Filosofia |
Sulla parola: tra filosofia e poesia La parola, ci sentiamo ripetere, è essenzialmente uno strumento. Si può sintetizzarne il contenuto informativo e trattarlo secondo una logica computazionale. Si può accentuarne al massimo la connotazione di utensile. Ci ribelliamo, per lo più, a simili analisi. Rivendichiamo la natura non utilitaristica del parlare e del dire. L’equivoco consiste, tuttavia, nel ricondurre la parola ad espressione. Noi non ci esprimiamo, non ci spingiamo fuori da noi stessi mediante la parola e la comunicazione. Esistiamo già fuori, dentro il mondo, proprio perché parliamo.Nelle parole e nelle loro strutture di significazione noi articoliamo il mondo. Quest’ultimo esiste già sempre per noi come oggetto e tema, virtuale e sempre realissimo, di ogni nostro possibile nostro dire. Nel dire, nel parlare, siamo determinati in larga misura dalle strutture del mondo che sono depositate nella forma del nostro linguaggio. La grammatica e la sintassi sono riflessi di una metafisica. Sembra, a quanto pare, che non se ne possa fare a meno. Alcune forme del dire e del parlare si rifiutano di connotarsi come articolazioni strumentali della parola. Tra queste, la filosofia e la poesia ( la scienza, la religione?). Il rischio che le accompagna l’autofraintendimento: l’alienazione costitutiva data dall’omologazione silenziosa al modello della parola come utensile. Saper usare le parole è tuttavia una grande conquista. La civiltà si regge sulla capacità di modellizzare, dominare e raffigurare il mondo mediante sistemi di segni ( e tra questi, la classe di quelli verbali gode di un significativo privilegio ). Essi permettono l’articolazione di progetti, la conservazione della memoria, la stabilizzazione della tradizione e il dominio sempre più efficace del reale, preordinato e collettivamente gestito. La parola deve essere in effetti intesa, in forma del tutto originaria, come funzione del bisogno. Un essere votato alla comunicazione verbale e segnica un essere collettivo, gregario, per essenza sociale. Senza la parola la socialità, che è la risposta più avanzata di cui l’uomo pare capace nei confronti della propria insufficienza, sarebbe impraticabile.Ma la parola travalica, fin da principio, la pura dimensione utilitaria.Prima ancora che segno, dovette essere grido, traccia lasciata dal corpo (e dalla morte), dalla fantasia (e dalla gioia) nella voce. Che fosse allora la parola, ce lo dice - forse - la poesia. Se non presume di essere reintegrazione di un originario che non più accessibile che per frammenti, ma se lascia essere oggi la nuda corporeità dell’essere uomo esposta in tutta la sua fragilità alla sovrabbondanza dei messaggi d’uso, consumo ed applicazione con cui si cerca vanamente ( ed insieme con l’unica possibile lucida ragione del vivere ) di fronteggiare la finitezza insormontabile di ogni vita. In questa sua proiezione verso lo strato ctonio del vivere la parola della poesia incontra e incrocia quella della filosofia. Entrambe rispondono all’appello muto ed angoscioso di quella parte del nostro essere che non si lascia acquietare dalle risposte pur rassicuranti della civilizzazione. La parola poetica, nella sua dizione, fugge via verso il lasciarsi appropriare dalla cosa stessa, verso il primato della realtà che si rivela intimamente una cosa sola con l’essere di chi la formula. La parola filosofica può forse, a volte, contribuire ad una diversa articolazione critica del proprio esistere, ad una più consapevole dialettica con la prossimità del sociale e degli altri esseri umani.Ma la parola poetica si può irretire nell’interiezione soggettiva che promana da un vissuto interiore feticizzato, può cadere altrimenti vittima di una malintesa relazione con la tradizione dove il momento dell’emulazione, della rielaborazione, dell’esercizio tecnico diventi preminente. La filosofia può incorrere in una impropria autointerpretazione logico scientistica che la snatura in procedura argomentativa fine a se stessa o in una versione diaristico interiore che la confina a monumento nevrotico del falso ego di chi la crea. Né in poesia, né in filosofia, c’è in verità molto da creare. Molto invece nasce dal distruggere, dalla fedeltà responsoriale all’appello del reale che chiede di manifestarsi, come parola, oltre ed al di là delle pudiche cautele e delle misure di prevenzione in cui la comunicazione quotidiana lo ingabbia.Poter suscitare in ciascuno la sensazione dell’inaggirabilità bruta del proprio essere, rispondendo all’appello del fatto che accade e insieme a cui noi accadiamo; convincerci della nostra irredimibile storicità ed esporci ad essa tanto la filosofia che la poesia possono farsene carico. Alla poesia l’onere di ravvivare la speranza, di articolare la preghiera, di saper di nuovo consentire alla vita ed alla sua inesauribile varietà. Quanto alla filosofia, mi accontenterei, come uno che la pratica da anni, che non mi disamorasse né dal mangiare, né dal respirare, né dal fare all’amore. Mi accontenterei che mi insegnasse quell’ascesi gioiosa dove la rinuncia diventa promessa e il futuro, pur essendo ineluttabile, inatteso e sempre nuovo.Ma proprio in questa prossimità essenziale con la forza vitale della parola, tanto la filosofia che la poesia possono riportarci vicini alla verità della nostra lingua madre: quest’ultima è "ein über dem Menschen waltendes Geschehen", un accadere che vige sull’uomo. Questa definizione di Heidegger vale a ricordare sia la natura attiva e destinale della tradizione che la necessità di farsene carico, di attraversarla vivendo e parlando senza limitarsi ad adoperarla con indifferenza ed efficienza, pronti a sostituirla con qualche più potente ed artificioso strumento. (Franco Gallo) |