Terrence Malick
(a cura di Sam Sassoli)
Padre
geologo di origine libanese, madre irlandese, il cognome in arabo significa
“re”,
Mito della
regia, enigmatico ed emblematico, si esprime caratterizzandosi per un
autoisolamento senza compromessi in cui non c’e’ spazio per interviste,
serate di gala
Non a caso
odia la televisione considerata diseducativa e vera e propria spazzatura.
La ricerca
di una sua foto è un’impresa ardua, tanto che, nella notte degli oscar 1999,
nel corso del filmato di presentazione delle nominations alla regia, nella
sequenza a lui dedicata non è apparsa nessuna immagine che lo ritraesse, se non
la sedia della regia con dietro scritto il nome.
Laureato ad
Harward, dopo essersi mantenuto agli studi di psicologia e filosofia lavorando
presso una fattoria, è personaggio eccentrico, poliedrico, non è solo cineasta
eccezionale ma anche insegnante di filosofia, giornalista e pure ornitologo (non
a caso le sue descrizioni della natura sono di grande lirismo e di radiosa
intensità).
La sua è
una cinematografia caratterizzata da una insistente e per ceti versi ardua
narrazione, anche per la presenza di una continua ed ammaliante voce off (voice
over- voce fuori campo).
Questo
dettaglio, tutt’altro che trascurabile, ci fa intuire appieno la poetica di
Malick, percepire il mondo dall’esterno e dall’interno nello stesso
strabiliante modo : la voce off è una narrazione si’ esterna ma che riempie
l’animo e la mente dello spettatore ed ha la capacità di diventare la voce
stessa di chi guarda il film.
In un certo senso il narratore off è, in Malick, il nostro inconscio che a poco poco prevale su di noi.
Questo modo
di procedere si riscontra soprattutto nei primi due film dove le scene, la
trama, il vissuto dei personaggi viene narrato attraverso l’introspezione
individuale dei pensieri.
Diverso è
il caso de “La sottile linea rossa” dove le voci addirittura si
moltiplicano e sfociano nelle più recondite emozioni che diventano stavolta
“corale dell’animo inquieto”, eco tribale di un mondo di silenzi che
sconfina nell’urlo.
Malick
esordisce nella settima arte come autore dell’interessante sceneggiatura di
“Per una
manciata di soldi”, del 1972, diretto da Stuart Rosemberg, con il polveroso e
rigido Lee Marvin e Paul Newmann protagonista e produttore.
Nel 1973 il primo film
come autore “La rabbia giovane”;
si
tratta di un dramma psicologico ispirato ad un fatto di cronaca , lo spettatore
resta in bilico tra coinvolgimento assoluto e distacco feroce dai protagonisti,
due adolescenti che si lasciano dietro, in giro per gli stati uniti, una scia di
omicidi.
I volti dei
fuggiaschi, sono quelli indelebili di due attori ancora acerbi; la splendida
Sissy Spacek, con le gote rosa di chi ancora vive nel mondo dei fumetti, così
adatta a far trasparire tutta l’innocenza e l’alienazione del contesto e poi
il ruggente
Nel
1978 esce nelle sale il suo secondo film “I giorni del cielo”,
premio per la miglior regia al festival di Cannes, ma anche New York film
Critics Award, premio Oscar della fotografia (in 70 millimetri) e tante altre
onorificenze.
Da molti
viene ritenuto il film a colori più bello visivamente parlando; del film va
ricordata anche la splendida colonna sonora di Morricone .L’opera viene
acclamata dalla critica di tutto il mondo; nella storia ancora un dramma
Il cinema
di Malick non somiglia a quello di nessun altro: i suoi personaggi, soprattutto
ne “la sottile linea rossa”, sono soli e sempre disperati, restano a lungo
Le
inquadrature, perfettamente strutturate, sono opportunamente eleganti e i volti
degli interpreti, braccati da spietati primi piani, appaiono in tutta la loro
sconvolgente realtà.
Un cinema
per così dire “bigger than life”, la realtà di Malick è la realtà della
natura come governatrice assoluta degli istinti umani.
Questo
continuo sconfinare corrisponde metaforicamente all’incapacità dell’uomo a
restare dentro la natura, dentro un ambiente naturale strutturato e quindi la
fuga è l’unica alternativa, in un altro stato, in un altro mondo anche, ma
pur sempre si è inseguiti dal destino, componente insita della stessa natura,
primordiale ed eccelsa.
Un altro
aspetto di Malick è una sorta coerente lentezza; lento ad esempio è stato il
parto de “la sottile linea rossa” , tratto da un romanzo autobiografico di
500 pagine di James Jones scritto nel 1962, Malick ha impiegato ben 10 anni per
riadattarlo cercando di mantenere il benché minimo dettaglio dello scrittore.
Lento nella
stessa realizzazione dei film, si pensi che la sottile linea rossa (1998) viene
dopo 20 anni di silenzio, anni nei quali
Terrence si è ritirato in Francia dedicandosi alla sue attività
intellettuali, filosofiche soprattutto e alla realizzazione de “la sottile
linea rossa”.Dopo 20 anni tuttavia la sua lentezza è stata di grande coerenza
e ha portato alla realizzazione di un capolavoro.
La sottile
linea rossa è un allucinato e visionario affresco sugli orrori della guerra e
sullo sperdimento dei soldati di fronte a tale incubo. Incubo sembra essere la
parola più adatta, ben fotografato dalle immagini che sono di un’intensità
disarmante, a volte sfiorano la schizofrenia.
Il cinema
di Terrence malick reca un messaggio fortemente antropologico dove
In
opposizione a Salvate il soldato Ryan di Spielberg, dove c’e’ sempre
qualcuno da salvare e da riportare a casa per un messaggio di speranza finale,
nel cinema di Malick
La fortuna
di Malick e soprattutto l’entrata ormai perenne nella leggenda gliel’hanno
assicurata alcuni collaboratori d’eccezione:
Eppoi certe
atmosfere della campagna americana ne “la rabbia giovane” , ricordano per
certi aspetti i paeasggi di Hopper, sembrano appartenere a un mondo in apparenza
calmo e rarefatto eppure velato da un’’inquietudine sottile e penetrante.
Gli stessi
attori che Malick sceglie sono spesso pienamente azzeccati, pensiamo
I suoi attori sono appieno ciò che il regista desidera, simboli della potenza e della complessità della natura, persone capaci di ruoli alterni, ambigui, in cui comunque il male prevale sul bene. Tutti i film di Malick sono film anzitutto antropologici, persino l’ultimo molto discusso “The new world (2005) dove l’america viene riscoperta in tutte le sue splendide contraddizioni ma dove, come in tutti i suoi film, ciò che conta di più è l’immagine.L’immagine come specchio dell’incontro tra natura e uomo, l’immagine come poesia di un artista che ha saputo coniugare la filosofia al cinema, la storia alla psicologia individuale.