Interventi

Una lettera a Caproni

Caro Caproni,

sono sempre neutrali le ragioni: o una e neutra, furente e pia, attraverso la quale, le quali, parla la poesia. E’ come se un osso sacro slogato, scosso dal corpo e pendente fuori di noi calibrato a mezz’aria, nel vuoto, ci trascinasse nel corso delle cose, all’ignoto, disequilibrati per sempre, per sempre guidati. Non è un’opera della mente la poesia o la mente non è quel che pensiamo che sia e allora semmai la ragione ne è solo una stagione e l’avventura del corpo, la sua presente, assidua garanzia, ne sono una decidua eternità, il contrappunto dell’aldiquà con l’aldilà. In questa posa cosmica, comica poi come tutte le pose che troppo sul proprio sé indugiano, in questa paratassi, noi attendiamo che il senso passi: e passa arriva il senso come un treno di lontano lo sentiamo arriva ci assale quasi senza ritegno come la vita, una bestia oscenamente prudente, da un sentiero laterale, inesorabile tangente, ci assale.
Noi, dio o non dio, siamo già arresi, ma illesi purtroppo continuiamo l’assise del presente, la prassi demente e ormai ipobiotica del comunicare; addirittura si vede la faglia eurasiatica del verbo incigliarsi e sparire, fare pio-pio nel fottio della scienza e della sua frequenza senza lasciarci un resto, un “ci rimane” o un poter dire “ecco, ho finito, lasciatemi svanire”.
Così è che per ogni verso -sub specie aeternitas: per tutto l’universo- è sempre un “non so come continuare”, uno spalto deserto da cui, anche in assenza, si perde alla vista il mare. Viene di traverso a salvarci, o viene da un diverso ascoltarci, la rima: proprio in assenza di limiti, per un totale umano consenso, la libertà si perde, ha il suo senso. Questo è quel che il nient’altro ci lascia in sorte. Ti lascio. A presto. Un abbraccio forte.

(Tiziano Ogliari)