Interventi |
Terzo escluso e quinto orizzonte Dal pensiero non ci si libera; è quel che ricopre di un velo rischiarante tutto il “proprio” che ci è assegnato. E lo fa senza riguardi, senza il rispetto di una misura, ma con il presupposto codice d’accesso d’essere il nostro istinto: il pensiero è l’istinto dell’uomo. Se lo sappiamo è perché già ne siamo stati predati, senza aver avuto scampo, con l’unica concessione, al senso del nostro Genere, che tutto sia andato secondo natura: il pasto, l’assunzione metabolica, il nulla di resto, l’equilibrio della specie e l’eterosustanzialità dell’universo.Il pensiero è facile e inserito nell’usanza delle cellule a comporre l’essere umano , sicché al fenotipo, a conclusione di quest’essere, quando sembra che di fronte si aprano, in opposizione all’organico risolversi di un organismo, tutte le libertà conquistabili, tutto invece si chiude in un destino, prende a leggersi in un codice, a scandirsi nella limitata accoglienza di un ambiente, a carcerarsi in un corpo di carne sangue e ossa e in un corpus di parole libri opere. Se anche sfugga al codice genetico una libertà tanto minuta da non trovare alcuna sensibilità che la renda esposta all’esistenza, certo essa sarà subito comunque estinta nel codice linguistico. Il pensiero corre, su questi due codici, la binarietà infinita e alla fine infima, del proprio darsi come dirsi, come viversi, come l’accelerata concupiscenza dell’unirsi che tutte le parallele all’infinito realizzano se all’infinito si guardi, da un punto, dal luogo di vista in cui, nostro malgrado, sempre ci troviamo. Nel lontano che si rinvia più lontano c’è una quiete imprendibile che riferisce la via, il cardine che indirizza il percorso, il punto dove si va a finire; laggiù l’infinito mutilato dal nostro punto di vista scardina occlusioni, procrastina conclusioni, sembra essere così impossibile all’esistenza da esserne l’esplicazione dimostrativa (se ex sistere è “stare fuori”, cosa esiste meglio di quel che continuamente rinviandosi sempre non trova altro che un continuo star fuori dal proprio sé?).Così in questo lontano che sfugge e trascina si fa ternario il pensiero binario. Geni e lingua lascian fuori, ad esistere, un terzo, una lontananza che corre loro innanzi irraggiungibile, la stessa che segue dietro ormai staccata in una perdita che si trascina irrecuperabile e invece “imperdibile”. La poesia, oltre a tutto quello che essa deprecabilmente dice di sé - ma per filia, confondendosi al pensiero - è questa lontananza esclusa alla quale non si può sfuggire, che governa il nostro andare verso così come, volgendoci alle nostre spalle, avrà governato il nostro provenire, tanto da annodarci su questa barca con orizzonti a prua e per poppa e babordi e tribordi a scorrere su tutto il panorama del possibile: la nave di Ulisse, il Pequod “cannibale bastimento”, le Bateau Ivre, l’ermo nautìlo colle da che Aristotele coniò il principio di non contraddizione, il Terzo Escluso della poesia sta al pensiero come il raccolto al mondato; ma vi è ancor prima e sempre poi un fondo di terra e di mare, sul quale lo stesso gesto semina e getta la rete, dove l’uomo non è così se stesso da potersi ordinare in un pensiero. La profondità lontana che si raccoglie in un verso e prende la direzione dell’uomo, del suo linguaggio, ma che dal loro più “proprio” rimane esclusa come un alcunché di estraneo, la poesia. Se è così distintamente umano dire umano il pensiero, la poesia rimane all’uomo sola ad essergli non solamente umana. (Tiziano Ogliari) |