Le pieghe del tempo
Sappiamo
che lo spazio storico è abitato da culture diverse, ciascuna dotata di
una sua propria visione del mondo; possiamo con buone ragioni chiederci
come anche la percezione del tempo e della storia sia influenzata da queste
diverse visioni e dia così vita, pur nella contiguità delle diverse umanità
le une con le altre, a un complesso convivere di culture ed esperienze.
Questo
tema è stato individuato innanzitutto negli studi di antropologia culturale
e di storia comparata dei sistemi culturali, ed è giunto, soprattutto
nell’opera di M. Eliade, noto storico delle religioni, all’individuazione
di due grandi modelli alternativi di percezione del tempo: quello lineare
e quello circolare.Ma
anche senza ricorrere a comparazioni tra il pensiero occidentale e cristiano
e quello delle popolazioni senza scrittura o delle civiltà arcaiche, all’interno
della nostra stessa civiltà è possibile cogliere profondi dislivelli nella
percezione e nella relazione culturale con il tempo.
Il
fenomeno è stato concettualizzato con grande ricchezza di analisi dal
filosofo marxista Ernst Bloch , che lo ha qualificato come problema della
“non- contemporaneità”: una questione cruciale, nel quadro di una strategia
di emancipazione e liberazione umana globale. Con questa riflessione,
la questione della diversa esperienza storico-culturale del tempo, pluralizzata
a seconda delle classi sociali, delle tradizioni e delle ideologie, acquista
un notevole spessore etico-politico.
In
Eredità del nostro tempo, Bloch discute il problema della non-contemporaneità,
nell’ottica del “dovere di renderla dialettica”. L’osservazione iniziale
di Bloch è già in sé illuminante:
L’esperienza
dell’attualità non è la stessa per tutti. Alcuni vivono il presente solo
esteriormente, per il semplice fatto che li si può vedere oggi. Ma ciò
non vuol dire che essi vivano nello stesso tempo degli altri.
Essi portano
invece con sé qualcosa di anteriore che viene a mescolarsi con il presente.
Il modo in cui un uomo vive il tempo dipende dal luogo in cui esso si
trova in carne ed ossa e soprattutto dalla classe alla quale appartiene.
Epoche più antiche di quella attuale continuano a vivere nei ceti più
antichi. Si ritorna facilmente, si sogna di tornare, ai vecchi tempi...
Diversi anni in generale scorrono nell’anno preso come riferimento, l’anno
che domina.
(E.
Bloch, Eredità del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1992)
Jacques
Le Goff ha preso in esame lo stesso fenomeno a partire dalla costruzione
del tempo laico nella città medievale, il tempo del mercante, contrapposto
al tempo della chiesa che si caratterizza per le sue profonde asimmetrie
stagionali, essendo organizzato sul corso visibile del sole e dando così
luogo al fenomeno della durata variabile delle ore.
Nella
città vengono dunque a configurarsi due diversi ordini del tempo, quello
del lavoro (astratto e omogeneo) e quello del sacro, disomogeneo e qualitativo.
I segni del tempo riempiono la città: campanili battono le ore, meridiane
permettono la percezione dello scorrere del giorno, orologi raffinati,
più avanti, computeranno anche i minuti e i secondi.
Ma
altrettanti segni del tempo sono le cariatidi, che sole possono reggere
i portali e fare vincere all’ordine umano, simboleggiato dalla casa, il
tempo distruttore (Shakespeare: Devouring Time, blunt thou the lion's
paws…); segni del tempo sono anche le sirene delle fabbriche, i campanelli
delle scuole, le attività abitudinarie del lavoro che finiscono per ricoprire
la giornata di molteplici indici temporali e per stratificare, nella vita
della città, un numero indefinito di ritmi e di esperienze.
Alcune,
senza ombra di dubbio, proiettate nel futuro della crescente organizzazione
ed ottimizzazione delle opportunità: capaci di percepire il tempo come
risorsa e come occasione (il tempo è denaro!). Altre volte al consumo
del tempo: sono il rovescio speculare delle prime, le vite dei perdigiorno
e dei buonannulla, degli oziosi e dei dropouts...
Il
tempo che si vive, tuttavia, non è il tempo che necessariamente qualcuno
abbia anche scelto per determinazione e per convinzione: c’è un
processo sociale complesso di costruzione del tempo del gruppo, che inserisce
le grandi masse in modelli di esperienza che condizionano la coscienza
e la plasmano. Così il tempo laico, come risorsa da organizzare e da monetizzare,
deve essere per forza di cose, non foss’altro che per la difficoltà di
maneggiarlo, appannaggio di pochi che si fanno carico sia della sua ottimizzazione
nell’impiego che del rischio di viverlo, mentre la massa diseredata vive
organizzata nel tempo rigido della fabbrica, nei ritmi coattivi del lavoro
(tralascio, per semplificare, la dimostrazione articolata che l'attuale
transizione verso la flessibilità è in realtà una trasformazione fasulla
che indica lo sfondamento del tempo del lavoro dentro il tempo della
vita, e dunque un vertice dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo,
che resta inscritto nella devastazione della coscienza moderna come suo
segno distintivo).
Ma
simbolicamente il tempo rimane sempre la dimensione smisurata di ciò che
ci sovrasta, la ineluttabile organizzazione del processo naturale oltre
ed al di là della nostra capacità di dominarlo. Perché scorre - fluisce
e procede senza che lo si possa arginare. Certo, come dice un passo famoso
di Leon Battista Alberti nei Dialoghi della famiglia, questo fiume
del tempo è come un’acqua che ci sia data per lavarci, e sta a noi, che
lo percorriamo come su una barca, farne uso per mondare il nostro corpo
e il nostro spirito. Eppure l’illusione di mondarci mediante il lavacro
nel fiume del tempo è tale da indurci a credere che veramente attraverso
il tempo qualcosa della nostra natura possa venire modificato e migliorato.
Tanto più che il tempo, artificialmente misurato mediante le macchine
che lo atomizzano, diventa completamente dominabile, riempibile di tutte
le nostre attività. Eppure - la finitezza, l’oscurità della morte, l’imprevisto…;
oppure, più banalmente, l’importunità del mondo intralcia spesso
i nostri piani (fino al giorno in cui non ne saremo noi stessi annichiliti).
Nel
misurare il tempo c’è questa logica ferrea della necessità che ogni raffinamento
dei sistemi di parametrazione e rilevazione non intacca. Come disse una
volta Edmund Husserl, il tempo "serio" non scorre mai né più
veloce né più lento: ha un suo ritmo immodificabile che ne indica l'irreversibilità.
Ogni esperienza sosta per un attimo sulla soglia della coscienza attenzionale
e poi sprofonda; un'altra la segue e le si associa e così via. Il tempo
è necessità interiore prima ancora che esteriore.
L'illusione
data dal misurarlo con la massima precisione consiste nel credere di poterne
disporre, di poter annullare questa necessità. Ciò, semplicemente, è impossibile.
Accanto alla necessità del proprio ritmo percettivo, a cui è portato a
sottrarsi mediante la virtualizzazione della droghe e della cibernetica,
dell'immaginario e del desiderio, l'uomo incontra la necessità esteriore
del tempo: c'è stata una lunga storia della misura del tempo in cui il
legame con i suoi indici macroscopici dell'atmosfera (il sole, le stagioni,
la luna) ha consentito - paradossalmente - una notevole precisione sui
grandi periodi e impedito un'efficacia reale nel quotidiano (si può leggere,
per farsene un'idea, la ricca dissertazione Sugli orologi di A.
Longo ne Il Caffè, I, 32-35).
La
persistenza incongrua della meridiana e dello gnomone, che durano a lungo
nell'epoca degli orologi meccanici, appare caratterizzata due fondamentali
ragioni:
-
la concretezza del segno (l'ombra) e la sua maggiore leggibilità, come
segno della natura, rispetto all'astrazione dei numeri e dei movimenti
delle lancette;
-
la persistenza mediante questo tipo di misurazione di un legame forte
tra il tempo umano ed il tempo della natura, capace di dare ritmo e misura
al primo.
Rispetto
al tempo naturale, quello umano è dunque un ordine sovrapposto, che deve
mantenersi entro i limiti della natura e imparare a rispettarli, o quanto
meno farsi una ragione della trascendenza della natura e dei suoi fenomeni
rispetto alla scienza ed alla tecnologia. Anche nella fabbricazione della
meridiana si cercò di tenere conto del problema del sincronismo tra i
diversi tempi solari (anche oggi sappiamo benissimo che il mezzogiorno
solare e quello dell'orologio non coincidono) e questo indica che, lungi
da ogni idealizzazione, la misurazione del tempo è sempre andata verso
l'astrazione, la ricerca dell'uniformità oltre la difformità reale. La
dipendenza dal sole e dai fenomeni atmosferici doveva però evidenziare
nel progetto stesso di calcolo di un tempo uniforme tra luoghi distanti
un'esigenza da ritenersi per lo più insoddisfatta, cui si poteva fare
fronte soltanto con estrema precarietà.
È nella
necessità della sincronizzazione dei tempi produttivi che verrà invece
a determinarsi la necessità del tempo uniforme, astratto, equivalente
a distanza ed indipendente da ogni indice atmosferico: quel tempo che
oggi regola, tramite gli handshakes dei modem, il flusso delle
informazioni e la smaterializzazione dell'economia (che conserva tutti
i suoi realissimi effetti di asimmetria sociale).
L'utilità
innegabile della misura del tempo, senza cui la nostra organizzazione
vitale neppure potrebbe esistere, corrisponde così anche ad una deprivazione
della vita, ad una incapacità strutturale dei moderni di vivere insieme
occupando il tempo:
Se
non v'è cosa che all'uomo selvaggio sembri più inutile e ridicola quanto
la misura del tempo, non v'è però cosa più interessante per l'uomo che
vive nella società. Quegli, non d'altro occupato che degli oggetti presenti,
a null'altro s'applica che alla attuale sua felicità; la fame e la sete
sono ordinariamente i soli motivi che lo tolgono da quella perfetta indolenza
in cui passa gran parte della sua vita e che ben vale le frivole clamorose
occupazioni dell'uomo socievole e gl'ingegnosi deliri del filosofo. Tranquillo
d'animo, sano e robusto di corpo, scevero dalle passioni più violente,
dopo aver saziato il puro naturale bisogno non si logora lo stomaco con
cibi alterati o soverchi né fa un fatale dispendio di spiriti nel pensare.
Le pochissime sue idee si succedono lentamente né vengono di frequente
eccitate dalla varia interessante mutazione degli oggetti esterni. Il
tempo, che noi non sentiamo che per la più o meno pronta successione delle
nostre idee, è talmente impiegato da' selvaggi che appena ne possono sentire
il corso; lo stesso accade anche all'uomo socievole, quando ei sia seriamente
affacendato; coloro, per lo contrario, che non sapendo esistere che fuori
di loro medesimi portano da una conversazione nell'altra la insopportabile
noia e la faticosa loro indolenza; coloro che non hanno la moderazione
del selvaggio, né i bisogni del povero, né le rissorse del letterato;
que' che ripongono il dovere d'un buon cittadino nell'esattezza di ricambiarsi
le visite, d'accrescere uffici ad uffici, pe' quali convien che dividano
ad iscrupolo i minuti d'un oriuolo che loro è indispensabile; questi devono
con tanto maggior sollecitudine ricercare una giusta distribuzione d'ore
quanto che gli orologi loro porgono un inesausto campo di discorrere e
così supplire alla sterilità della loro mente.
(A.
Longo, Sugli orologi, cit., 1)
Convivono
così nella storia i tempi inavvertiti di coloro che non hanno storia (i
selvaggi), i tempi non misurabili di coloro che sono immersi nel bisogni
(i poveri: costoro hanno soltanto un futuro, un'attesa non soggetta a
soddisfazione di compensazione, consumo e benessere), i tempi del pensiero
e della teoria (del letterato) che sono legati ad una logica oggettiva
(si modellano sulle necessità del compimento rigoroso del lavoro e della
meditazione). Tempi pre-storici, tempi caratterizzati da discriminanti
distribuzioni delle risorse. Ed infine i tempi alienati di coloro che
sono presi nel vortice dei negozi, della socialità con le sue esigenze
di uniformità e il suo appello al conformismo ed alla moda. Ma non ci
sono - o non sono più possibili - i tempi della gioia comune, della collettività,
della libertà sociale diffusa. E questo è il problema, nel Settecento
così come oggi.
Se
la storia umana è intrecciata in tempi vissuti sempre diversi, non condivisi
tra le varie umanità che vi convivono, c’è mai speranza di una vera contemporaneità?
E quindi di una vera comunicazione? E dunque di una risposta progettuale
all'esigenza di un tempo della libertà di tutti?
E ciò
che è più moderno, critico e scientifico (ciò che Bloch, negli anni Trenta,
identificava nel marxismo: ed oggi?) potrà mai allora diventare patrimonio
di tutti (anche del "povero" e del "selvaggio")? E
quanti rischi esistono per un pensiero umanistico e critico che non sappia
però comunicare con le umanità, variamente conviventi nel presente, portatrici
però di altre esperienze del tempo e della storia? Ci potrà mai essere
un discorso autenticamente universale ed emancipativo, se i tempi diversi
delle diverse umanità sono centrifughi e disperdono le loro forze, le
loro diverse modalità di intendere l'umanizzazione, cadendo preda delle
forze inumane e violente (nel pensiero blochiano: il Terzo Reich, il capitalismo)?
Una
dialettica pluritemporale e plurispaziale... deve essere
critica per non accogliere modi d’essere remoti e la loro coscienza
doppiamente falsa dovuta al loro carattere remoto... per ritrovare nel
passato, ove possibile, un elemento che è ancora effettivamente operante
e che non è passato, per ritrovare nebulose autentiche (che devono
ancora generare una stella)... non si appesantirà di semplici nebulosità
apparenti, di ammassi di stelle oscure, formatisi molto tempo fa, per
quanto la loro somiglianza con le nebulose sia la stessa che sussiste
tra lo slogan della zolla e la nuova terra o tra il Terzo Reich e lo stato
dell’avvenire. Questa totalità deve essere critica per non cadere,
in virtù della sua legittima opposizione al capitalismo che lacera ogni
contesto vitale, in una falsa somiglianza con la totalità idealista...
deve essere soprattutto non contemplativa... una penetrazione che
possiede la ricchezza della sostanza non in passati dorati, ma nell’eredità
reale della sua fine nel presente attuale, insomma una penetrazione che,
proprio grazie alla ricchezza incompleta del passato... acquista
una forza rivoluzionaria supplementare. Solo così contenuti che
non sono passati perché non sono totalmente divenuti e che rimangono quindi
sovversivi ed utopici, serviranno a qualcosa nella relazione con l’uomo
e con la natura...
Bloch
accenna a due strategie di totalizzazione del tempo, di costruzione
di un’identità storica ed umana comune, promotrice delle forze autentiche
della personalità. Una è la dialettica idealistica, cui rimprovera di
cogliere nel passato lo sviluppo completo ed organico di tendenze e forze
perfettamente pacificate nel sapere contemporaneo (il riferimento è naturalmente
ad Hegel). L’altra è la filosofia nietzscheana (le “nebulose” che “generano
stelle” sono un richiamo diretto ad un passo dello Zarathustra:
“Io vi dico: si deve ancora avere del caos dentro di sé per poter generare
una stella che danza. Io vi dico: avete ancora del caos in voi.”, Prefazione
di Zarathustra/5).
All’individualismo
della filosofia di Nietzsche, un modo d’essere “remoto” che la dialettica
marxista e critica svela come falso, Bloch sostituisce, in un’ottica profondamente
umanistica, una strategia sociale (nel suo linguaggio: rivoluzionaria)
di valorizzazione delle forze prerazionali, premoderne, “nebulose caotiche”
che rifiutano le conseguenze alienanti del capitalismo e del mondo tecnico
in nome di valori (la terra, la speranza dell’avvenire)ai quali un ritorno
è possibile solo collettivamente, sviluppando completamente le forze produttive
della modernità (scrive altrove Bloch: il futuro impedito contenuto
nel presente, i benefici della tecnica bloccati, la società nuova bloccata
di cui quella vecchia è gravida nelle sue forze produttive). Soltanto
così la ricchezza inespressa del passato potrà essere recuperata e le
grandi forze emotive della speranza, del sentimento della natura, degli
affetti che sostanziano le percezioni del tempo altre e diverse da quelle
della contemporaneità critica e scientifica potranno contribuire all’emancipazione
umana.
Di
fronte alla complessità del multiversum di tempi ed esperienze
che è la storia umana, il pensiero umanistico blochiano non si limita
a registrare le differenze tra le varie articolazioni strutturali delle
culture, coma fa invece Lévi-Strauss:
...la storia è un insieme discontinuo formato da zone di storia, ciascuna
delle quali è definita da una frequenza propria, e da una codificazione
differenziale del prima e del poi. Tra le date che le compongono... il
passaggio non è possibile più di quanto non lo sia fra numeri razionali
e numeri irrazionali... è quindi non solo illusorio, ma contraddittorio
concepire il divenire storico come uno svolgersi continuo...
(C.
Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano, 1964)
Bloch
crede ancora alla possibilità di una convergenza tra i tempi e le esperienze
dell’umanità in un processo di rafforzamento reciproco tra la coscienza
critica ed avanzata della contemporaneità e la coscienza inesaurita dei
valori arcaici che finora l’umanità non ha pienamente saputo soddisfare.
È la
speranza che il tempo definitivo dell’umanità non sia quella di una forzata
unificazione ai tempi e ai ritmi di un sistema produttivo e sociale sempre
più impersonale, ma il tempo plurale e complesso della libertà.
Franco Gallo
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