Mulholland Drive

di David Lynch

Fr.-USA 2001 - Durata 146 Min. REGIA di David Lynch con Naomi Watts, Laura Elena Harring, Justin Theroux, Ann Miller, Robert Forster.

Ultimo lungometraggio firmato da David Lynch, nasce ufficialmente come il pilot di una serie televisiva abortita dalla “Abc”. Archiviato dalla popolare rete americana con l’accusa di incomprensibilità, il pilot diventa un lungometraggio grazie al francese Alain Sarde e al suo “Studio Canal”, che già aveva collaborato col regista per The Straight Story (Una storia vera, 1999). Con Mulholland Drive il cerchio “ambiguo”, secondo un’accezione di Dario Tomasi, sembra chiudersi definitivamente. Non solo per la totale, lucida coerenza di una mente che da quasi trent’anni si nutre e alimenta l’immaginario cinematografico contemporaneo (dimostrando l’autorialità di questo regista), ma soprattutto per ciò che il suo “mondo virtuale” significa all’interno del “mondo reale” del cinema. Mulholland Drive infatti, è “una storia d’amore nella città dei sogni”, ma anche un piccolo aneddoto sui tortuosi ingranaggi dello spettacolo, un’ indagine onirica sul bene e il male, e ovviamente... mille altre cose. Un gruppo di ballerini modello anni Cinquanta, si muovono a suon di musica su uno sfondo viola. Stacco. Una giovane donna bionda (Naomi Watts) sorride, immersa in una luce accecante. Stacco. Un letto vuoto, le lenzuola, la coperta, un cuscino rosso. Dissolvenza in nero. Ancora la dimensione onirica del racconto, il suo andamento a spirale, il gioco delle identità; e poi il desiderio e la sua negazione, il nano, la Stanza Rossa in cui si muovono inquietanti personaggi (non lontana da quella di Fire Walk with Me)... I topoi lynchiani sono sempre quelli. Eppure in quest’ultima opera firmata dal regista del Montana, entra in gioco qualcosa in più, un elemento che sembra portare a compimento quella poetica che abbiamo definito del “sublime espressionista postmoderno”. L’elemento in questione è il cinema stesso, inteso come focalizzazione sui meccanismi nascosti dello spettacolo: la facoltà di creare sogni per poi arbitrariamente distruggerli, l’intreccio delle parti, il gioco dei ruoli, l’importanza delle gerarchie all’interno di un mondo dorato dove tutto e il contrario di tutto risultano realmente possibili. Tralasciando per un momento il contenuto in fondo  lineare della storia d’amore saffico finita in rovine, Mulholland Drive presenta una serie intrecciata di personaggi e vicende che al solito porta con sé i connotati del “lynchianismo” puro. Primo elemento da ricordare, quel piccolo cubo blu, pescato fra le cianfrusaglie e gli avanzi di un misterioso barbone, rifugiato sul retro di un diner della catena Winkies. Un oggetto pronto a testimoniare che lo scambio di mondi è possibile, e che spesso a manovrarne misteriosamente i fili non è proprio la fatina buona del mago di Oz.  David Lynch costruisce ogni inquadratura del suo universo astratto e simbolico con minuzia e precisione, non lasciando mai nulla al caso (a meno che il caso non vi si infili di proposito), né al gratuito: non tenta di aprire false piste giocando con lo spettatore - nella più classica “maniera” postmoderna - al cruciverba audiovisivo provocatorio e destrutturato. Anche quando “non significa”, ogni inquadratura “significa” sempre, direbbe Wallace, e ha ragione. In realtà Lynch, esercitando il controllo assoluto su ogni singolo elemento linguistico, mai si trova a sollecitare gratuitamente l’irrazionalità, piuttosto si dimostra sempre rivolto alla creazione di un “disegno retorico fondato sulla messa a punto di un dispositivo emozionale spinto al massimo, (che) non mira alla confusione”. Mulholland Drive si presenta diviso in due segmenti, sulla scia del precedente Lost Highway (di cui sembrerebbe rappresentare quasi una versione “al femminile”). In una delle inquadrature iniziali, riconosciamo la soggettiva di un cuscino che, sarà chiaro soltanto dopo, è quella di Diane che si appresta ad adagiarsi sul letto. Ciò che segue da questo momento in poi, potrebbe essere tanto la simulazione virtuale di un sogno, un “sogno pre-morte” in cui Diane immagina una vita felice da attrice in carriera e amante ricambiata, quanto la visione ultraterrena di un “sogno post-mortem” in cui la donna vede realizzati i sogni terrestri. O in modo ancora più semplice, a diventare visibile sullo schermo potrebbe essere il costante scambio di dimensioni e identità parallele con cui il cinema di Lynch da sempre si diverte (con “coscienza”) a giocare. Il progetto di un cinema come “scrittura del sogno” allora, rimane coerente fin da Eraserhead, “cinematizzazione” di un incubo personale del regista sul tema della generazione e della paternità. Con Mulholland Drive l’incubo s’ intreccia al sogno, che a sua volta si presenta legato al meccanismo cinematografico, il cui potere mitopoietico risucchia irreparabilmente vita e relazioni umane. La narrazione si dipana ancora una volta all’insegna della circolarità (apparente): una strada percorsa a folle velocità verso le lost highways prima, una luce in cui Diane sorride, lontana dalla sofferenza, adesso. La struttura ellittica del racconto, pur presentando continue sfasature ed elementi variamente disarmanti (vedi la sequenza iniziale dell’uomo letteralmente “spaventato a morte” dalla visione onirica di un barbone), non si risolve nel capovolgimento della narrazione, né sembrerebbe renderla in qualche modo impercorribile. La messa a punto di precise “rotture di equilibrio” all’interno del racconto, veri “buchi neri” dosati e calibrati attentamente nel corso della diegesi, non diviene mai sinonimo di “antinarrazione”; piuttosto sembra voler assumere i connotati di una precisa riflessione sui meccanismi di significazione in atto al cinema, di stampo postmoderno. Se poi a questo, aggiungiamo la spinta continua verso una forma archetipica di “mistero” (che coincide significativamente con il concetto di “enigma contemporaneo” di impronta borgesiana), una poetica che fa deflagrare i concetti di spazio e tempo attraverso la definizione di “spazi percettivi” e la “detemporalizzazione” degli eventi, un discorso filmico intertestuale costellato di riferimenti al medium spettacolare, e infine una serie di immagini (e suoni) rivolta alla produzione di un unico “feeling”, secondo le parole stesse del regista, avremo ancora una volta quello che chiamiamo un “cinema espressionista e postmoderno”. Perfino il dato acustico, infatti, risulta subordinato a questo progetto generale, di dar forma a un mondo onirico-surreale (inconscio), non troppo lontano dal nostro quotidiano, fatto anche di materia cinematografica (citazioni intertestuali), col fine ultimo di rappresentare un unico, totalizzante e polisensoriale “stato emotivo”. Il cinema lynchiano allora, può dirsi espressionista, ma può definirsi anche postmoderno nella misura in cui, piuttosto che capovolgere radicalmente il linguaggio cinematografico, tenta di renderlo “inservibile”, quasi “inutile”, suggerendo nuovi approcci (quello di assumere “alla lettera” il senso delle sue storie assurde è uno di questi), e dimostrando la velleità di un progetto interpretativo finora basato (quasi esclusivamente) sull’applicazione di procedimenti logico-analitici. Può dirsi “postmoderno”, inoltre, perché oltre a dare una sferzata di energia al concetto di “consumo filmico” e di ricezione del prodotto audiovisivo (grazie al suo tipico coinvolgimento emotivo, percettivo e sensoriale), si rende al tempo stesso portavoce delle angosce dell’uomo contemporaneo, della perdita dei punti di riferimento in una società opprimente e dominata dall’immagine mediale. Di qui il passo è breve verso quella poetica ibrida, tipicamente lynchiana, di “macabro + banale”, descritta brillantemente da Wallace. Risultato di questa bizzarra equazione sembra essere una sorta di “macabra ironia del quotidiano” d’impronta postmoderna. E di questa sottile ironia (esclusa dai primi cortometraggi, come da Elephant Man), sarebbero “portatori sani” Eraserhead, Blue Velvet, Fire Walk with Me, Lost Highway e anche Mulholland Drive. L’“ironia del macabro” nel cinema di Lynch, si scopre allora quintessenza del postmoderno, in quanto realizza la medesima operazione ibrida che unisce contenuti alti e bassi, portando a compimento l’identico meccanismo sotteso al palinsesto televisivo: la fusione simultanea di vita reale e fiction, di cronaca nera e videoclip pubblicitario, in una parola di infinitamente macabro e infinitamente banale. Tornando a noi, Mulholland Drive ritrova “il tema del doppio come convergenza perturbante dell’identico e del diverso”, com’era già successo in Lost Highway, e come sempre nelle visioni deliranti dei film di Lynch. Betty rappresenta tutto ciò che Diane avrebbe voluto essere, Rita è colei che Diane avrebbe voluto amare. Un gioco di relazioni reali e fittizie, ma soprattutto di sentimenti e percezioni ambiguamente “familiari”. Infatti Mulholland Drive è anche un film che indaga sulla natura paradossale e grottesca del quotidiano. I fratelli Castigliani, la coppia di vecchietti, l’uomo in preda a incubi “mortali”, la strage involontaria compiuta dal killer nel tentativo di rubare il libro nero di Ed (ma poi chi è questo  Ed? e che cosa è contenuto nel libro nero?), sono tutti frammenti di storie introdotti e lasciati sospesi dal regista (oltre che per il motivo contingente che il film nasce come un serial), per meditare su fatti reali, e per confermare ancora una volta il fatto che di “macabro” e “banale” sia impregnata la vita di ogni giorno.