Interventi


La poesia di Franco Fortini
tra necessità ed impotenza del dire

La poesia di Franco Fortini è stata definita, per la sua estraneità al mainstream della poesia italiana novecentesca - la linea lirica ermetico-fiorentina, che pure Fortini anche per ragioni biografiche ha sempre presente come controparte problematica del proprio scrivere - “l’avvio paradossalmente concreto di qualcosa che non ha avuto luogo: la poesia neorealista” (Raboni).

Scelgo questo incipit perché mi pare identifichi uno degli aspetti più ricorrenti nella trattazione della scrittura fortiniana, quello del suo definirsi per difetto: tanto come via inesplorata di una tradizione alternativa possibile, quanto come atto poetico esso stesso intrinsecamente difettivo, manchevole proprio nella sua natura artistica in questo universo impoetico e crudo che ci troviamo ad abitare.

Come si perviene a questo punto, a quanto pare necessario, nella lettura di Fortini?

Una delle ragioni basilari mi pare stia nella complessità irrisolta dell’intenzione creativa fortiniana. Come è noto, essa si caratterizza infatti per la sua relazione strettissima con le dinamiche storico-politiche reali, ed è modulata su un sentimento del tempo che si ispira, fin da Foglio di via (1946), alle attese innescate dalla Resistenza e consegnate al progetto della “democrazia progressiva” ed alla realizzazione, mediante l’applicazione sistematica del patto costituzionale, di un ideale forte di giustizia e di equità distributiva. Fortini, come è noto, è testimone dello svuotarsi di questo progetto fino alla precoce denuncia, già alla metà degli anni Sessanta, dell’omologazione tra maggioranza moderata ed opposizione di sinistra, che gli paiono profeticamente élites concorrenti per la gestione del sistema più che autentiche forze alternative: di qui la partecipazione all’avventura de Il Manifesto, a Quaderni Piacentini, alle esperienze giovanilistiche della contestazione del mandarinato intellettuale della sinistra ufficiale.

Contemporaneamente, però, Fortini è latore anche di un’altra istanza, più interna alla ricerca propriamente estetico-letteraria, che fa carico alla poesia della necessità di dotarsi di nuovi strumenti formali capaci di vincolare saldamente la scrittura alla tradizione senza esasperarne gli aspetti più lirico-immaginistici; Fortini stesso fa i nomi di Joszef, Machado, Auden, Brecht come compagni segreti di Foglio di via, a lui allora ignoti ma compresi, col senno di poi, come auctores di una tradizione più significativa di quella dei Proust, Joyce, Rilke, Gide. Come ad affermare la permanente significatività della “grande arte” borghese realistica e la possibilità di evitarne una deriva soggettivistico-formalistica.

Senza decidere ora dell’accuratezza della nitida lettura critica fortiniana, che ha almeno il pregio della consequenzialità e della chiarezza, è però possibile tracciarne le ragioni. Fortini è spinto dal bisogno di una poesia e di un impegno intellettuale che siano rendiconto diretto della tragedia umana del mondo contemporaneo. Si sente incalzato da un “tragicismo anarchico”, alla cui notifica indirizza la parola poetica. In questo orizzonte Fortini perviene all’esperienza dell’insufficienza della parola e della poesia. Nei pressi, dunque, della poetica del decadentismo, prossimo - si direbbe - alla celebrazione del frammentismo e dell’evocazione come vie maestre della poesia moderna.

Fortini registra però questa circostanza interpretandola in un modo affatto diverso, che ha alle spalle un pensiero razionalistico che riporta alla solidità realistico-materialistica della tradizione borghese.

Tra parola e cosa, infatti, ci deve essere uno iato. Le tragedie vere stanno nell’essere (nel lottare e nel morire degli uomini) e non nelle parole: “la parola non è e non dev’esser mai la cosa”. Questa insufficienza non è in carico alla poesia, quasi si potesse imputargliela come una deficienza di ordine estetico. La ragione è altra e così Fortini la descrive: “La poesia sembra spezzata tra l’esasperata vergogna del proprio status e la certezza - o cattiva coscienza - che mai come oggi gli strumenti per una diminuzione della «normalità infernale» sono nelle mani degli uomini”.

Dunque la poesia è vergogna di sé. La vergogna, peraltro, è duplice. Come attività dispendiosa e lussuosa in un mondo pervaso da altri e più concreti bisogni, la poesia avvalla la diseguaglianza tra gli uomini che ne è condizione di possibilità e di esercizio. Come atto profondamente ricco di consapevolezza e di esperienza (carattere che mai Fortini le nega), è inoltre esercizio di libertà, ma a scapito di ben diversi atti di liberazione concreta che incalzano la coscienza morale. Mai la libertà della poesia (si badi bene: reale rasserenamento, autentica emancipazione) dovrebbe esercitarsi in mancanza della libertà dal bisogno dei nostri simili; mai la via soggettiva alla felicità ed all’autorealizzazione, incarnata dall’arte e sempre possibile, dovrebbe essere percorsa mentre la libertà fondamentale dal bisogno è negata a tanti di noi.

Fortini rifiuta tuttavia di fare di questa condizione il segno di una deficienza strutturale ed incontrovertibile della poesia, di scorgervi una “legge catastrofica”. Scongiurata la maledizione di una condizione metafisica di afasia poetica, egli va ancora alla ricerca di uno “spazio della verità”, ma quest’ultimo dev’essere conquistato “con le armi”. Comprese, pare di capire, quella dell’intelligenza critica e della creatività indignata, capaci di riscattare la libertà del poeta ad un senso meno esornativo e soggettivistico di quello in cui l’industria culturale lo configura.

Fortini va pertanto in cerca di una poesia pensosamente distruttrice, capace di celebrare il distacco luttuoso dalla tradizione (Fortini liquida sia le identità del poeta che le funzioni della scrittura consegnateci dall’esperienza letteraria moderna) come un gesto di liberazione tanto necessario quanto enorme. Non c’è trionfalismo libertario e trasgressivo, nello stile nietzscheano, né l’angoscia esistenzialistica, ma il senso severo, materialistico, il reagente antideologico di una estetica del limite della pratica poetica in sé.

Permanente è il richiamo di Fortini alla vera natura della poesia, realizzatasi in tempi lontani nella misura classica, come contemplazione della natura distaccata dal dolore, propria di un’umanità privilegiata. Questo, e non altro, sembra essere l’unico importo possibile della pratica poetica ed insieme il suo limite strutturale: poter cogliere la pienezza della natura, e reinserirvi l’uomo e la sua vicenda solo per perderne la concretezza soggettiva e storica; individuare le costanti della condizione umana, al prezzo di storicizzarle e farle oggetto di una sapienza consolatrice, tanto presente nell’ultimo Fortini, ma, io credo, nella forma ironica della denuncia della sua impotenza a dire l’uomo reale, il tu di fronte a ciascuno che è soggetto di una domanda concreta e non caso dell’universale essenza umana. Essere ancora poeta oggi, nei tempi congestionati delle attuali urgenze etico-sociali, è dunque una maledizione, che consiste nell’essere soggetto di un’esperienza elitaria che conduce ad una comprensione universale dell’uomo proprio mentre emerge il bisogno di letture differenziate e soggettivamente orientate delle diverse esperienze umane. Obliquamente ed ambiguamente, dunque, la sapienza gnomica e metafisica del poeta si fa complice della massificazione, mette a tacere il dolore concreto del prossimo e lo destoricizza perdendone la carica critica e la reale capacità di incidenza polemica. Perciò la poesia non può acquietarsi in se stessa, ma deve ritorcersi criticamente contro la propria stessa parola e superarsi in vista dell’azione (politica, relazionale, morale) capace di arginare la sofferenza umana.

L’apprezzamento del limite della poesia come condizione e pratica culturale comporta così il ridimensionamento delle possibilità generali del dire poetico nella contemporaneità e mette in discussione lo stesso progetto estetico originario dell’autore, teso a realizzare una poesia epico-corale, capace di farsi voce collettiva.

Forse da questa consapevolezza nasce in Fortini - ed è tratto comune a molti grandi delle nostre lettere, quasi una costante della loro relazione con il pubblico nazionale - il senso di un precoce distacco dal proprio tempo e la ricerca di una interlocuzione futura, di una destinazione intenzionalmente postuma del proprio messaggio.

Il cammino di “pianto e sangue”, di ”agonia ed allegria” tracciato nelle prime raccolte non si concretizza più in un percorso epico collettivo, ma si trasforma in esperienza critica individuale, in dialogo più con un futuro problematico che con il proprio tempo.

Nel contempo lo sguardo sul presente, sempre dettagliato, focalizza sempre più il male, la disarmonia, l’enigmaticità del nostro status di viventi. La poesia, in quelli che sono forse i versi più emozionanti di Fortini, arriva così a cogliere il nocciolo intemporale della nostra condizione nella compresenza di una inalienabile prossimità concreta con le cose, con la “certezza sensibile dopo tutto” che ci offre comunque una “gioia brevissima”, e di una “storia” che ineluttabilmente “ci porta via”.

Questa gioia sembra però, nella meditazione di Fortini, non tanto appannaggio indiviso del genere umano, ma, ancora una volta, esito dell’affinamento poetico dell’esperienza. Solo la parola poetica ci ha riportati in vicinanza ed intimità con le cose; essa solo ci ha liberato dalla diseducazione sistematica cui siamo sottoposti in questo mondo dell’ingiustizia e ci ha restituito all’affinità carnale con le cose.

Ebbene - e non so vedere altro più tragico tratto nella poesia italiana contemporanea - il poeta non ha diritto di gioire di questa sua libertà ed integrità faticosamente conquistate, perché appunto esse non sono possesso comune di un’umanità in via di emancipazione, ma nascono in lui dall’accidentale dotazione di capacità plastiche, riflessive e creative che sono state accumulate nella sua persona dai processi reali, sociali e concreti, della diseguaglianza organizzata che chiamiamo sviluppo, progresso, libertà. Perciò il poeta rifiuta la sua possibile libertà presente, in vista di una concretizzazione futura di una libertà di tutti; ed insieme rinuncia alla propria specificità, perché la poesia, come tale, non sarà attrice della realizzazione di questa libertà (sarebbe questa la sede per trattare le ricche indagini critiche di Fortini sulla superfluità dell’avanguardia nel mondo dell’omologazione capitalistico-tecnologica).

Qual è allora lo spazio residuo del poetare, quale il motivo del persistere della scrittura? Vorrei tentare una conclusione, ovviamente saggistica e rivedibile, suggerendo che questo spazio è determinato come necessità soggettiva di riflessione sulla contraddizione e sull’ambiguità del tempo assegnatoci.

Da un lato Fortini si apre, stupefatto, alla misura armonica della natura e dialoga con la poesia classica capace di renderne oggettivamente e mimeticamente i valori; dall’altro riconosce che “la poesia non muta nulla” e nulla si muta, peraltro, in quel presente di cui la sua poesia risulta sempre più intessuta e riempita.

Contemporaneamente, però, se “tutto è da contemplare”, anche è vero che “tutto è da fare”. Il ritorno alla saggezza, alla misura classica e sapienziale non esclude un fare nuovo, un rilancio utopico.

Il desiderio di quest’ultimo non si genera soltanto per ragioni morali, ma - qui sta il punto - obbedisce ad un intenso bisogno poetico e comunicativo: diffondere la frattura della coscienza che il poeta prova e sulla quale ci siamo soffermati, richiamare ogni essere umano, in quanto artefice e latore della parola, all’arbitrarietà del rapporto tra il linguaggio e le cose.

Non perché in generale questo iato sia sanabile, ma perché, pur nella persistenza di un limite strutturale del parlare, la distanza tra la coscienza ed i fattori reali che la generano si raccorci fino ad impedire i fraintendimenti grossolani che oggi la affliggono. Pertanto la poesia non si limita ad esibire la distanza concreta e materialisticamente insuperabile tra la coscienza e la realtà, ma intende favorirne la misura precisa e cosciente.

Perché, se si deve tenere aperta, dialetticamente e profeticamente, la speranza che “tutto sarà veramente” (mentre ora non è: “il tutto è il falso”, suonava l’aforisma adorniano), il senso di questa nostra condizione, “l’uno che in sé si separa e contraddice”, va “fissato” - sopportato e testimoniato (così va parafrasato l’intenso termine tecnico hegeliano) “finché non sia più uno. / E poi torni ad esserlo e ti porti via”.

A noi decidere se questo movimento debba accompagnarci soltanto verso il destino necessario della nostra carne, o piuttosto ad una ragionata ulteriorizzazione del nostro essere sociale, dove il nostro genere si educhi al di là della “passione stomachevole” che lo domina, questa barbarie irragionevole dei nostri tempi opulenti.

Franco Gallo