesco Ruppi, scriveva il 17 ottobre su Avvenire, concordando con Biffi sull'esistenza di un pericolo-islam: "Vedere, infatti, profughi e immigrati che, pur accolti fraternamente e, diciamolo pure, eroicamente, mostrano con la mano il segno del vinceremo, lascia senza dubbio costernati e perplessi, facendo sorgere il sospetto che, tra le motivazioni che spingono all'esodo, c'è anche quella di una rivincita o di una vera e propria vittoria".

(Mariano Bottaccio)