"My Beautiful Laundrette" di Stephen Frears (1985)

Stephen Frears (Inghilterra, 1941). Laureato in legge a Cambridge, ha iniziato a collaborare con il Royal Court Theatre di Londra , dove è assistente di Karel Reisz ( Morgan matto da legare , 1966) e Lindsay Anderson (Sé , 1968) .
Il suo primo lungometraggio è Gumshoe (Sequestro pericoloso), 1972 e solo dodici anni dopo firma il film successivo Il colpo (1984) , con Terence Stamp e John Hurt . Nel frattempo realizza diversi film per la televisione , affinando le proprie capacità e sviluppando una sua originale tecnica basata su un metodico e duro lavoro con attori e sceneggiatori.

Nel 1985 , My Beautiful Laundrette lo impone all’attenzione internazionale : narra , con grande humour e freddezza pungente , il rapporto d’amore trasgressivo tra un giovane pakistano e un padrone inglese e razzista. Interpretato eccellentemente, il film è scritto con lo scrittore anglo-pakistano Hanif Kureischi , una collaborazione continuata nel 1987 con Sammy e Rosie vanno a letto (VEDI SCHEDA SOTTO) , anche questa una storia d’amore interrazziale, questa volta eterosessuale.

Dopo Prick Up – L’importanza di essere Joe (1987) , adattamento cinematografico della biografia di Joe Orton scritta da John Lahr , a Frears si aprono le porte di Hollywood per la trasposizione del romanzo epistolare ottocentesco di Choderlos de Laclos , Le relazioni pericolose (1988), Interpretato da John Malkovich , Michelle Pfeiffer, Glenn Close .
Sempre negli Usa realizza, nel 1990 , Rischiose abitudini, prodotto da Scorsese , considerato da molti la sua opera migliore : un noir teso, cattivo e moderno; nel 1992 Eroe per caso , con Dustin Hoffman , Geena Davis e Andy Garcia , e infine Mary Reilly (1996) , con Julia Roberts e John Malkovich. 

In Gran Bretagna dirige due film tratti dai romanzi di Roddy Doyle e ambientati in un sobborgo di Dublino : The Snappers (1993) e Due sulla strada-The Van (1996).

Ancora , The Hi-Lo Country (1998) , Alta fedeltà (2000) con John Cusak e , sempre nel 2000 Liam.

MY BEAUTIFUL LAUNDRETTE

Regia: Stephen Frears  
Genere: Drammatico  
Soggetto: Hanif Kureishi 
Sceneggiatura: Hanif Kureishi 
Fotografia: Oliver Stapleton 
Musiche: Stanley Myers, Ludus Tonalis 
Montaggio: Mick Audsley 
Scenografia: Hugo Luczyc-Wyhowski 
Interpreti: Gordon Warnecke (Omar), Daniel Day-Lewis (Johnny), Roshan Seth (padre di Omar), Saeed Jaffrey (Nasser), Derrick Branche (Salim), Rita Wolf (Tania), Souad Faress (Cherry), Shirley Annefield (Rachel) 
Produzione: Sarah Radclyffe, Tim Bevan per Working Title Films 
Distribuzione: Imc, Ventana 
Origine: Gran Bretagna 
Anno: 1985 
Durata: 94 min.

Trama: Nella comunità pakistana di Londra, l'anziana madre di Omar raccomanda al più fortunato suo fratello Nasser - ricco, attivo, con famiglia e amante - l'unico figlio Omar. Lo zio lo assume come lavamacchine, poi, convinto dalle attitudini del nipote, lo prende a ben volere: il giovanotto è pieno di idee, propone di assumere lui la gestione di una vecchia lavanderia del congiunto, mette insieme un pò di soldi (all'uopo fa anche il corriere della droga tra il quartiere e l'aeroporto), riammoderna locali e macchinari e comincia ad andar benino. Gli è socio in affari Johnny, un compagno di infanzia che è un gay come lui e che per lui e quel lavoro smette di fare il balordo da suburbio in una combriccola di teppistelli e picchiatori. Alla fine la gestione ha successo: il denaro per l'avviamento viene restituito, il padre di Omar sarà un po' deluso (sognava per il ragazzo impegni culturalmente più rilevanti), la cugina Tania, innamorata di Omar, si uccide (lui ha altro per la testa) e i teppistelli saranno sconfitti in uno scontro.

Critica: C'era una volta la British Film Renaissance. Se ne è parlato in convegni, rassegne, articoli di giornale cercando di afferrarne la consistenza effettiva e una possibile coerenza di temi e di stile. È stata indicata come un esempio di cinema europeo in alternativa al dominio americano, esattamente come era stato fatto negli anni settanta per il Nuovo Cinema Tedesco. Si è giunti a descrivere Channel 4 con accenti edenici, come la “televisione che lavora per il cinema”.
Tutto vero e anche motivato. Ma oggi, a metà dei 1987, mi sembra che quella stagione (non chiamiamolo movimento, perché non corrisponderebbe comunque a verità) sia giunta alla fine, per esaurimento naturale. E che My Beautiful Laundrette ne rappresenti l'ultimo e più felice prodotto, quello che riunisce le migliori caratteristiche produttive, stilistiche e tematiche della British Film Renaissance. Produttive: l'impegno finanziario di Channel 4, l'abilità di Sarah Radclyffe (un nome che si trova nei credits di molti dei migliori film inglesi degli ultimi anni), del regista e dei suoi tecnici nello sfruttare al massimo un budget non elevato. Stilistiche: un cinema di sceneggiatura e di attori, in cui la parola e i dialoghi hanno altrettanta importanza delle immagini, ma sempre capace di evitare le trappole dei teatro filmato. Tematiche: un'acuta analisi della realtà sociale, osservata con humour e ironia, un atteggiamento provocatorio (si parla di gay e di razzismo come fatti quotidiani, non come “problemi”) e insieme attento ai sentimenti.
Non è un caso che a firmare questo piccolo gioiello non sia un “grande”, ma Stephen Frears, quello che comunemente viene definito un “onesto artigiano”. In realtà Frears ha vissuto tutte le tappe che hanno portato all'esplosione della British Film Renaissance e My Beautiful Laundrette si presenta perciò come il logico risultato di un
processo creativo cominciato molto tempo fa. Dopo l'inevitabile tirocinio teatrale e alcune esperienze come aiuto-regista al fianco dei santoni del Free Cinema (Reisz, Anderson, Albert Finney) Frears esordisce nel lungometraggio a trent'anni, nel 1971, con Gumshoe (lo si può vedere ancora su qualche rete privata italiana sotto il titolo). Gumshoe è ancora oggi un film molto bello, una brillante parodia dei film noir classico con un grandissimo Albert Finney come protagonista. Poi televisione per otto anni: e negli autori della British Film Renaissance l'importanza dei tirocinio alla BBC non sarà mai sopravvalutata. Un film-tv del 1979, Bloody Kids, troverà poi anche una limitata circolazione nei cinema, così come il successivo Saigon: Year of the Cat (1983). Ma Bloody Kids (che narra le peripezie di una coppia di ragazzi terribili nei sobborghi londinesi) è importante per notare la felice mano di Frears nella descrizione dei temi sociali (il Free Cinema è morto, ma non dimenticato).
Tentato dalla grande produzione multinazionale Frears si presenta a Cannes nel 1984 con il patinato The Hit, altra incursione nel film noir. Il prodotto è ben confezionato, godibile ma innegabilmente “inglese” nel senso negativo del termine. Il resto è storia recente: la proposta dell'“impossibile” sceneggiatura di Hanif Kureishi, la realizzazione di My Beautiful Laundrette, la presentazione al festival di Edimburgo, l'enorme successo del film in patria e in tutto il mondo.
“Oggi come oggi tutto è talmente orribile che se si scrivesse dei puro realismo sociale la gente non riuscirebbe neanche ad avere la forza di guardarlo”, ha dichiarato Kureishi in un'intervista. Qual è dunque il segreto della riuscita di My Beautiful Laundrette, poiché, senza dubbio, quello che viene messo in scena è realismo sociale: le divisioni di classe, la questione razziale, il sesso come mezzo per ottenere il successo? La risposta, probabilmente, non sta tanto in una formula teorica o di genere, ma in quell'impalpabile qualità che è l'incontro di due talenti personali. Alcune considerazioni sono però da farsi, a cominciare dall'amoralità del film.
Siamo stati abituati da una tradizione hollywoodiana e inglese ad aspettarci, quando c'è di mezzo la denuncia sociale, il melodramma, gli eroi, lo scontro del bene e del male. In My Beautiful Laundrette non c'è niente di tutto questo. Lo sguardo di Frears e Kureishi è disincantato al limite del cinismo, a cominciare dalla storia d'amore tra Omar e Johnny. Nel rapporto omosessuale tra i due non c'è il minimo senso di dannazione o di problematica “diversità”: semmai, solo l'ironia della deliziosa scena dell'inaugurazione della lavanderia, quando Nasser e l'amante ballano rapiti mentre nel retro i ragazzi si baciano. Sembra che nella Gran Bretagna thatcheriana i concetti di moralità e di giustizia siano solo il retaggio di un lontano passato, quello del padre di Omar, vecchio intellettuale di sinistra dedito irrimediabilmente alla bottiglia. Peraltro anche questo personaggio, egli stesso autoironico nei confronti della sua condizione di relitto della storia, è caratterizzato con mano felicissima: deliziosa la scena in cui Omar (e il pubblico con lui) crede che il padre sia morto e ne viene invece sbeffeggiato. Siamo negli anni ottanta e non c'è morte o catarsi che tenga: e se parliamo di purificazione è solo perché abbiamo a che fare con una lavanderia a gettone...
In questa prospettiva la figura di Omar costituisce un'interessante variazione sul motivo dell'arrampicatore sociale, un soggetto ben noto al cinema inglese a cominciare dal Joe Lampton di Room at the Top. Il ragazzo non ha alcuna di quelle connotazioni sgradevoli che di solito si associano alla figura dell'arrivista. È semplicemente qualcuno che ha imparato la lezione secondo cui funziona tutto il resto della società: il suo rapporto di amore-sfruttamento nei confronti di Johnny è esemplare. Questa relazione è la cartina di tornasole di tutto il film. Oltre che trasgressiva, essa si fonda su un rovesciamento dei ruoli consueti: è l'immigrato a detenerne il potere e questo consente a Johnny di poter assumere a un certo punto gli imprevedibili panni dei moralista, quando si accorge che Omar assomiglia sempre di più a Salim. La posizione di Omar riflette evidentemente quella di Hanif Kureishi: membro di una nuova generazione dell'immigrazione, sfruttato-sfruttatore del sistema, e abbastanza intelligente da capire che la scintilla della ribellione non cova più tra la sua gente, ma può brillare all'improvviso dalle strane alchimie etniche e sociali di un paese in crisi irreversibile. Se gli ideali sono morti con la mercificazione della vita, resta almeno la speranza di un progresso che nasca dal rispetto reciproco degli individui.
La società descritta da My Beautifut Laundrette è un organismo nel quale il ribaltamento hegeliano dei rapporto servo-padrone si è completamente realizzato. Mentre i disoccupati inglesi ciondolano per le strade senza futuro, i pakistani prosperano con ogni tipo di attività lecita e illecita. La legge dei commercio, che non guarda in faccia a nessuno, parla in loro favore. My Beautiful Laundrette mostra con arguzia il modo in cui le due culture si sono compenetrate e il prezzo pagato dai pakistani di successo per inserirsi. Nasser, che a casa sua replica con inerzia le strutture arcaiche della famiglia patriarcale, mantiene un'amante bianca che è insieme uno status symbol e una relazione sincera. Salim si circonda dei più costosi oggetti dei consumismo occidentale ed è proprio sulla sua macchina che gli ex compagni di Johnny sfogano il loro livore razzista. Nello stesso Omar la fascinazione per l'amico sembra originare dalla medesima radice da cui scaturiva l'amore di Sakamoto per il David Bowie di Furyo. Le vere vittime di questo stato di cose sono, come sempre, le donne: Rachel, abbandonata da Nasser e perseguitata dal malocchio procuratole dalla legittima consorte dell'amante; quest'ultima, che per tutto il film appare come una figura remota e disancorata, salvo dimostrare alla fine di possedere arcani poteri perfettamente funzionanti anche nella Londra contemporanea; ma soprattutto Tania, il personaggio più triste della storia. Disgustata dal cinismo del padre, incapace di guadagnare Omar alla sua rivolta, Tania è il segno di una disillusione profonda, di un acuto disagio generazionale. Se, alla fine del film, i due ragazzi - in una bellissima, pudicissima scena d'amore - hanno almeno ancora se stessi, Tania è una dropout senza alternative.
È notevole che nella sua complessa trama di incidenti e relazioni My Beautiful Laundrette non perda mai di vista i suoi personaggi, che risultano sempre perfettamente a fuoco e ben delineati, sempre ambiguamente in bilico tra la condizione di vittima e quella di persecutore. Lo fa con il tono di una commedia acre che non diventa mai grottesca, ancorché alcune sequenze (come l'inaugurazione della lavanderia) vi si prestassero fin troppo facilmente. Frears, come già in Bloody Kids, va a cercare un'impertinente evidenza che sta nelle cose come sono, senza lasciare spazio alla satira e concedendone piuttosto - con grande senso drammatico - al sentimento. È questo un aspetto del film che è stato sottolineato con enfasi anche da Kureishi: “Uno dei problemi degli scrittori di colore è che spesso vengono misurati a seconda della rabbia che mettono nelle loro opere. È come se non si potesse fare a meno di essere arrabbiati. Si è sempre detto di James Baldwin che era arrabbiato e pieno di furore: mentre nessuno lo chiede a Saul Bellow. È una trappola preparata dai bianchi per la gente di colore, una trappola in cui questi ultimi sono felici di cadere. È accaduta la stessa cosa alle femministe - e, ovviamente, è tutto falso”.
Dalle parole di Kureishi si intuisce una deliberata intenzione di non inasprire i motivi più controversi dei soggetto a livello di sceneggiatura e di realizzazione, ma c'è un altro aspetto della questione che è stato raramente preso in considerazione. My Beautiful Laundrette, come tanti altri film inglesi degli ultimi anni (a cominciare da Another Time, Another Place), non è stato girato in primo luogo per il cinema, ma per la televisione. E se è consolante notare con quanta disinvoltura il film regge la presentazione sul grande schermo, un occhio attento non può fare a meno di accorgersi che i tempi e il montaggio del film sono tipicamente televisivi.
Tutto questo ha sicuramente una spiegazione storica, a partire dalla grande tradizione della BBC (in epoca pre-Channel 4) nel campo degli sceneggiati a sfondo sociale. Tanti registi della British Film Renaissance si sono fatti le ossa in questa “accademia”, tanto più valida delle tristi rincorse RAI alle demenzialità berlusconiane. Quello che però stupisce - e che forse alla fine resterà come la lezione più duratura della British Film Renaissance - è la trasformazione pressoché indolore (e al di là di ogni teorizzazione Iinguistica) del codice di comunicazione televisivo in codice di comunicazione cinematografico. Fenomeno, questo, che meriterebbe di essere investigato più a fondo dal punto di vista del pubblico: che differenza (e che diversità di aspettative) c'è tra gli spettatori del piccolo schermo che si vedono programmare My Beautiful Laundrette in una qualsiasi serata di trasmissione e la massa di quelli che ne hanno decretato il successo dovunque è uscito? A meno di pensare, come sembra fare qualcuno, che siano omosessuali...
In questa prospettiva non è una sorpresa leggere che il film era stato progettato all'inizio come “qualcosa di simile a Il padrino”, un miniserial di quattro ore la cui storia si sarebbe svolta dal 1945 al giorni nostri. My Beautiful Laundrette ritiene parte di questo impianto di grande saga familiare per il piccolo schermo e in una forma che sembra proprio incontrare il gusto dei pubblico cinematografico. Le piccole storie che si intrecciano intorno alla lavanderia “Powders” non si sviluppano regolarmente, secondo i dettami della trama cinematografica classica, ma quasi per accumulo, per somma di tante notazioni, un po' come le vicende delle interminabili sitcom. Lo stesso finale, pur così preciso e delicato, è talmente sottotono che ci potremmo aspettare di rivedere Omar e Johnny in una prossima, ipotetica puntata.
La felicità creativa di My Beautiful Laundrette indica uno dei modi in cui il cinema europeo potrebbe trovare la sua autonomia dal colosso americano: con una maggiore attenzione per la realtà sociale e con una rielaborazione intelligente del linguaggio televisivo. Una formula apparentemente semplice, così come “semplice” è, in fin dei conti, il film di Frears. Ma, come ben si sa, sono sempre le cose semplici a essere le più difficili.